2. Il “Confiteor”

II. IL CONFITEOR

La santa Chiesa impiega qui la formula di confessione che lei stessa ha creato e che risale all’VIII secolo. Non è permesso né aggiungere né togliere alcunché. Questa preghiera usufruisce della prerogativa di tutti i sacramentali: la sua recitazione apporta la remissione dei peccati veniali di cui si ha contrizione. Dio, nella sua bontà ha voluto che altri mezzi, oltre il sacramento della Penitenza, possano cancellare i peccati veniali; ed è per questo che ha ispirato alla sua Chiesa l’uso dei sacramentali.
Il sacerdote comincia dunque la confessione e si accusa in primo luogo davanti a Dio; ma sembra dire: «Non voglio confessarmi solo a Dio, ma ancora a tutto ciò che è santo, perché tutti coloro davanti ai quali accuso le mie colpe domandino perdono per me e con me». Così si premura di aggiungere: «Confesso alla Beata sempre Vergine Maria». Senza dubbio egli non ha offeso la santa Vergine, ma ha peccato avanti ad essa, e questo pensiero gli basta per motivare la confessione e che fa anche a Lei. Passa poi all’arcangelo San Michele, così grande e così potente, preposto alla custodia della nostre anime, soprattutto al momento della morte. Si confessa ugualmente a san Giovanni Battista, che nostro Signore ha tanto amato e che è stato suo precursore; poi a San Pietro e a San Paolo, i principi degli Apostoli.
Certi Ordini religiosi hanno ottenuto di aggiungere il nome del loro padre o fondatore del loro Ordine. E così che noi benedettini aggiungiamo San benedetto; i domenicani San Domenico; i francescani a San Francesco, etc.
Infine il sacerdote si rivolge, in questa confessione, a tutti i circostanti, aggiungendo: Et vobis fratres; perché, umiliandosi come peccatore, non solamente si accusa davanti a coloro che sono già glorificati, ma anche davanti a tutti i presenti. E, non contento di dire che ha peccato, egli aggiunge in quale modo, cioè in pensieri, parole e opere: cogitatione, verbo et opere, che sono i tre modi mediante i quali l’uomo può peccare.
Volendo esprimere poi che ha peccato volontariamente, per tre volte lo dice con queste parole: mea culpa; e, per testimoniare insieme al pubblicano del Vangelo i suoi sentimenti di penitenza, si percuote il petto tre volte, mentre dice che ha peccato per sua colpa. Sentendo il bisogno di ricevere il perdono, si ripresenta a tutte le creature glorificate davanti alle quali si era accusato, le invoca e domanda loro, così come ai fratelli presenti, di pregare per lui.
A proposito di questa formula di confessione stabilita dalla santa Chiesa, diciamo – di passaggio – che può essere sufficiente a una persona in pericolo di morte e incapace di fare una confessione più esplicita.
I ministranti rispondono al sacerdote con un voto «Il Signore abbia misericordia di Te…», a cui il prete, rimanendo inclinato, aggiunge Amen. Questa risposta in forma di voto è una supplica alla misericordia di Dio per il celebrante.
Ma i ministranti hanno loro stessi bisogno di perdono; ed è per questo motivo che, a loro volta, con la stessa formula, fanno la confessione dei loro peccati non più però a dei fratelli, et vobis fratres, ma al sacerdote, che chiamano «padre»: et tibi Pater.
Non è mai permesso di cambiare qualunque cosa di ciò che la santa Chiesa ha stabilito per la celebrazione della Messa; così nel Confiteor i ministri devono sempre dire semplicemente et tibi Pater, et te Pater, senza aggiungere nessuna specificazione, anche se servissero la Messa al Papa.
Quando i ministri hanno pronunciato questa formula di confessione, il sacerdote fa per essi la stessa supplica che questi avevano fatto per lui; essi rispondono ugualmente con amen.
Viene poi una specie di benedizione, Indulgentiam, mediante la quale il sacerdote domanda per lui e per i suoi fratelli il perdono e la remissione dei peccati, facendosi il segno della croce; egli pronuncia la parola nobis e non vobis, mettendosi insieme ai ministri, unito a loro nella supplica comune.
