14. Offertorio

XIV – OFFERTORIO

Appena il Simbolo della fede è stato cantato da tutti i fedeli, il sacerdote bacia l’altare e, voltandosi verso il popolo, dice: Dominus vobiscum, a cui si risponde come d’ordinario: Et cum spiritu tuo. Perché il sacerdote ha baciato l’altare? Perché essendo l’altare, come abbiamo già detto, immagine e rappresentazione di Cristo, voltandosi verso i fedeli il sacerdote vuole inviar loro il bacio di Cristo.

Segue la lettura dell’Offertorio. Si tratta d’un uso moderno, poiché anticamente tutto ciò che si cantava in coro non si leggeva all’altare. In questa parte della Messa le funzioni dei differenti ordini sono ben determinate: il diacono presenta al sacerdote la patena con l’ostia. Il diacono, infatti, non può consacrare, ma può portare la Santa Eucaristia, toccarla ed amministrarla; non ci deve dunque, meravigliare ciò che fa in questo frangente. Il suddiacono, invece, rimane molto più lontano dal celebrante.
Il sacerdote, ricevendo la patena ed offrendo l’ostia, pronuncia l’orazione: Suscipe, sancte Pater. Quest’orazione risale allíVIII o IX secolo.
Per comprendere bene tutte le orazioni che seguono, è necessario aver sempre presente il Sacrificio, benché esso non sia ancora stato offerto. Così, in questa prima orazione, si parla dell’ostia che si presenta all’eterno Padre, benché quest’ostia non sia ancora l’Ostia divina. Quest’Ostia è senza macchia: immaculatam hostiam, v’è qui un’allusione alle vittime dell’Antico Testamento, che dovevano essere tutte scelte tra quelle senza alcuna macchia, perché erano figura di Gesù Cristo, il quale doveva un giorno apparirci come immaculatus.
In quest’orazione la mente del sacerdote va più lontano del momento presente: pensa all’Ostia che sarà sull’altare dopo la consacrazione, la quale è la sola vera Ostia. E per chi offre quest’Ostia? Noi qui vediamo quale vantaggio arrechi l’assistenza alla Santa Messa. Il sacerdote, infatti, offre l’Ostia non solo per se medesimo, ma anche per tutti quelli che gli stanno attorno: pro omnibus circumstantibus. Egli menziona ogni giorno “tutti i presenti”. Inoltre, l’azione del Sacrificio della Messa si estende a tal punto che il sacerdote parla di tutti i fedeli, avendo cura di non ometter i defunti, dei quali fa menzione immediatamente dopo, dicendo: prò omnibus fidelibus christianis vivis atque defunctis, “per tutti i fedeli cristiani vivi e defunti”; e questo perché la Messa non si propone solamente di dar gloria a Dio, ma anche di procurar il bene degli uomini.
Le quattro orazioni dell’Offertorio non sono molto antiche. Un tempo era lasciata alle differenti Chiese la libertà di scegliere per questo momento della Messa le formule di orazione che credevano preferibili; si manteneva invariato solo il Canone che, sempre e dovunque, è stato il medesimo. Ma con il Messale di san Pio V, che è quello attualmente in uso, è stato proibito d’introdurre qualunque cambiamento nelle formule in esso confluite. La differenza delle e-poche alle quali risalgono queste diverse preghiere risulta evidente confrontando il latino di queste orazioni con quello del Canone, che è molto più bello.
Il sacerdote, terminata l’oblazione, fa il segno di croce con la patena, e depone l’ostia in cima al corporale. Con questa croce egli ci indica l’identità che esiste tra il Sacrificio della Messa e quello del Calvario. Quindi il diacono mette il vino nel calice, e il suddiacono si avvicina a sua volta per compier il suo ufficio, che consiste nel mettere l’acqua nel medesimo calice, essendo questa cerimonia la più importante del suo ministero.
L’orazione che accompagna questa cerimonia è antichissima, risalendo ai primi tempi della Chiesa, e ci dimostra che, all’epoca in cui fu composta, si sapeva ancora parlare bene il latino. Essa ci fa comprendere l’importanza e la dignità dell’acqua adoperata nel santo Sacrificio. Ma perché si mescola l’acqua al vino nei calice? Perché, secondo la tradizione, Nostro Signore stesso, istituendo l’Eucaristia, la mescolò al vino, come ogni uomo sobrio deve fare, e la Chiesa conserva questo costume, servendosi di questo particolare per parlarci un linguaggio sublime e svelarci altissimi misteri.
La Chiesa dice dunque: Deus, qui humanae substantiae dignitatem mirabiliter condidisti, “O Dio, che hai creato mirabilmente il genere umano in uno stato di elevata dignità”. Ma perché ci parla qui della dignità dell’uomo? Perché ci ricorda qui la divinità e l’umanità di Gesù Cristo? Perché il vino e l’acqua mescolati nel calice ne sono figura: il vino ci rappresenta Gesù Cristo come Dio, l’acqua ce lo rappresenta come uomo. L’inferiorità dell’acqua confrontata con la forza e superiorità del vino esprime la differenza che passa tra l’umanità e la divinità dì Gesù Cristo. Anche noi dobbiamo vederci rappresentati in quest’acqua, poiché attraverso Maria abbiamo comunicato a Gesù Cristo la natura umana. Anche la Chiesa vuol a questo proposito esprimer i suoi sentimenti d’ammirazione e ricordare la dignità dell’uomo.
