Storia del Tempo pasquale

CENNO STORICO SUL TEMPO PASQUALE

Definizione del Tempo Pasquale.

Si dà il nome di Tempo Pasquale al periodo formato dalle settimane che decorrono dalla Domenica di Pasqua al Sabato dopo la Pentecoste. Questa è certo la parte più sacra dell’anno, perché ad essa converge l’intero ciclo liturgico. Ce ne renderemo conto facilmente considerando l’importanza della festa di Pasqua, chiamata fin dagl’inizi del Cristianesimo la “Festa delle feste”, la “Solennità delle solennità”, allo stesso modo, ci dice il papa san Gregorio, per cui la parte più sacra del Tempio di Gerusalemme si chiamava “Santo dei Santi” e tuttora si dà il nome di “Cantico dei cantici” al sublime epitalamio dell’unione del Figlio di Dio con la santa Chiesa. È infatti nel giorno di Pasqua che la missione del Verbo incarnato, fino ad ora sempre tesa a questa meta, raggiunge la pienezza del suo compimento; è nel giorno di Pasqua che il genere umano viene risollevato dalla sua caduta e rientra in possesso di tutto ciò che aveva perduto per il peccato di Adamo.

Il Cristo vincitore.

Il Natale ci aveva dato un Uomo-Dio; tre giorni fa abbiamo raccolto il suo sangue di un valore infinito per il nostro riscatto; ma all’alba della Pasqua non abbiamo più sotto i nostri occhi una vittima immolata, vinta dalla morte: è il trionfatore che l’ha annientata perché figlia del peccato, e che proclama la vita, quella immortale che ci ha riconquistata. Non è più l’umiltà delle fasce, non sono più gli spasimi dell’agonia e della croce; è la gloria, prima per Lui, poi per noi. Nel giorno di Pasqua Dio restaura nell’Uomo-Dio risuscitato la sua opera iniziale; il passaggio della morte non ha lasciato maggior traccia di quella del peccato, di cui l’Agnello divino si era degnato prendere la somiglianza; e non è solo Lui che torna alla vita immortale, ma tutta intera l’umanità. “Poiché per mezzo di un uomo è venuta la morte, ci dice l’Apostolo, anche per mezzo di un uomo vi è la risurrezione dei morti. E come tutti muoiono in Adamo, così tutti in Cristo saranno vivificati” (1Cor 15,21-22).

La preparazione della Pasqua.

L’anniversario di questo evento è dunque il giorno più grande, il giorno di allegrezza, il giorno per eccellenza, quello a cui tutto l’anno converge, quello su cui esso si fonda.

Ma proprio perché questo giorno è santo fra tutti gli altri, perché ci apre la porta della vita celeste nella quale entreremo risuscitati come Cristo, la Chiesa non ha voluto che venisse a splendere su di noi senza che avessimo prima purificato il nostro corpo per mezzo del digiuno e restaurato con la compunzione le nostre anime. È a questo fine che ha istituito la penitenza quaresimale e che, fin dalla settuagesima, ci avverte che è venuto il momento di aspirare alle gioie purissime della Pasqua e di disporre l’animo nostro ai sentimenti che deve infonderci il suo avvicinarsi.

Ed ecco che ormai abbiamo terminato di prepararci e il Sole della Risurrezione si alza su di noi!

Santità della domenica.

Ma non era sufficiente celebrare il giorno solenne che ha visto Cristo, nostra Luce, sfuggire all’ombra del sepolcro; un altro anniversario reclamava pure il nostro culto riconoscente.

