6. Gloria in excelsis Deo

VI – GLORIA IN EXCELSIS DEO

Per intonar il Gloria in excelsis Deo, il sacerdote si porta in mezzo all’altare, allarga le braccia e poi le ricongiunge. Ma nell’intonare quest’inno, come pure il Credo, non alza gli occhi. Alla fine dell’inno fa il segno di croce, perché in esso si parla di Gesù Cristo che, con lo Spirito Santo, sì trova nella gloria di Dio Padre, e in tal modo si fa menzione della Santissima Trinità.
Quest’inno è uno dei più antichi della Chiesa. Mons. Cousseau, vescovo d’Angoulème, ha fatto una dotta dissertazione per provare che santuario ne è l’autore, ma quest’opinione non è attendibile. In ogni modo, tale inno risale certamente ai primordi della santa Chiesa e lo si ritrova in tutti i Messali della Chiesa orientale. Non v’è nulla di più bello dei diversi afflati che s’incontrano in questa composizione. Non si tratta d’un brano lungo, del genere dei Prefazi, ad esempio, in cui la santa Chiesa espone una dottrina a cui segue un’orazione. Qui tutto è una continua elevazione e uno slancio ardente. Gli Angeli stessi lo hanno intonato, e la Chiesa, guidata – in questo come in tutto – dallo Spirito Santo, non fa che riprendere le parole degli Angeli. Ecco l’esposizione di questo magnifico cantico: Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis, “Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace sulla terra agli uomini di buona volontà”. Tali sono le parole degli Angeli: a Dio la gloria, agli uomini, che erano tutti – fino ad allora – figli dell’ira, la pace e la benedizione di Dio. In quest’esordio ci si rivolge anzitutto a Dio, senza fare la distinzione delle Persone, e la Chiesa, imitando gli Angeli, continua sul medesimo tono ed aggiunge: Laudamus te, “noi ti lodiamo”, perché “la lode ti appartiene, e noi te l’offriamo”; Benedicimus te, “ti benediciamo”, ossia: “ti rivolgiamo i ringraziamenti che ti sono dovuti per i tuoi benefici”; Adoramus te, “adoriamo la tua maestà”; Glorificamus te, “ti glorifichiamo” per averci creati e redenti.
Rivolgendo a Dio queste diverse elevazioni con l’intenzione di lodarlo, ringraziarlo, adorarlo e glorificarlo, non è necessario dar a queste espressioni alcuna interpretazione perché esse offrono a Dio una supplica ed una lode perfetta, secondo le intenzioni della Chiesa.
Gratias agimus tibi propter magnam gloriam tuam. Ecco un’espressione profondissima: “Ti ringraziamo per la tua grande gloria”. Dio si glorifica facendoci del bene. L’Incarnazione, che è il più gran bene che poteva far all’uomo, è anche la sua maggior gloria. Per questo la Chiesa doveva dire: “Ti ringraziamo”, propter magnam gloriam tuam: “per la tua grande gloria”. Infatti, l’omaggio del Verbo incarnato procura a Dio maggior gloria, anche nella minima delle sue adorazioni, di quella che gli possono procurare tutti insieme gli esseri creati. L’Incarnazione è dunque la maggior gloria di Dio, propter magnam gloriam tuam. E noi, povere creature, non possiamo che ringraziare Dio, perché se il suo divin Figlio si è incarnato, lo ha fatto per noi e per causa nostra. “È veramente per noi che tu hai operato, o Signore, il mistero che più ti glorifica: per questo è ben giusto che incessantemente te ne ringraziamo”: Gratias agimus tibi propter magnam gloriam tuam.
Domine Deus, Rex ccelestis, Deus Pater omnipotens. La santa Chiesa si rivolge qui direttamente al Padre e, se in principio tiene conto soltanto dell’unità di Dio, ora ne considera la Trinità. Incominciando, dunque, dalla Persona del Padre, che è principio e origine delle altre due, esclama: Deus Pater omnipotens, “Dio Padre onnipotente”.