Già il Salmista aveva cantato questa dignità, quando aveva detto nel salmo: Constituisti eum super opera manuum tuarum, omnia subjecisti sub pedibus eius, “Signore, tu hai dato all’uomo potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi” (Sai 8,7). E se ci ricordiamo come Dio ha creato l’uomo, non ci meraviglieremo di ascoltare la Chiesa dire che è stato creato in maniera mirabile. Quando si tratta della creazione dell’uomo, Dio pronunzia queste parole; “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza” (Gn 1,26). E come ha detto, così ha fatto.
Ma se fu mirabile il modo in cui è stato creato l’uomo, molto più ammirabile è stato il modo in cui è stato rialzato dopo la caduta; per questo la Chiesa aggiunge: mirabilius reformasti. Sì, più meravigliosa dell’opera della creazione appare quella della Redenzione, sposando Dio, per mezzo del Figlio suo, la natura umana, e rigenerando in tal modo l’uomo.
Da nobis, per hujus aquae et vini mysterium, ejus divinitatis esse consortes, qui humanitatis nostrae fieri dignatus est particeps, Jesus Christus, Filius tuus Dominus noster, “Fa’ che noi, con il mistero di quest’acqua e di questo vino, partecipiamo alla divinità di Colui che si è degnato farsi partecipe della nostra umanità, Gesù Cristo, tuo Figlio, Signor Nostro”. La Chiesa fa in primo luogo risaltare il mistero dell’Incarnazione, col pensiero dell’acqua e del vino mescolati in una medesima bevanda. Ricorda, in tal modo, l’unione dell’umanità e della divinità di Nostro Signore e domanda a Dio che ci faccia partecipi della divinità di Cristo, come dice san Pietro nella sua seconda Lettera: Ut per haec efficiamini divinaa consortes naturae (2Pt 1,4), affinchè, per le promesse che si sono compiute in Gesù Cristo, “noi siamo partecipi della sua natura divina”.
Questa deificazione, cominciata sulla terra con la grazia santificante, avrà il suo compimento in cielo nella gloria. Nel paradiso terrestre, il serpente disse ad Eva che, se ella ed Adamo avessero seguito il suo consiglio, ambedue sarebbero divenuti come dèi. Egli mentiva, perché – allora come ora – soltanto il fedele adempimento dei precetti divini poteva innalzare l’uomo sino a Dio. In cielo saremo come dèi, non perché la nostra natura si divinizzi, ma perché per la visione beatifica contempleremo Dio come Egli contempla Se medesimo, ed il nostro stato sarà allora quello di creature messe immediatamente al di sotto della divinità. La Chiesa ha premura di rammentarci questo pensiero e lo fa in quest’orazione, parlandoci dell’Incarnazione del Verbo, principio della vera grandezza dell’uomo.
Nelle Messe dei defunti il sacerdote non benedice l’acqua che si deve mescolare con il vino nel calice, e in questa omissione v’è un nuovo mistero. Infatti, l’acqua rappresenta i fedeli e il vino rappresenta Nostro Signore Gesù Cristo. L’uso dunque dell’acqua e del vino racchiude due misteri insieme: il mistero dell’unione della natura umana e della natura divina in Gesù Cristo, e il mistero dell’unione di Gesù Cristo e della sua Chiesa, composta di tutti i fedeli. Orbene, la Chiesa non ha più giurisdizione sulle anime del Purgatorio; essa non può più esercitare su di esse il potere delle chiavi. Mentre sono sulla terra, ha su di esse la potestà che ha ricevuto dal suo divin Fondatore, quella cioè di legare e di sciogliere. In virtù di questa potestà conduce le anime sia nella Chiesa trionfante, e allora la Chiesa terrena s’inchina e le onora, sia nella Chiesa purgante, e in questo caso la Chiesa terrena prega per esse. Infatti, non potendo più esercitare su di esse alcun potere, non le rimane che l’intercessione. La Chiesa, dunque, non benedicendo l’acqua nella Messa dei defunti, vuoi farci comprendere che non ha più sulle anime del Purgatorio alcuna autorità.
L’acqua è talmente indispensabile per la celebrazione del santo Sacrificio della Messa che, se per qualche circostanza avvenisse di non trovarne, bisognerebbe astenersi dal celebrare, anche nel giorno di Pasqua. D’altra parte, non si deve mai mettere l’acqua in quantità eccessive perché – in tal caso – il vino sarebbe alterato e non vi sarebbe consacrazione.