Il Verbo incarnato è risuscitato il primo giorno della settimana, lo stesso giorno in cui, Verbo increato del Padre, aveva cominciato l’opera della creazione, sprigionando la luce dal seno del caos, separandola dalle tenebre e dando così inizio al giorno dei giorni. Nella Pasqua dunque il nostro divino risuscitato consacra la domenica una seconda volta e da allora il sabato cessa di essere il giorno sacro della settimana. La nostra risurrezione, compiutasi in Nostro Signore Gesù Cristo una domenica, completa la gloria del giorno iniziale; il precetto divino del sabato soccomberà insieme con tutta la legge mosaica; e gli Apostoli d’ora in avanti ordineranno ai fedeli di santificare il primo giorno della settimana, nel quale la gloria della creazione si unisce a quella della divina rigenerazione.

Data della festa di Pasqua.

La risurrezione dell’Uomo-Dio era avvenuta di domenica; la sua commemorazione, quindi, non poteva aver luogo in un altro giorno della settimana. Era perciò necessario separare la Pasqua dei Cristiani da quella degli Ebrei, la quale, fissata irrevocabilmente al quattordici della luna di marzo, anniversario dell’uscita del popolo dall’Egitto, cadeva ora in uno, ora in un altro dei giorni della settimana. La loro Pasqua non era che una figura: la nostra è la realtà, dinanzi alla quale l’ombra svanisce. Fu necessario dunque, che la Chiesa spezzasse quest’ultimo legame con la Sinagoga e proclamasse la sua emancipazione, fissando la più solenne delle sue feste in un giorno tale da non coincidere mai con quello in cui gli Ebrei celebravano la loro Pasqua, sterile ormai di ogni speranza. Gli Apostoli decisero che d’ora innanzi essa non sarebbe mai più il quattordici della luna di marzo, neppure quando questo cadesse di domenica, ma che si sarebbe celebrata in tutto l’universo la domenica che segue il giorno in cui l’ormai scaduto calendario della Sinagoga seguita a piazzarla. Nondimeno, in considerazione del gran numero di Ebrei che avevano ricevuto il Battesimo e che formavano da principio il nucleo della Chiesa cristiana, per non urtare la loro suscettibilità, fu pure presa la risoluzione che la legge relativa al giorno della nuova Pasqua sarebbe stata applicata successivamente e con prudenza. Del resto Gerusalemme non doveva tardare a soccombere sotto i colpi dei Romani, secondo la predicazione del Salvatore, e la nuova città, ricostruita sulle sue rovine e abitata dalla colonia cristiana, avrebbe avuto anche la sua Chiesa, ma una Chiesa completamente indipendente dall’elemento giudaico, che la giustizia di Dio aveva in modo così chiaro ripudiato in quei medesimi luoghi.

La maggior parte degli Apostoli, nelle loro lontane predicazioni e nella fondazione delle Chiese in tante regioni situate anche fuori dei confini dell’Impero Romano, non ebbero da lottare contro consuetudini ebraiche. Delle loro reclute i più erano gentili. La Chiesa di Roma, che diveniva Madre e Maestra di tute le altre, non conobbe mai altra Pasqua da quella che unisce, nella domenica, il ricordo del primo giorno del mondo e la memoria della gloriosa risurrezione del Figlio di Dio e di noi tutti che ne siamo le membra.

Usi dell’Asia minore.