Una volta terminata la confessione, il sacerdote si inclina di nuovo, ma meno profondamente di come aveva fatto al Confiteor. Egli dice: Deus tu conversus vivificabis nos «O Dio, con un solo sguardo ci donerai la vita»; e i ministri: Et plebs tua laetabitur in te, «E il tuo popolo si allieterà in te»; subito dopo: Ostende nobis, Domine, misericordiam tuam, «Mostraci, Signore, la tua misericordia»; Et salutare tuum da nobis, «E donaci il Salvatore che hai preparato».
Questi versetti sono recitati da tempi antichissimi. L’ultimo è una parola del re David, che domanda il Messia nel salmo LXXXIV Benedixisti Domine terram tuam (Hai benedetto, Signore, la tua terra); perché durante la Messa, prima della consacrazione, noi attendiamo il Signore analogamente a coloro che, prima dell’incarnazione, attendevano il Messia promesso alle nazioni. Con la parola misericordiam, usata dal Profeta, non va intessa la bontà di Dio. No, noi domandiamo a Dio che si degni di inviare colui che è la sua Misericordia e la sua Salvezza, cioè Colui per il quale verrà a noi la salvezza. Questa parola del salmo ci trasporta completamente al tempo dell’Avvento, durante il quale noi non cessiamo di domandare Colui che sta per venire.
Dopo questo, il sacerdote domanda a Dio che si degni di esaudire la sua preghiera; poi saluta il popolo dicendo Dominus vobiscum «Il Signore sia con voi». È come un saluto che indirizza ai suoi fratelli nel momento solenne in cui sta per varcare i gradini dell’altare, e, come Mosè, sta entrando sotto la nube (cf Es XXIV, 18). I ministri gli rispondono, per conto del popolo, con queste parole: et cum spiritu tuo, «e con il tuo spirito».
Preparandosi a salire all’altare, il sacerdote dice: Oremus «Preghiamo», allarga le mani e le ricongiunge. Ogni volta che dice questa parola, agisce nel solito modo, perché si dispone a pregare, e perché, per pregare si stendono le mani verso Dio, che è in cielo e a cui ci si indirizza. Così aveva pregato Nostro Signore sulla croce. Nella preghiera che il sacerdote dice salendo i gradini, egli parla al plurale, perché non sale da solo; il diacono e il suddiacono salgono con lui, l’accompagnano e lo servono.
Il pensiero dominate del sacerdote, in questo momento solenne, è quello di purificarsi, perché, come egli stesso dice, sta entrando nel «santo dei santi»: ad Sancta Sanctorum, usando questo superlativo ebraico per esprimere la grandezza dell’azione che si accinge a compiere. Domanda dunque che i suoi peccati saino rimossi, pregando anche per i ministri. Più ci si avvicina a Dio, più si sentono anche le minime macchie che sporcano l’anima; il sacerdote sente dunque il bisogno di purificarsi ancora e lo domanda a Dio. Ha già detto Deus tu conversus vivificabis nos Ostende nobis, Domine, misericordiam tuam. Ma, poiché si accosta di più a Dio, egli teme e raddoppia le sue preghiere per ottenere il perdono. Varca i gradini dicendo questa preghiera: Aufer a nobis, quaésumus, Dómine, iniquitátes nostras: ut ad sancta sanctórum puris mereámur méntibus introíre. Per Christum Dóminum nostrum. Amen; «Togli da noi, o Signore, le nostre iniquità: affinché con animo puro possiamo entrare nel Santo dei Santi. Per Cristo nostro Signore. Cosi sia.»
Giunto all’altare, il sacerdote posa le mani giunte sull’altare, e poi lo bacia. Questo bacio dell’altare è qui un segno di rispetto per le reliquie dei santi, che vi sono contenute. Egli fa un’altra preghiera nella quale domanda che i peccati siano perdonati: peccata mea «i miei peccati»; ma la comincia dicendo: Oramus te, «noi ti preghiamo», perché tutti coloro che assistono al sacrificio devono avere per il sacerdote un sentimento filiale e pregare con lui e per lui.

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