13. Credo

XIII – CREDO

Alla lettura del Vangelo segue il Credo, col quale si vuoi dar occasione ai fedeli di confessare la propria fede. E poiché la loro fede è basata sul santo Vangelo, il Credo segue immediatamente la lettura della Parola sacra. È conveniente che i fedeli pronunzino questa professione di fede contro le eresie.
II Credo deve dirsi non solo nella Messa delle domeniche, ma anche nelle feste degli Apostoli che predicarono la fede; nelle feste dei Dottori che la difesero; in quella di santa Maddalena che, oltre ad essere la prima a credere nella Risurrezione, l’annunzio agli Apostoli, divenendo così “l’Apostola degli Apostoli”; nelle feste degli Angeli, perché ci si riferisce proprio a loro quando si dice: factorem caeli et terrae, visibilium omnium et invisibilium; nelle feste della Santissima Vergine, anch’ella menzionata nel Simbolo. Non lo si recita tuttavia nelle Messe votive. Si recita anche nella festa della Dedicazione d’una chiesa e nelle feste patronali, perché si suppone che a tali solennità assisterà tutto il popolo fedele. Per questa ragione, se la festa di san Giovanni Battista cade in domenica, si recita il Credo, altrimenti si omette, perché san Giovanni è venuto prima della consumazione dei misteri e non v’è alcuna menzione di lui nel Simbolo.
Infine, si recita ancora il Credo, a motivo del concorso del popolo, quando una chiesa possiede una reliquia insigne del Santo di cui si celebra solennemente la festa.
Il Simbolo che usa la Chiesa nella Santa Messa non è il Simbolo degli Apostoli, ma quello di Nicea; e, se si vuoi parlare con tutta esattezza, lo si deve chiamar il Simbolo di Nicea e di Costantinopoli, perché tutto quanto si riferisce all’articolo dello Spirito Santo è stato aggiunto contro Macedonie nel primo Concilio di Costantinopoli.
Prima del secolo XI il Credo non era recitato pubblicamente nella Chiesa romana. Sant’Enrico, imperatore di Germania, in un viaggio che fece a Roma, rimase grandemente sorpreso di non aver udito il Credo. Ne parlò al papa Benedetto Vili, che occupava allora la cattedra di san Pietro, e il Pontefice gli rispose che la Chiesa romana in tal modo manifestava la purezza della sua fede, poiché, non esistendo nel suo seno l’errore, non aveva necessità di rigettarlo. Però, subito dopo l’osservazione del santo Imperatore, si decretò che le domeniche, nella Chiesa romana, si dicesse il Credo nella Messa, rianimando in tal modo questa sublime professione di fede, promulgata dalla medesima cattedra di san Pietro.
Il Simbolo di Nicea è più lungo di quello degli Apostoli, quantunque quest’ultimo contenga tutte le verità della fede. Orbene, siccome le eresie apparvero posteriormente, fu necessario dare maggiore sviluppo a ciascuno degli articoli che erano oggetto di attacchi, arginando così i diversi errori non appena comparivano. Questo Simbolo contiene tutto ciò che dobbiamo credere, perché diciamo: Credo Ecclesiam e, credendo tutto ciò che crede la santa Chiesa, possediamo tutto ciò che essa adottò e dichiarò come verità degne di fede nei Concili di Nicea, Costantinopoli e successivi.
Ecco come comincia questo Simbolo: Credo in unum Deum. Si noti bene la differenza. Gli Apostoli non misero la parola unum, perché in quell’epoca non la stimarono necessaria. Più tardi, nel Concilio di Nicea, la Chiesa credette opportuno aggiungerla per sostenere l’affermazione dell’unità divina accanto alla professione espressa della trinità delle Persone, contro l’eresia degli Ariani. Ma perché diciamo Credo in Deum? Qual è qui il valore della preposizione in? Grande è la sua importanza e la comprenderemo facilmente. La fede non è altro che un movimento dell’anima verso Dio; la fede unita alla carità, la fede viva che la Chiesa depone nel cuore dei suoi figli tende di natura sua verso Dio, sale e s’innalza a Lui: Credo in Deum.