Poi rivolge le sue lodi al suo Sposo e, come se parlando di Lui non potesse raffrenarsi, gli consacra quasi tutto il resto del cantico. Canta il Figlio di Dio incarnato, e lo chiama Signore: Domine Fili unigenite, “Signore, Figlio unico”, aggiungendo in continuazione il nome umano che ha ricevuto come creatura: Jesu Christe. Ma non dimentica che Egli è Dio, e lo conferma espressamente: Domine Deus, Agnus Dei, Filius Patris. Sì, il suo Sposo è Dio, è anche l’Agnello di Dio, come ha mostrato san Giovanni; è, infine, il Figlio del Padre. Nei suoi trasporti di giubilo, la santa Chiesa ricerca tutti i titoli che meglio possono convenire al suo Sposo, accumula le sue grandezze e si compiace di ripeterle incessantemente.
Nel novero dei titoli che da allo Sposo figura quello di “Agnello di Dio”, ma sembra quasi ch’essa non abbia osato aggiungere, subito dopo, quella che per Lui è stata la conseguenza dolorosa di tale titolo: Qui tollis peccata mundi. Torna allora, ancora una volta, a parlare della sua grandezza ed esclama: Filius Patris. Come rincuorata da tale espressione, si risolve a rammentar al suo Sposo che, essendo l’Agnello di Dio, s’è degnato di portar i peccati del mondo: Qui tollis peccata mundi. “Se hai voluto riscattarci col tuo Sangue -sembra dirgli -, ora che sei nella gloria, non ci abbandonare, ma abbi pietà di noi”, miserere nobis. Di nuovo gli dice: Qui tollis peccata mundi. Non teme più di pronunziare questa parola, ma torna a ripeterla, perché in essa è la nostra forza. L’Agnello di Dio, il Figlio del Padre, prendendo su di sé le nostre colpe e i nostri peccati, ci ha resi forti: che cosa abbiamo da temere? La santa Chiesa lo comprende così bene che lo ripete per due volte, chiedendo la prima volta misericordia e aggiungendo la seconda volta, che si degni prestar attenzione alle suppliche della sua Sposa: Suscipe deprecationem nostram. “Siamo – dice – riuniti per il Sacrificio; ricevi dunque ora la nostra preghiera”.
Dopo aver così parlato, la santa Chiesa risale nel più alto dei Cieli: Qui sedes ad dexteram Patris. Pochi attimi prima si era compiaciuta di considerare lo Sposo come l’Agnello di Dio, carico di tutti i peccati del mondo. Ora si slancia e penetra sino alla destra del Padre, dove vede assiso Colui che è l’oggetto della sua lode. Ivi s’inabissa nell’Essere medesimo di Dio e vi ravvisa ogni santità, ogni giustizia, ogni rettitudine, ogni grandezza, come dirà tra breve. Ma prima fa sentire questo grido: Miserere nobis, “abbi pietà di noi”, perché tu ci hai riscattato. E subito aggiunge: Tu solus Sanctus, Tu solus Dominus, Tu solus Altissimus Jesu Christe, “O Gesù Cristo, tu sei il solo Santo, il solo Signore, il solo Altissimo”.
Come si vede, la santa Chiesa in questo cantico tende incessantemente verso il suo Sposo, e tutte le sue esclamazioni sono altrettanti slanci che essa compie per salire sino a Lui. Ora pensa a se stessa, ora pensa a Lui, e nulla trattiene il suo entusiasmo. Ha cominciato a parlare del suo Sposo, ricerca tutte le sue grandezze e si sforza di non ometterne alcuna. Parla di Lui, in particolare, perché è il suo Sposo; vuole lodarlo, glorificarlo e lo definisce: “solo Santo, solo Signore, solo Altissimo”. Tuttavia aggiunge: Cum Sancto Spiritu, in gloria Dei Patris, “con lo Spirito Santo nella gloria di Dio Padre”. In tal modo menziona la Santissima Trinità. E la lode che rivolge a Cristo, chiamandolo “il solo Santo, il solo Signore, il solo Altissimo”, raggiunge le due altre Persone, poiché il Padre e lo Spirito Santo non possono essere separati dal Figlio e – al par di Lui – sono egualmente solo “Santo”, solo “Signore”, solo “Altissimo”. Infatti nessuno è “Santo”, nessuno è “Signore”, nessuno è “Altissimo”, all’infuori del Signore stesso.
In questo magnifico cantico tutto è grande e semplice allo stesso tempo. La santa Chiesa si commuove pensando al suo Sposo. Si eleva prima di tutto col canto del Kyrie, segue poi intonando il cantico degli Angeli e, volendo continuar il canto di questi spiriti beati, lo stesso Spirito, che ha parlato ai pastori attraverso gli Angeli, ha posto sulle labbra della Chiesa la fine di un così sublime cantico.

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