26. Comunione

XXVI – COMUNIONE

Dopo quest’atto d’umiltà, il sacerdote si dispone a ricevere la santa Comunione. Tiene l’Ostia nella mano destra e, facendo con essa il segno di croce, dice: Corpus Domini nostri Jesu Chrìsti custodiat animam meam in vitam aeternam. Amen. Notiamo bene: in vitam aeternam, “per la vita eterna”. Il sacerdote parla qui come se si dovesse comunicar una volta sola in tutta la vita. Una sola Comunione dovrebbe bastare, infatti, per conservare la nostra anima pura e santa per la vita eterna, e Dio ha comunicato a questo Sacramento la grazia sufficiente perché una sola Comunione basti a sostenere la persona in grazia. Di ciò ha voluto donarci alcuni esempi. Ricordiamo, tra gli altri, quello di santa Maria Egiziaca che ricevè la santa Comunione dalle mani del santo abate Zosimo, e quest’unica Comunione bastò a custodire la sua anima per la vita eterna. Orbene, la santa Comunione non è solamente un pegno di vita eterna per l’anima, è anche un pegno di risurrezione per il corpo. Per questo il vescovo, quando da la Comunione ai sacerdoti novelli che ha ordinati, dice a ciascuno: Corpus Domini nostri Jesu Chrìsti custodiat te in vitam aeternam.
Dopo essersi comunicato, il sacerdote si raccoglie per breve tempo. Poi scopre il calice e, raccogliendo con la patena i frammenti dell’Ostia che possono essere rimasti sul corporale, li fa cadere nel calice dicendo: Quid retribuam Domino prò omnibus quae retribuii mihi? Calicem salutaris accipiam, et nomen Domini invocabo, “Che cosa renderò al Signore per tutto quello che mi ha dato? Prenderò il calice della salvezza ed invocherò il nome del Signore”. Anche queste parole sono tratte dal salmo 115. Davide, parlando del calice – Calicem salutaris – non pensava ad una bevanda ordinaria. Si sente nelle sue parole qualcosa di profetico: esse lasciano scorgere che l’uomo sarebbe stato salvato con una bevanda alla quale nessun altra può essere paragonata, bevanda che non sarà altro che il Sangue del Signore.
II sacerdote aggiunge: Laudane invocabo Dominion, ef ab inimicis meis salvus ero, “ora loderò il Signore, perché sono atto a far risuonare la sua lode a motivo dei doni che mi ha fatto; e, libero dai miei nemici, non avrò più nulla da temere”. Quindi prende il calice con la mano destra e, facendo con esso il segno di croce, dice: Sanguis Domini nostri Jesu Christi custodiat animam meam in vitam esternarti. Amen. E beve il prezioso Sangue con la particella che vi aveva mischiata nel momento di dar al popolo la pace.
È a questo punto che deve essere distribuita la Comunione ai fedeli, se ve ne sono; altrimenti il sacerdote purifica immediatamente il calice. Il ministro versa un po’ di vino nel calice, che il sacerdote gli presenta, dicendo: Quod ore sumpsimus, Domine, pura mente, capiamus: et de munere temporali fiat nobis remedium sempiternum, “fa’, Signore, che conserviamo in un cuore puro, ciò che abbiamo ricevuto con la bocca, e che il dono che ci viene fatto nel tempo – munere temporali – sia per noi un rimedio eterno: fiat nobis remedium sempiternum“. Questo latino è molto antico, come può desumersi dal suo evidente sapore classico. Si dice munere temporali, perché la Comunione è cosa temporale. Dio è eterno – è vero -e si da a noi nella Comunione. Ma questa Comunione si fa in un giorno, in un’ora, in un momento determinati. È, dunque, a ragione chiamata “dono temporale”: munus temporale. Orbene, per mezzo di questo dono, il Signore opera la sua unione con l’anima nostra; e, poiché il Signore è la forza, fa di quest’atto unico un rimedio energico, la cui l’efficacia deve durar in eterno e guarire l’anima nostra.
Per una seconda volta il ministro versa del vino nel calice; ma questa volta vi aggiunge un po’ d’acqua. In questo momento il sacerdote si purifica le dita e sin d’ora può disgiungerle. In questo frattempo dice: Corpus tuum, Domine, quod sumpsi, et Sanguis, quem potavi, adhaereat visceribus meis: et prassta; ut in me non remaneat scelerum macula, quem pura et sancta refecerunt sacramenta: qui vivis et regnas in saecula saeculorum. Amen, “II tuo Corpo, che ho ricevuto, e il tuo Sangue, che ho bevuto, Signore, alimentino il mio corpo; e fa’ che, alimentato da così santi e puri sacramenti, non rimanga in me la minima macchia di peccato, tu che vivi e regni per tutti i secoli dei secoli. Così sia”. Questa preghiera, come la precedente, è molto bella ed anche molto antica. Entrambe devono risalire ai primi tempi, come anche quella della pace. Nella prima abluzione il sacerdote non mette nel calice altro che vino, per rispetto al prezioso Sangue, poiché ancora poteva rimanerne qualche goccia nella sacra coppa. Così, nel caso in cui, per accidente, si venisse a versare questo vino, bisognerebbe purificare tutto quanto avesse toccato, trattandolo col medesimo rispetto con cui si tratta il preziosissimo Sangue. I rubricisti raccomandano al sacerdote di agitare leggermente il calice per raccoglier tutte le gocce del prezioso Sangue che potessero trovarvisi. Nella seconda abluzione si mescola l’acqua al vino, perché allora il Sangue di Nostro Signore non v’è più. Il sacerdote deve sempre bere dalla stessa parte, ed è per questo che ordinariamente sul piede del calice s’incide una piccola croce. Senza questa precauzione, il sacerdote si esporrebbe, se non vi facesse attenzione, ad asterger col purificatoio il prezioso Sangue di cui il calice fosse ancora umido.

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