Vi sono due maniere di conoscere Dio. Un uomo che vede tutte le meraviglie dell’universo: la terra con le sue innumerevoli produzioni, il firmamento ricco dei suoi astri, in mezzo ai quali brilla il sole con la magnificenza e lo splendore dei suoi raggi e con l’ammirabile e ordinata successione delle sue rivoluzioni; quest’uomo, alla vista di tali meraviglie disposte con tanto ordine e perfezione, deve necessariamente riconoscere l’esistenza d’un essere che le ha create. Questo è ciò che si chiama una verità razionale. L’uomo che non giungesse a questa conclusione darebbe prova di mancare d’intelligenza e si eguaglierebbe agli animali, i quali non sono capaci di comprender alcuna verità, essendo privi di ragione. Questo è dunque il modo di conoscere Dio con la ragione, quando dalla contemplazione delle cose create deduciamo, come conseguenza, che Egli ne è l’autore.
Ma quando affermiamo: “Conosco Dio come Padre, come Figlio e come Spirito Santo”, bisogna certamente che Dio ce lo abbia rivelato e che noi crediamo alla sua Parola per fede, cioè per una certa disposizione che ci è stata comunicata in modo soprannaturale. Essa ci spinge a credere ciò che Dio ha detto e ad arrenderci alla sua Parola. Dio ci rivela questa o quella cosa per mezzo della sua Chiesa. Subito, come se uscissimo da noi stessi, ci slanciamo verso di Lui, riconoscendo come verità quanto si degna di rivelarci. In tal modo confessiamo il nostro Dio: Credo in unum Deum, Patrem omnipotentem.
Factorem ceeli et terrae, visibilium omnium et invisibilium, “Dio creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili”. Gli Gnostici attribuivano a Dio la sola creazione della materia e delle cose visibili. Per tale ragione furono condannati dal Concilio di Nicea, il quale affermò con chiarezza che visibilium et invisibilium, “tutte le cose visibili e invisibili”, sono opera di Dio, rendendo così omaggio al Dio eterno che, essendo onnipotente, per virtù di tale onnipotenza ha creato tutte le cose del mondo visibile ed invisibile. Con questa formula si confessa anche che Dio è il Creatore degli Angeli.
Et in unum Dominum Jesum Chrìstum, Filium Dei unigenitum. Qui la Chiesa ci fa nuovamente adoperare la parola unum. “lo credo in un solo Signore”: in unum Dominum. Questa parola unum ha un valore essenziale. Infatti, crediamo non in due figli, ma in uno solo; non in un Uomo e in un Dio separati, che formano due persone distinte, ma nella medesima Persona, quella del Figlio unigenito di Dio. Ma perché lo chiamiamo “Signore” in maniera così speciale? Parlando del Padre non gli abbiamo dato questo titolo. Diamo questo titolo a Gesù Cristo perché gli apparteniamo per due ragioni distinte e a due titoli differenti. Siamo di Gesù Cristo in primo luogo perché, facendo il Padre tutte le cose col Verbo suo, Questi col Padre ci ha creato. In secondo luogo, Gesù Cristo ci ha redento col suo Sangue, ci ha strappato dagli artigli di Satana. Siamo, di conseguenza, suo bene e suo possesso. Egli dunque ci possiede non solo come Creatore, ma anche come Redentore e il suo amore per le anime giunge al punto di voler possederle a titolo di Sposo.
Figlio di Dio: ecco un esempio chiarissimo della differenza, che poco fa facevamo notare, tra la conoscenza di Dio per mezzo della ragione e la conoscenza di Lui per mezzo della fede. La ragione, da sola, non potrebbe insegnarci che esistono in Dio un Padre ed un Figlio; bisogna, per penetrare questa verità, o esser in cielo, o che Dio ce l’abbia rivelato nella Scrittura o attraverso la Tradizione. Come noi crediamo in un solo Dio Padre, così crediamo in un solo Dio Figlio: et in unum Dominum Jesum Chrìstum, Filium Dei unigenitum.
Et ex Patre natum ante omnia saecula, “nato dal Padre prima di tutti i secoli”. I secoli hanno avuto inizio quando la creazione è uscita dalle mani di Dio. Infatti, perché vi fossero i secoli, era indispensabile che esistesse il tempo e, perché il tempo esistesse, era necessaria l’esistenza degli esseri creati. Ora, prima di tutti i secoli, ossia prima che alcuno dei secoli esistenti uscisse dal nulla, il Figlio di Dio era già uscito dal Padre, come noi confessiamo dicendo: Ex Patre natum ante omnia saecula. Deum de Deo, lumen de lumine, Deum verum de Deo vero.