Una sola provincia della Chiesa, l’Asia Minore, rifiutò per molto tempo di uniformarsi a questo uso comune. San Giovanni, che visse a lungo a Efeso e vi morì, aveva creduto bene di non esigere dai numerosi Ebrei che dalla Sinagoga erano passati al Cristianesimo la rinuncia alla legge giudaica per la celebrazione della Pasqua, ed i fedeli che, convertiti dal paganesimo, vennero ad accrescere il numero di quella cristianità così fiorente si appassionarono fino all’eccesso per quella tradizione, che si riallacciava all’origine delle Chiese dell’Asia Minore. Ma con l’andare avanti degli anni una tale anomalia era fonte di scandalo; vi si sentiva come un’impronta di giudaismo e l’unità del culto cristiano veniva a soffrire di una divergenza che impediva ai fedeli di essere tutti uniti nella gioia della Pasqua e nella tristezza dei giorni santi che la precedono. Il Papa san Vittore, che governò la Chiesa dall’anno 185, rivolse le sue cure contro tale abuso e pensò che era venuto il momento di far trionfare l’unità anche esteriore del culto cristiano in un punto tanto essenziale da formarne il centro. Già sotto il pontificato di sant’Aniceto, circa l’anno 150, la Sede apostolica aveva tentato per mezzo di trattative amichevoli di condurre le Chiese dell’Asia Minore all’uso universale; ma nulla si era potuto ottenere contro un pregiudizio che si fondava su di una tradizione reputata sacra in quelle regioni. San Vittore credé di potervi riuscire meglio dei suoi predecessori: per aver maggior influenza sugli abitanti sugli abitanti dell’Asia, mediante la testimonianza unanime di tutte le Chiese, dette ordine che si tenessero concili nei vari paesi in cui il Vangelo era penetrato, e che vi venisse esaminata la questione della Pasqua. Ovunque l’accordo fu perfetto: e lo storico Eusebio, un secolo e mezzo dopo, scriveva che ancora si conservava il ricordo delle decisioni prese in proposito, oltre che dal concilio di Roma, anche da quelli tenuti nelle Gallie, nell’Acaia, nel Ponto, nella Palestina e nell’Osroene in Mesopotamia. Il concilio di Efeso, presieduto da Policrate, vescovo di quella città, fu il solo a resistere agli intenti del Pontefice ed all’esempio dato da tutta la Chiesa. Vittore, giudicando che questa opposizione non poteva venire sopportata più oltre, emise una sentenza con la quale le Chiese ribelli dell’Asia Minore venivano separate dalla comunione con la Santa Sede. Una condanna tanto severa formulata solo dopo ripetute istanze da parte di Roma perché si rinunziasse a quei pregiudizi asiatici, suscitò la commiserazione di molti vescovi. Sant’Ireneo, che reggeva allora la cattedra di Lione, intervenne presso il Papa in favore di quelle Chiese, le quali, secondo lui, non erano colpevoli che di una decisione poco illuminata. E ottenne la revoca di un provvedimento la cui severità sembrava sproporzionata alla colpa. Questa indulgenza produsse il suo effetto: durante il secolo seguente sant’Anatolio, vescovo di Laodicea, nel suo libro sulla Pasqua, scritto nel 276, attesta che già da qualche tempo le Chiese dell’Asia Minore seguivano l’uso romano.

L’opera del concilio di Nicea.

Per una strana coincidenza, press’a poco nella stessa epoca, vi fu lo scandalo di una nuova scissione circa la celebrazione della Pasqua, questa volta da parte delle Chiese della Siria, della Cilicia e della Mesopotamia. Si videro infatti abbandonare la consuetudine cristiana e apostolica, per riprendere quella, di rito giudaico, del quattordici della luna di marzo.

Questo scisma nella liturgia afflisse la Chiesa; e uno dei primi intenti del concilio di Niceafu di promulgare l’obbligo universale di celebrare la Pasqua di domenica. Il decreto fu approvato all’unanimità ed i Padri componenti il concilio ordinarono che “essendo stata superata ogni controversia, i fratelli orientali solennizzerebbero la Pasqua nello stesso giorno dei Romani, degli Alessandrini e di tutti gli altri fedeli” (Spicilegium Solesmense, t. iv, p. 541). Interessando l’essenza stessa della liturgia cristiana, la questione sembrava così grave che sant’Atanasio, nel riassumere i motivi che avevano provocato la convocazione del concilio di Nicea, ci dice che essi furono: 1° condannare l’eresia ariana e 2° ristabilire l’unione nella celebrazione della Pasqua (Lettera ai Vescovi d’Africa).