I certosini, che seguono la liturgia del secolo XI, e i domenicani, che seguono quella del XIII, non fanno questa cerimonia in Chiesa. Essi la compiono in sacrestia e qualche volta anche, all’altare, ma prima d’incominciare la Messa.
Mescolati già nel calice il vino e l’acqua, il sacerdote offre questo calice a Dio, dicendo: Offerimus tibi, Domine, calicem salutaris, tuam deprecantes clementiam: ut in conspectu divinae majestatis tuas, prò nostra et totius mundi salute, cum odore suavitatis ascendat. Amen, “Ti offriamo, Signore, il calice della salvezza, invocando la tua clemenza, affinchè si elevi come un profumo pieno di soavità, alla presenza della tua maestà divina, per la nostra salvezza e quella del mondo intero. Così sia”.
In questa preghiera la Chiesa porta il suo pensiero su ciò che diverrà il calice. Questo, per ora, non contiene che vino, ma più tardi di questo vino non resteranno che gli accidenti, le specie o apparenze: la sostanza sparirà per far posto al Sangue di Gesù Cristo stesso. La Chiesa prega dunque Dio di guardar al di là di ciò che ora gli presenta, chiedendo di ricevere questo calice in odore di soavità, ossia che gli sia gradito per operare la salvezza di tutti.
Quando il sacerdote termina l’offerta, colloca il calice sul corporale, facendo prima, come aveva fatto precedentemente con la patena, il segno di croce sul punto dove sta per deporlo, e ciò al fine di mostrar ancora una volta che si tratta qui del Sacrificio del Calvario.
Nella Chiesa latina, il pane vien posto sull’altare dinanzi al sacerdote, il calice tra il pane e la croce dell’altare: le due offerte sono così l’una dinanzi all’altra. I Greci, al contrario, le mettono ambedue sulla medesima linea, l’ostia a sinistra e il calice a destra.
II calice, una volta deposto sul corporale, viene coperto con la palla. Quest’ultima consiste in un lino, reso rigido perché abbia maggior consistenza, che vien posto sul calice per impedire che alcunché possa cadervi, specialmente dopo la consacrazione.
Un tempo non si adoperava la palla perché il corporale era così ampio che, alzando uno dei suoi lembi, bastava a coprire il calice, usanza, questa, che conservano ancora i certosini (11). Per comodità ed economia si adattò la palla e, per dimostrare che è come una continuazione del corporale ed ha la medesima dignità, si usa la medesima formula di benedizione tanto per l’una che per l’altro, rimanendo per mezzo di questa benedizione esclusa dalla categoria degli oggetti volgari che tutti possono toccare. A Roma la palla è formata di due tele cucite insieme ed inamidate. In Francia tra le due tele si mette un piccolo cartone.
All’orazione che dice il sacerdote nell’offrire il calice, segue un’altra supplica ch’egli recita in mezzo all’altare con le mani giunte, stando alquanto inchinato: In spiritu humilitatis et in animo contrito suscipiamur a te, Domine: et sic fiat sacrìficium nostrum in conspectu tuo hodie, ut placeat tibi, Domine Deus, “In spirito-di umiltà e col cuore contrito ti domandiamo, Signore, d’essere ricevuti da te, e che il nostro sacrificio oggi sia tale alla tua presenza che possa esserti gradito, Signore Dio nostro”. È questa una preghiera generale, che la Chiesa ha posto qui per completar i riti. Sono le parole dei tre fanciulli nella fornace, contenute nel libro di Daniele (3,39-40).
Segue ora una benedizione importante, poiché si tratta d’invocare lo Spirito Santo affinchè Egli pure si degni di venire a prendere parte al santo Sacrificio: Veni sanctificator, omnipotens aeterne Deus: et benedic (dicendo questa parola, il sacerdote fa il segno di croce sulle cose offerte) hoc sacrìficium, tuo sancto nomini praeparatum, “Vieni Santificatore, Dio onnipotente ed eterno, e benedici questo sacrificio preparato per dar gloria al tuo santo nome”.
Poiché è lo Spirito Santo stesso che opera nella Messa la trasformazione del pane e del vino nel Corpo e Sangue di Cristo, è giusto che sia menzionato nel corso di tale Sacrificio. La Chiesa lo invoca, dunque, con questa preghiera, affinchè, come ha formato Gesù Cristo nel seno di Maria Santissima, si degni di formarlo di nuovo sull’altare. Ed esprime questa supplica chiedendo una benedizione: “Benedici questo sacrificio”, ossia “fallo fruttificare, affinchè sia gradito alla maestà divina”.

NOTE

11) «II corporale era quadrato o rettangolare e spiegato in modo da contenere sulla parte anteriore le oblate; la parte posteriore invece ripiegavasi sul calice propter custodiam immundutiae […]. I certosini ne conservano ancora il costume nel loro rito»: M. RIGHETTI, op. cit, voi. I, pp. 532-533.

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