Il mondo creato procede da Dio, poiché è opera della sua destra, ma non per questo diciamo che il mondo creato è Dio. Il Figlio di Dio, al contrario, procedendo dal Padre, è Dio come Lui, perché da Lui è stato generato. Dunque tutto ciò che si dice del Padre conviene al Figlio, salvo l’essere Padre; ma si tratta sempre della stessa sostanza, della medesima essenza divina.
Orbene, come può il Figlio essere la medesima sostanza del Padre, senza che questa sostanza ne risulti diminuita? Sant’Atnasio, parlando di questo argomento, ci propone una similitudine che, benché materiale, ci fa cogliere, sia pur imperfettamente, tal verità. Come una fiaccola – egli dice -, ricevendo la sua luce da un’altra della medesima sostanza, non diminuisce per niente la fiaccola da cui è stata accesa, così il Figlio di Dio, prendendo la sostanza dal Padre, non diminuisce in nulla tale sostanza divina che condivide con Lui, perché Egli è veramente “Dio da Dio, luce da luce, Dìo vero da Dio vero”.
Genitum, non factum, “Generato non creato”. Noi, creature umane, siamo state create, siamo tutte opera di Dio, senza eccettuare né la Vergine Santissima né gli Angeli. Ma il Verbo, il Figlio di Dio, è stato generato, non creato, è uscito dal Padre, ma non è opera sua. Ha la medesima sostanza, la medesima natura del Padre.
In Dio, dobbiamo distinguere le Persone, ma dobbiam anche sempre considerar in Lui la medesima sostanza divina, per il Padre, per il Figlio e per lo Spirito Santo: Idem quoad substantiam. Il Signore medesimo ce lo dice: Ego et Pater unum sumus. Essi sono una medesima cosa, ma le Persone sono distinte. Padre, Figlio e Spirito Santo sono i tre termini che servono a designarli. È dunque di somma importanza la sentenza del Concilio di Nicea: Consubstantialem Patri, ossia: “consustanziale al Padre”. Sì, il Figlio è stato generato dal Padre, ha con Lui la medesima sostanza, è la medesima essenza divina.
Per quem omnia facta sunt, “per mezzo di Lui furono fatte tutte le cose”. Abbiamo detto al principio del Simbolo che Dio ha fatto il cielo e la terra, tutte le creature visibili e invisibili. Ora diciamo, parlando del Verbo, Figlio di Dio, che tutte le cose furono fatte per mezzo di Lui. Come armonizzare questi due concetti? Facilmente lo si comprenderà per mezzo d’un paragone con l’anima nostra.
Vi sono nell’anima umana tre facoltà differenti per il compimento dei suoi diversi atti; queste tre facoltà sono: la potenza, l’intelligenza e la volontà. Tutte e tre sono necessarie perché l’atto si compia, poiché per mezzo della potenza l’anima agisce, ma la sua azione suppone conoscenza e volontà. Similmente, Dio Padre onnipotente fece tutte le cose con la sua potenza; le fece con intelligenza attraverso il suo Figlio; e infine le fece con la volontà attraverso lo Spirito Santo, e in tal modo si compì l’atto. È dunque esatto dire, parlando del Figlio: per quem omnia facta sunt.
Qui propter nos homines, et propter nostram salutem descendit de caelis. Dopo averci mostrato il Verbo che opera i più grandi prodigi, la Chiesa aggiunge ch’Egli è venuto al mondo per noi, uomini peccatori, e che non solamente è venuto per l’uomo, ma anche per riparar i peccati dell’uomo e liberarlo dalla dannazione eterna; in una parola, per operare la nostra salvezza: et propter nostram salutem.
Sì, per questo e solamente per questo è disceso dal cielo: descendit de caelis. Senza lasciar il Padre e lo Spirito Santo, senza privarsi della beatitudine divina, si è unito all’uomo in tutto tranne che nel peccato, e ha sofferto, come uomo, tutto ciò che l’uomo poteva soffrire. È disceso dal cielo per incarnarsi in una creatura, viver in mezzo a noi e conformarsi in tutto e per tutto alle esigenze della nostra fragile natura.
Et incarnatus est de Spirìtu Sancto. Il Verbo si è fatto carne per opera dello Spirito Santo. Dio ha fatto tutte le cose, e noi abbiamo già veduto la cooperazione delle tre divine Persone, in tutte le opere della creazione. Nel mistero dell’Incarnazione operano ancora unite le tre Persone divine; il Padre inviando il Figlio, il Figlio venendo sulla terra, e lo Spirito Santo presiedendo a questo divino mistero.