Il concilio di Nicea decise pure che il vescovo di Alessandria sarebbe incaricato di far fare i calcoli astronomici, necessari a determinarne ogni anno il giorno preciso, e che avrebbe inviato al Papa il risultato di tali studi affidati agli scienziati di quella città, scienziati che godevano della più grande reputazione. Il Romano Pontefice si sarebbe poi incaricato d’indirizzare a tutte le Chiese lettere con l’ordine della simultanea celebrazione della grande festa del Cristianesimo.

In questo modo l’unità della Chiesa si manifestava con l’unità della liturgia; e la Cattedra Apostolica, fondamento della prima, era nel medesimo tempo mezzo per realizzare la seconda.

Del resto, anche prima del concilio di Nicea, il Romano Pontefice aveva la consuetudine d’indirizzare ogni anno a tutte le Chiese un’enciclica pasquale recante l’intimazione del giorno in cui si sarebbe dovuta celebrare la solennità della Risurrezione. Ce lo dice la lettera sinodale indirizzata al Papa san Silvestro, nel 314, dai Padri componenti il concilio di Arles. “In primo luogo, essi scrivevano, noi chiediamo che il tempo e il giorno destinato alla celebrazione della Pasqua del Signore sia il medesimo nel mondo intero e che, secondo l’usanza già esistente, a tutti tu faccia pervenire lettere in proposito” (Concilio delle Gallie).

Nondimeno quest’uso non sopravvisse di molto al concilio di Nicea. L’imperfezione dei mezzi astronomici condusse a confusione nel modo di calcolare il giorno della Pasqua. È vero che ormai essa fu sempre solennizzata di domenica e che nessuna Chiesa si permise più di celebrarla lo stesso giorno di quella degli Ebrei, ma, essendovi vari pareri sull’epoca precisa dell’equinozio di primavera, accadde che in alcuni anni la data della festa variò a seconda dei luoghi. A poco a poco ci si allontanò dalla regola del concilio di Nicea, che stabiliva di considerare il 21 marzo come il giorno dell’equinozio. Occorreva riformare il calendario e nessuno era in grado di farlo. I calendari si moltiplicavano in contraddizione gli uni con gli altri, di modo che spesso Roma ed Alessandria non riuscivano a mettersi d’accordo. Pur essendoci la buona fede da entrambe le parti, alcune volte la Pasqua venne così celebrata senza quella simultaneità universale che il concilio di Nicea aveva voluto instaurare.

La riforma del calendario.

L’Occidente si uniformò all’uso di Roma, che finì per trionfare anche di alcune opposizioni sorte nella Scozia e in Irlanda, le cui Chiese erano state sviate da cicli inesatti. Finalmente i progressi della scienza permisero al Papa Gregorio XIII d’intraprendere e di portare a termine la riforma del calendario. Si trattava di ristabilire al 21 marzo l’equinozio di primavera, in conformità alla decisione presa dal concilio di Nicea. Ciò che fece il Sommo Pontefice per mezzo della bolla del 24 febbraio 1581, togliendo dieci giorni dall’anno seguente, dal 4 al 15 ottobre, e completando così l’opera di Giulio Cesare, che al tempo suo aveva già rivolto la sua attenzione ai calcoli astronomici. Ma la Pasqua era stata l’idea fondamentale e lo scopo della riforma operata da Gregorio XIII. Il ricordo e le regole dettate dal concilio di Nicea influivano ancora su tale questione capitale dell’anno liturgico, e il Romano Pontefice ancora una volta fissava il giorno della Pasqua per tutto l’universo, non più però per un solo anno, ma per tutti i secoli. Le nazioni dove imperava l’eresia sentirono, loro malgrado, la potenza divina della Chiesa in questa grande innovazione, che interessava tanto la vita religiosa che quella civile, e protestarono contro la riforma del calendario come già avevano protestato contro la regola della fede. L’Inghilterra e gli Stati luterani della Germania conservarono ancora a lungo l’antico calendario, che la scienza ripudiava, piuttosto di accettare dalle mani di un papa una riforma che il mondo riconosceva indispensabile. Ai giorni nostri, tra le nazioni europee, non c’è che la Russia che, per avversione verso la Roma di san Pietro, persiste a restare in ritardo dai dieci ai dodici giorni sul resto del mondo civile.