Ex Maria Virgine. Osserviamo bene queste parole: ex Maria. Maria ha fornito al Figlio di Dio la sostanza del suo essere umano, sostanza che le era propria e personale; dunque ha preso qualcosa di se medesima per darla al Figlio di Dio, divenuto perciò suo proprio Figlio. Quanto grande dovette essere la purità di Maria perché la si trovasse degna di comunicar al Figlio di Dio la sostanza del suo essere umano! Il Verbo non ha voluto unirsi ad una creatura umana tratta immediatamente dal nulla come il primo uomo; no, ha voluto essere della stirpe di Adamo e per questo s’è incarnato nel seno di Maria. E si noti bene che non solo è disceso in Maria, ma ha preso la medesima sostanza di lei: ex Maria.
Et homo factus est, “E si è fatto uomo”, cioè non si è limitato a prendere le sembianze dell’uomo, ma si è fatto veramente uomo. In queste sublimi parole noi vediamo la divinità sposare l’umanità e, per tributare l’onore che è dovuto a così meraviglioso mistero, si fa qui una profonda genuflessione.
Crucifixus etiam prò nobis: sub Pontio Filato passus, et sepultus est.
Crucifixus. Il Simbolo degli Apostoli usava questa stessa espressione. Gli Apostoli volevano sottolineare che il Signore non solamente era morto, ma che era morto crocifisso, facendo così risaltar il trionfo della croce su satana. E poiché la nostra perdizione era avvenuta per un legno, il Signore voleva che anche la nostra salvezza fosse operata per un legno: ipse lignum tunc notavit, damna Ugni ut solveret. Sì, bisognava che il nostro nemico cadesse nel medesimo artificio di cui s’era servito per ingannarci: et medelam ferret inde, hostis unde laeserat, e che il rimedio fosse attinto là dove il nemico aveva tratto il veleno.
Per questo gli Apostoli vollero indicare con esattezza il supplizio del Signore e, a tal fine, quando annunziavano la fede ai pagani, parlavano subito della croce.
San Paolo, scrivendo ai Corinzi, affermava che, quando era giunto tra loro, aveva giudicato di non dover parlar loro d’altro che di Gesù e di Questi crocifìsso: Non enim judicavi me scire aliquid inter vos, nisi Jesum Christum et hunc crucifixum (1 Cor 2,2). Già aveva loro detto: “Predichiamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei, e i stoltezza per i pagani”, Judaeis quidam scandalum, gentibus autem stultitiam (ibid., 1,23).
Gesù Cristo è stato crocifisso, e il Simbolo aggiunge: prò nobis. Come noi diciamo propter nos homines descendit de caelis, così era giusto che la santa Chiesa ci facesse notare che, se il Signore è stato crocifìsso, lo è stato per noi. Crucifixus etiam prò nobis: sub Pontio Pilato. Il nome del governatore romano si trova qui menzionato dagli Apostoli perché dona una collocazione storica.
Et sepultus est. Cristo ha sofferto, è vero, ed è stato sepolto. Ciò era necessario poiché, in caso contrario, come poteva avverarsi la profezia in cui s’annunzìava che al terzo giorno doveva uscire trionfante dal sepolcro? Ciò inoltre dimostra che la sua morte non è stata fittizia, ma reale, poiché è stato seppellito come gli altri uomini.
Et resurrexit tertia die, secundum Scripturas. Il terzo giorno è risuscitato, come avevano annunziato le profezie, particolarmente quella del profeta Giona. Nostro Signore stesso aveva detto: “questa generazione malvagia domanda un segno, ma non le sarà dato se non quello del profeta Gìona”, nisi signum Jonee prophetae (Mt 12,39; Le 11,29). Infatti, “come Giona stette tre giorni e tre notti nel ventre della balena, così il Figlio dell’uomo dimorerà tre giorni e tre notti nel seno della terra”.
Et ascendit in coelum, “è salito al cielo”. Il Verbo di Dio, venendo sulla terra per farsi uomo, non aveva per questo lasciato il seno del Padre suo. Qui si dice che è salito al cielo, nel senso che la sua umanità è ascesa alla celeste dimora, dov’è oggetto díuníintronizzazione eterna.
Sedet ad dexteram Patris, “si è assise alla destra del Padre”, come un maestro, come un Signore. Senza dubbio, il Figlio con la sua natura divina era stato sempre assiso alla destra del Padre, ma doveva esservi anche secondo la sua natura umana, ed è quanto si afferma con queste parole. Difatti, così doveva essere perché la natura umana è unita alla natura divina in una stessa Persona, quella del Figlio di Dio. Di essa può dirsi in tutta verità: “II Signore sta assiso alla destra del Padre”. Davide l’aveva già annunziato quando diceva: Dixit Dominus Domino meo: Sede a dextris meis (Sal 109,1). Da qui può dedursi una prova dell’intima unione che esiste, nella Persona di Nostro Signore, tra la natura divina e la natura umana. Cosicché possiamo dire che il salmo 109 è veramente il salmo dell’Ascensione, perché è esattamente quello il momento in cui il Padre, che è Signore, dice al Figlio, che è pure Signore: “Siedi alla mia destra”, Sede a dextris meis.
Et iterum venturus est cum gloria judicare vivos et mortuos. A proposito di Nostro Signore si parla di due avvenimenti. Nel primo nasce senza gloria e, come dice san Paolo, si abbassa sino a prendere la forma di schiavo: semetipsum exinanivit formarti servi accipiens (FU 2,7), mentre nel secondo verrà circondato di gloria, venturus est cum gloria. E perché viene? Non più per salvare, come la prima volta, ma per giudicare: judicare vivos et mortuos. Non solamente verrà a giudicare quelli che saranno ancora sulla terra al momento di questa seconda venuta, ma anche tutti quelli che sono morti, a partire dalla fondazione del mondo, perché tutti, assolutamente tutti, devono essere giudicati.
Cuius regni non erit finis, “e il suo regno non avrà fine”. Qui si tratta del regno di Gesù Cristo come uomo, perché come Dio non ha mai smesso di regnare. Questo regno, poi, non solo sarà glorioso, ma eterno.
Qui termina la seconda parte del Credo, che è anche la più considerevole. È più che giusto che in questa confessione pubblica della nostra fede si parli più lungamente di Gesù Cristo, poiché Egli, con la sua divina Persona, ha fatto per noi più delle altre due Persone, quantunque nulla abbia fatto senza l’accordo e il consenso di esse. Per questo lo chiamiamo “Nostro Signore”, e, sebbene questo titolo convenga anche al Padre che ci ha creati, conviene per un duplice motivo al Figlio, il quale, oltre ad averci creati, perché Dio ha fatto tutte le cose con il suo Verbo, ci ha anche redenti. Gli apparteniamo dunque, come abbiamo detto, a doppio titolo.
Et in Spiritum Sanctum, Dominum et vivificantem. Io credo ugualmente nello Spirito Santo, cioè, per fede, vado verso lo Spirito Santo, aderisco, mi unisco allo Spirito Santo. E lo Spirito Santo chi è? Dominum. È Signore, è maestro come le altre due Persone. Ma cos’altro è? Vivificantem, “Colui che da la vita”. Come la nostra anima è il principio vitale del nostro corpo, così lo Spirito Santo vivifica la nostra anima. È lo Spirito Santo che le da vita con la grazia santificante che effonde su di essa, la sostiene, la fa agire, la vivifica e la fa crescer in amore. L’azione dello Spirito Santo si estende anche alla Chiesa. È Lui che la sostiene incessantemente, è Lui che fa sì che tutti i suoi membri, così diversi per nazione, linguaggio e costumi, vivano tutti la medesima vita, appartengano ad un medesimo Corpo di cui Gesù Cristo è il Capo. Tutti, infatti, hanno la medesima fede, ottengono le medesime grazie dai medesimi Sacramenti; tutti sono animati dalle stesse speranze e tutti attendono le medesime promesse; tutti, in una parola, sono sostenuti dallo Spirito Santo.
Qui ex Patre Filioque procedit, “il quale Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio”. Com’è possibile pensare che il Padre e il Figlio siano disuniti? Era necessario che un legame li unisse. Infatti il Padre e il Figlio non stanno unicamente uno accanto all’altro, ma un legame li unisce, li stringe, e questo legame procede da ambedue, formando una medesima cosa con loro; quest’amore scambievole è lo Spirito Santo.