Avvenimenti miracolosi.

Tutti questi dettagli, che noi siamo obbligati di abbreviare notevolmente, mostrano però a sufficienza quale importanza si debba attribuire alla data della solennità di Pasqua, e il Cielo ha spesso manifestato, con dei prodigi, di non rimanerne indifferente.

All’epoca in cui la confusione dei vari cicli e l’imperfezione dei mezzi astronomici portarono a tante indecisioni nello stabilire l’epoca dell’equinozio di primavera, fatti miracolosi servirono più di una volta a fornire quelle indicazioni che la scienza e l’autorità non potevano più dare con certezza.

Pascasino, vescovo di Lilibeo in Sicilia, in una lettera indirizzata nel 444 a san Leone Magno, attesta che sotto il pontificato di san Zosimo, mentre Onorio era console per l’undicesima volta e Costanzo per la seconda, il giorno della vera Pasqua fu rivelato ad una popolazione semplice ma religiosa, per mezzo di un intervento del Cielo. Tra montagne inaccessibili e fitte di foreste, in un angolo isolato della Sicilia, si trovava un villaggio chiamato Meltina. La sua chiesa era delle più povere, ma lo sguardo e la bontà di Dio vigilavano su di essa, poiché ogni anno, durante la notte pasquale, al momento in cui il sacerdote si dirigeva verso il battistero per benedirne l’acqua, il sacro fonte se ne trovava miracolosamente riempito, senza che esistesse condotto o sorgente per alimentarlo. Una volta finito di amministrare il Battesimo, l’acqua scompariva da se stessa, lasciando la piscina completamente asciutta. Ma avvenne che nell’anno più sopra indicato, quando il popolo, che era caduto in inganno per calcoli sbagliati, si radunò a celebrare la notte di Pasqua e, finite le profezie, si recò col sacerdote al battistero, il fonte appariva completamente privo d’acqua. I catecumeni attesero invano la presenza dell’elemento per mezzo del quale dovevano essere rigenerati: al levarsi del giorno si ritirarono. Il 22 aprile seguente (decimo dalle calende di maggio) la piscina si trovò riempita fino al labbro, manifestando così che quello era il giorno della vera Pasqua per l’anno in corso.

Cassiodoro, scrivendo in nome del re Atalarico ad un certo Severo, racconta un altro prodigio che si verificava annualmente, per il medesimo fine, la notte di Pasqua in Lucania, presso l’isoletta di Leucotea, in un luogo chiamato Marciliano, ove esisteva una grande piscina scelta per amministrare il Battesimo. Appena il sacerdote cominciava le preghiere solenni della benedizione sotto la volta del cielo, naturale copertura di questo fonte, l’acqua sembrava prender parte alla gioia pasquale aumentando nel suo bacino, di modo che, se prima arrivava fino al quinto gradino, dopo si vedeva salire fino al settimo, quasi volesse andare incontro alle meraviglie della grazia di cui era lo strumento. Dio dimostrava in tal modo che anche le cose insensibili, quando Egli lo permette, possono associarsi alle gioie sacre del più solenne dei giorni dell’anno (Cassiodoro, Variarum l. vii, lettera xxxiii).