Il Concilio di Nicea si occupò di redigere l’articolo del Simbolo che tratta di Gesù Cristo; nel Concilio di Costantinopoli si volle completar il Simbolo di Nicea aggiungendovi tutto ciò che riguarda lo Spirito Santo, eccetto, tuttavia, il Filioque, cosicché si sarebbe detto semplicemente: Qui ex Patre procedit.
I Padri di questo Concilio non credevano necessario aggiunger altro a quest’espressione, perché le parole di Nostro Signore nel Vangelo non possono lasciar alcun dubbio in proposito. Nostro Signore aveva detto: “lo vi manderò lo Spirito che procede dal Padre”, Ego mittam vobis a Patre Spiritum veritatis qui a Patre procedit (Gv 15,26). Egli è, dunque, anche principio dello Spirito Santo, poiché lo manda. Il Padre manda il Figlio, ed è chiaro per tutti che il Figlio procede dal Padre, che lo ha generato. Nostro Signore dicendo qui: “Io vi manderò lo Spirito”, dimostra che Egli pure è l’origine donde procede lo Spirito Santo, come lo è il Padre. E se aggiunge: Qui a Patre procedit, non è per dirci che lo Spirito Santo procede solamente dal Padre, ma, al contrario, per spiegarci con maggior chiarezza che non è Egli solo che lo invia, ma che il Padre lo invia con Lui.
I Greci non hanno voluto ammettere questa Verità e hanno sollevato una questione su questa preposizione per scompaginar il mistero della Trinità. Ma facilmente si comprende quest’ammirabile unione delle tre Persone, ossia che la prima Persona genera la seconda, e la prima e la seconda sono unite tra loro dalla terza. Se non si ammettesse questo legame esistente tra il Padre e il Figlio, s’isolerebbe completamente lo Spirito Santo e si distruggerebbe, in tal modo, la Trinità.
È in Spagna che si è introdotto per la prima volta il Filioque nel Simbolo, per spiegare meglio ciò che avevano detto i Padri di Costantinopoli. Si era allora al secolo Vili, ma la Chiesa romana non l’adottò fino al secolo XI. Sapeva molto bene che ciò avrebbe provocato delle difficoltà, ma, quando vide che questo provvedimento era divenuto necessario, si decise ad accettarlo, e sin d’allora l’aggiunta della parola Filioque divenne obbligatoria per la Chiesa universale.
Qui cum Patre, et Filio simul adoratur, et conglorìficatur. Lo Spirito Santo deve esser adorato, dunque è veramente Dio. Per professar, pertanto, la vera fede non basta onorare lo Spirito Santo, ma bisogna adorarlo come Dio, così come adoriamo il Padre e il Figlio, simul adoratur. Adorarlo come le altre due Persone divine, nel medesimo tempo: simul. A questo punto, la santa Chiesa vuole che chiniamo il capo, per render omaggio allo Spirito Santo, del quale in questo momento riconosciamo la divinità.
Et conglorìficatur, “e conglorificato”, cioè riceve gloria con il Padre e con il Figlio; è incluso infatti nella medesima dossologia, parola greca che significa “dar gloria”.
Qui locutus est per Prophetas. Ecco un altro dogma. Lo Spirito Santo ha parlato per bocca dei Profeti, e la santa Chiesa lo dichiara. Il fine principale di tale dichiarazione è quello di confonder i Marcioniti, eresiarchi che pretendevano d’introdurre il principio dell’esistenza d’un dio buono e d’un dio malvagio. Secondo loro, il Dio dei Giudei non era buono. La Chiesa, dichiarando qui che lo Spirito Santo ha parlato per bocca dei Profeti, dai libri di Mosè fino a quelli che si avvicinano al tempo di Nostro Signore, proclama che l’azione dello Spirito Santo avvolge la terra fin dal principio.
Nel giorno della Pentecoste questo divino Spirito è disceso sugli Apostoli ed è venuto sulla terra per restarvi. La sua missione era del tutto differente da quella di Nostro Signore. Il Verbo fatto carne è venuto sulla terra, ma dopo un certo tempo è risalito al cielo. Lo Spirito Santo, al contrario, è venuto per restare, e Nostro Signore, annunziandolo ai suoi Apostoli, disse loro che tale era la sua missione: Paraclitum dabit vobis – disse -, ut maneat vobiscum in aeternum (Gv 14,16). E altrove dice loro che questo Spirito insegnerà ad essi tutte le cose, suggerendo loro tutto ciò che Egli medesimo aveva loro insegnato: Et suggeret vobis omnia quaecumque dixero vobis (ibid., 26).
La Chiesa, infatti, ha bisogno d’esser istruita, guidata e sostenuta. A chi spetta questa missione? Chi la compie? È lo Spirito Santo che deve assisterla sino alla fine dei secoli, secondo le parole di Nostro Signore. Per questo il Figlio è stato inviato dal Padre e poi è ritornato in cielo. Il Padre e il Figlio hanno quindi inviato lo Spirito Santo perché rimanesse con la Chiesa sino alla fine. Nostro Signore dice: “II Padre mio vi manderà lo Spirito Santo”: e altrove: “lo vi manderò lo Spirito Santo”, indicando in tal modo l’intima relazione che esiste tra le divine Persone le quali non possono star isolate l’una dall’altra, come avrebbero voluto gli eretici.
La santa Chiesa ci ha dunque spiegato il dogma della Trinità nel Simbolo. Inizialmente ci mostra il Padre onnipotente e creatore di tutte le cose; ci presenta poi il Figlio, che discende dal cielo, si fa uomo, muore per noi, risuscita vincitore della morte e trionfa nella sua Ascensione. Infine viene lo Spirito Santo, Signore come il Padre e il Figlio, che da la vita, ha parlato per bocca dei Profeti ed è Dio come il Padre e il Figlio.
Entriamo ora in un altro argomento: et unam sanctam catholicam et apostolicam Ecclesiam. Occorre notare che non diciamo: credo in unam… Ecclesiam. Perché? Perché la fede, che ha per oggetto immediato Dio, è un movimento dell’anima nostra verso Dio, si slancia verso Lui e riposa in Lui; così crediamo in Dio, Credo in Deum. Ma per quel che riguarda le cose create ed intermedie che concernono Dio, che servono a condurci a Lui, ma che non sono Lui, le crediamo semplicemente. Un esempio è, appunto, la santa Chiesa fondata da Gesù Cristo, nel seno della quale soltanto si trova la salvezza: Credo Ecclesiam. Questo articolo è più sviluppato in questo Simbolo che in quello degli Apostoli, il quale dice semplicemente: Credo sanctam Ecclesiam catholicam.
Noi diciamo, dunque, in primo luogo, che la Chiesa è “una”: Credo unam Ecclesiam. Nel Cantico ascoltiamo lo Sposo chiamarla Egli stesso: “unica mia”, una est columba mea.
Inoltre è “santa”: Credo sanctam Ecclesiam; ancora una volta ascoltiamo lo Sposo che dice nel Cantico: Amica mea, columba mea, formosa mea, […] et macula non est in te (Ct 2,10). San Paolo, scrivendo agli Efesini, afferma anche che essa è “senza macchia e senza ruga”, non habentem maculam aut rugam (Ef 5,27). È dunque “santa” la Chiesa di Gesù Cristo: i Santi non si trovano che in essa e in essa vi sono sempre dei Santi. Inoltre, essendo santa, non può insegnarci che la Verità della quale è depositarla.
La Chiesa è “cattolica”: Credo Ecclesiam catholicam. Ciò significa che la Chiesa è universale, poiché è diffusa su tutta la terra e la sua esistenza si prolungherà fino alla fine dei tempi. Tutto ciò è indicato dalla parola cattolica con cui la si designa.
Infine è “apostolica”: Credo Ecclesiam apostolicam. Sì, la Chiesa nella sua origine procede da Gesù Cristo. Non è sorta in modo improvviso, come è avvenuto per il Protestantesimo nel secolo XVI. Se così fosse, non sarebbe di Nostro Signore. Perché sia la vera Chiesa, deve esser “apostolica”, cioè ha bisogno d’una gerarchia che risalga fino agli Apostoli e, attraverso gli Apostoli, a Nostro Signore stesso.
Così, dunque, noi crediamo la Chiesa, e Dio vuole che la crediamo “una”, “santa”, “cattolica” ed “apostolica”: Et unam sanctam catholicam et apostolicam Ecclesiam. La crediamo, dunque, fondata su queste quattro note o caratteri essenziali, che sono la nozione e la prova della sua istituzione divina.