San Gregorio di Tours ci parla di un altro fonte, che ai suoi tempi esisteva in una chiesa dell’Andalusia, in un luogo chiamato Osen, i cui fenomeni miracolosi servivano a discernere il vero giorno di Pasqua. Tutti gli anni, il Giovedì Santo, il vescovo vi si recava con i fedeli. Il fondo e le pareti della piscina, a forma di croce, erano ornati di mosaici. Si costatava che essa era completamente asciutta, e dopo alcune preghiere tutti uscivano dalla chiesa e il vescovo ne chiudeva la porta apponendovi il suo sigillo. Il Sabato Santo il pontefice vi ritornava insieme con il popolo e ne riapriva le porte, dopo aver verificato che i sigilli fossero intatti. Entrati scorgevano la piscina piena d’acqua fin sopra il livello del pavimento, senza però che si riversasse all’intorno. Il vescovo pronunciava gli esorcismi su quest’acqua miracolosa, e vi versava il sacro Crisma. Venivano poi battezzati i catecumeni; e quando il sacramento era stato amministrato a tutti, l’acqua spariva immediatamente, senza sapere che cosa avvenisse di essa.

Anche le cristianità orientali furono testimoni di prodigi simili. Giovanni Mosco, nel XII secolo, parla di un fonte battesimale in Licia: l’acqua lo riempiva ogni anno la vigilia di Pasqua, dimorandovi per cinquanta giorni e prosciugandosi improvvisamente dopo la festa di Pentecoste (Il prato spirituale, c. ccxv).

Nel cenno storico sul tempo della Passione noi abbiamo ricordato la legge degli imperatori cristiani che proibivano i processi civili  e penali durante tutta la quindicina di Pasqua, ossia dalla domenica delle Palme fino all’ottava dopo la Risurrezione. Sant’Agostino, in un sermone pronunciato il giorno di detta ottava, esorta i fedeli a estendere a tutto l’anno una simile sospensione da liti, contese e inimicizie che la legge civile aveva voluto interrompere almeno durante quei quindici giorni.

Il dovere della Comunione.

La Chiesa impone a tutti i suoi figli di ricevere la santa Eucaristia durante il tempo pasquale. Questo dovere si fonda sulla stessa intenzione del divin Salvatore che, se non ha fissato direttamente l’epoca in cui i fedeli si sarebbero accostati a questo grande sacramento, ne ha però lasciato la missione alla sua Chiesa, insieme con l’autorità di determinarla. Nei primi secoli del Cristianesimo la Comunione era frequente e in alcuni luoghi quotidiana. Più tardi i fedeli divennero freddi verso questo mistero divino e noi sappiamo dal canone diciottesimo del concilio di Agde nel 506 che molti cristiani, anche nelle Gallie, avevano perduto il loro fervore primitivo. Perciò si decise che quei laici che non si fossero accostati alla Comunione a Natale, a Pasqua e a Pentecoste non sarebbero più stati annoverati tra i cattolici. Questa disposizione del concilio di Agde passò come legge quasi generale in tutta la Chiesa d’Occidente. La troviamo, fra l’altro, nelle prescrizioni dettate da Egberto, arcivescovo di York, e nel terzo concilio di Tours. Nello stesso periodo, in parecchi luoghi si vede la Comunione prescritta tutte le domeniche di Quaresima e negli ultimi tre giorni della Settimana santa, senza che per questo ne fosse pregiudicato l’obbligo per la festa di Pasqua. Fu solo al principio del xiii secolo, nel IV concilio ecumenico Lateranense del 1215, che la Chiesa, testimone della freddezza sempre più diffusa nella società, decretò, pur con dolore, che la Comunione per i cristiani era strettamente obbligatoria solo una volta l’anno e doveva aver luogo a Pasqua. E per far sentire ai fedeli che questa condiscendenza rappresentava l’ultimo limite accordato alla loro negligenza, il santo concilio dichiarò che a colui, il quale osasse infrangere questa legge, potrebbe venire interdetto l’ingresso in chiesa durante la vita e sarebbe poi privato della sepoltura ecclesiastica dopo la morte, come se egli stesso avesse rinunciato a far parte della comunità cattolica (più tardi il Papa Eugenio IV, nella costituzione “Fide digna” dell’anno 1440, dichiarò che questa Comunione annuale poteva aver luogo dalla domenica delle Palme fino alla domenica “Quasi modo” [in Albis] inclusa).

Queste disposizioni, prese da un concilio ecumenico, mostrano sufficientemente l’importanza del dovere che sono destinate a sanzionare. Nello stesso tempo ci fanno dolorosamente costatare il miserando stato della nazione cattolica, ove milioni di cristiani sfidano ogni anno le minacce della santa madre Chiesa rifiutando di sottomettersi ad un obbligo il cui adempimento porterebbe la vita nelle anime e costituirebbe la prova essenziale della loro fede.

Detraendo il numero di coloro che non sono sordi alla voce della Chiesa e che vengono ad assidersi al banchetto pasquale coloro i quali hanno vissuto come se la penitenza quaresimale non esistesse, ci sarebbe da abbandonarsi all’angoscia ed al timore sulla sorte di questo popolo, se qualche indizio consolante non venisse di tanto in tanto a risollevare le speranze e promettere per l’avvenire generazioni più cristiane della nostra.

Riti Liturgici.

Il periodo di cinquanta giorni che separa la festa di Pasqua da quella di Pentecoste è sempre stato oggetto del maggior rispetto da parte della Chiesa. La prima settimana di esso, consacrata in modo speciale ai misteri della Risurrezione, doveva essere celebrata con adeguato splendore, ma anche le altre seguenti furono degnamente onorate. Oltre la divina allegrezza che pervade tutta questa parte dell’anno, di cui l’Alleluia è l’espressione, la tradizione cristiana assegna due usi, esclusivi del tempo pasquale, che servono a differenziarlo dal resto dell’anno. Il primo consiste nella proibizione di digiunare durante questi quaranta giorni, estendendo così l’antico precetto, che già lo vietava in tutte le domeniche. E ciò perché questo periodo di gioia deve essere considerato come una sola ed unica domenica. Tale uso fu accolto anche dagli Ordini religiosi più severi, sia dell’Oriente sia dell’Occidente.

L’altro rito particolare, conservatosi scrupolosamente nelle chiese orientali, consiste nel non genuflettere durante la celebrazione degli uffici, dalla Pasqua fino alla Pentecoste. Le consuetudini occidentali hanno poi modificato quest’uso, che aveva regnato pure da noi per alcuni secoli. La Chiesa latina ha riammesso da un pezzo le genuflessioni nella Messa durante il tempo pasquale e le sole vestigia che ha conservato delle antiche prescrizioni sono diventate quasi impercettibili ai fedeli che non hanno familiarità con le rubriche del servizio divino.

Tutto il tempo pasquale è dunque come un solo giorno di festa; è ciò che attesta anche Tertulliano già nel III secolo, rimproverando certi cristiani che per la loro sensualità si dolevano di aver dovuto rinunziare, dopo il Battesimo, a tante gaie solennità del mondo pagano. Così loro diceva: “Se amate le feste, ne trovate certamente da noi; e feste di molti giorni, non di uno solo come nel paganesimo, dove, una volta avvenuta, la celebrazione non si ripete più per tutto l’anno. Per voi adesso tante settimane, altrettante feste! Addizionate pure tutte le solennità dei gentili: non arriverete mai ai nostri cinquanta giorni della Pentecoste” (de idolatria, c. xiv).

Sant’Ambrogio, sul medesimo soggetto, scrivendo ai suoi fedeli, fa questa osservazione: “Se gli Ebrei, non contenti del loro sabato settimanale, ne celebrano un altro che dura tutto un anno, quanto più dovremo fare noi per onorare la Risurrezione del Signore! È per questo che ci hanno insegnato a celebrare i cinquanta giorni della Pentecoste quale parte integrante della Pasqua. Sono sette settimane complete e la Pentecoste ne comincia l’ottava. Come in ogni domenica, che è il giorno della Risurrezione del Signore, anche durante questo periodo la Chiesa vieta il digiuno, perché simili ad una sola ed unica domenica sono considerati tutti questi giorni” (Comm. in Lucam, l. viii, c. xxv).

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