Confiteor unum baptisma in remissionem peccatorum, “Confesso un solo battesimo per la remissione dei peccati”. La parola Confiteor significa “io riconosco”. Ma perché la Chiesa ci fa confessare così espressamente un solo battesimo: Confiteor unum baptisma? Perché con questa confessione vuoi farci proclamare l’esistenza d’un solo ed unico modo di nascita spirituale e, secondo la parola dell’Apostolo agli Efesini, d’un solo battesimo, come Ve un solo Dio e una sola fede”, unus Dominus, una fides, unum baptisma (Ef 4,5).
Il battesimo ci fa figli di Dio e, al tempo stesso, ci da la grazia santificante, con la quale lo Spirito Santo viene a stabilire in noi la sua dimora. E quando, per il peccato mortale, abbiamo la sventura di perdere questa grazia, l’assoluzione che ci riconcilia con Dio ci ridona questa grazia del battesimo, questa santificazione primordiale e non altra, tanta è la forza di tale grazia originaria. Il battesimo prende tutta la sua forza dall’acqua che è scaturita dal costato di Cristo, che è stato dunque per noi il principio di vita. Possiamo pertanto ben dire che Nostro Signore ci ha veramente generato, e que?sto è il solo ed unico battesimo che dobbiamo confessar e riconoscere.
Et expecto resurrectionem mortuorum, “aspetto la risurrezione dei morti”. La Chiesa non ci fa solamente dire: io credo nella risurrezione dei morti, ma io aspetto. Dobbiamo infatti aspettar impazienti il momento della risurrezione, perché l’unione del corpo e dell’anima è necessaria alla perfezione della beatitudine.
I pagani facevano molta fatica ad accettare questa verità, perché la morte sembrava esser una condizione della nostra natura. Quest’ultima, infatti, si compone di anima e di corpo. Dal momento che questi elementi possono separarsi, la morte conserva qualche dominio su di noi. Ma, per noi cristiani, la risurrezione dei morti è un dogma fondamentale. Nostro Signore stesso, risuscitando il terzo giorno dopo la morte, lo confermò in maniera lampante, perché –  dice san Paolo – Egli è il primo uscito tra i morti: primogenitus ex mortuis. E poiché dobbiamo tutti seguirlo, tutti dobbiamo risuscitare.
Et vìtam venturi saeculi. Aspetto anche la vita del secolo futuro, che non conosce la morte. Sulla terra viviamo della vita della grazia, basandoci sulla fede, la speranza e la carità, ma non godiamo della visione di Dio. Nella gloria, al contrario, ne godremo pienamente, lo vedremo a faccia a faccia, come ci dice san Paolo: Videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad facies (1 Cor 13,12). Inoltre, durante il nostro pellegrinaggio terrestre, siamo continuamente esposti a perdere la grazia, mentre nel cielo non esiste più alcun timore che ciò avvenga, e si possiede qualcosa che appaga tutti i nostri desideri ed aspirazioni. Si possiede Dio stesso, che è il fine dell’uomo. Ben a ragione, dunque, la Chiesa ci fa ripetere: Et expecto vitam venturi saeculi.
Tale è la magnifica professione di fede che la Chiesa mette sulle labbra dei suoi figli. Esiste un’altra formula del nostro Simbolo, composta da Pio IV, dopo il Concilio di Trento. Questa che noi abbiamo veduto si trova inclusa in quest’ultima, ma arricchita di molti altri articoli contro i protestanti, ai quali si fanno leggere quando fanno l’abiura dei loro errori; essi non potrebbero ottenere l’assoluzione, se omettessero questa condizione. Similmente tutti i beneficiati che prendono possesso del beneficio loro assegnato (10) devono pronunciare questa formula di fede; anche il vescovo deve farlo arrivando nella sua diocesi. La medesima cosa dovrebbero fare tutti i parroci quando prendono possesso delle parrocchie; ma, dopo la Rivoluzione francese, questa pratica è caduta in disuso e la si osserva soltanto in alcune località particolari.

NOTE

 

10) II beneficio ecclesiastico, tuttora presente nel diritto canonico, si sviluppò come istituto nell’alto Medioevo. Esso designa un insieme di beni di proprietà della Chiesa, costituitesi nel tempo grazie a legati e donazioni pubbliche e private, che si assegnava al titolare d’un ufficio ecclesiastico (vescovo, canonico, parroco) per il suo sostentamento. Quando il donatore del complesso patrimoniale che costituiva il beneficio era anche il fondatore dell’ufficio (chiesa privata, altare privato, monastero), questi per lo più conservava per sé e per i suoi eredi il diritto di scelta del beneficiario.