Pratica del Tempo di Passione e della Settimana Santa

PRATICA DEL TEMPO DI PASSIONE E DELLA SETTIMANA SANTA

Contemplazione del Cristo.

Il cielo della santa Chiesa si fa sempre più cupo; non bastano più al suo dolore le tinte severe di cui s’era rivestita durante le quattro passate settimane. Ella sa che gli uomini cercano Gesù e hanno deciso la sua morte; non passeranno dodici giorni e i suoi nemici gli metteranno addosso le loro mani sacrileghe. Lo seguirà sul monte Calvario per raccoglierne l’ultimo suo anelito, e farà porre sul suo corpo esanime la pietra del sepolcro. Non ci dobbiamo quindi meravigliare, se invita i suoi figli, durante questa quindicina, a contemplare colui che forma oggetto di tutti i suoi affetti e di tutte le sue tristezze.

Amore.

Non le lacrime, od una sterile compassione ci domanda la nostra Madre; ma che approfittiamo degl’insegnamenti che derivano dagli avvenimenti della grande Settimana. Essa ci ricorda ciò che il Salvatore disse, salendo il Calvario, alle donne di Gerusalemme che osavano piangerlo al cospetto dei carnefici: “Non piangete sopra di me, ma su di voi stesse e sui vostri figli” (Lc 23,28). Non che egli rifiutasse il tributo delle loro lacrime, di cui anzi era commosso; ma fu l’amore che sentiva per loro a suggerirgli quelle parole, soprattutto perché voleva vederle ben comprese della grandezza di ciò che si stava adempiendo, nel momento in cui la giustizia di Dio si manifestava così inesorabile verso il peccato.

Penitenza.

Fin dalle precedenti settimane la Chiesa iniziò la conversione del peccatore; ora la vuole perfezionare. Non ci mostra più un Cristo che digiuna e che prega sul monte della Quarantena, ma la Vittima universale che s’immola per la salvezza del mondo. È scoccata l’ora in cui la potenza delle tenebre s’approfitterà del momento che egli le ha concesso; e il più orrendo dei delitti sarà consumato. Fra qualche giorno il Figlio di Dio sarà dato in potere dei peccatori, che lo uccideranno. Non occorre più che la Chiesa esorti i suoi figli alla penitenza, perché sanno benissimo quale espiazione abbia imposto il peccato; essa è tutta presa dai sentimenti che le ispira la fine d’un Dio sulla terra, ed esprimendo nella liturgia, ci è di guida a quelli che dobbiamo concepire in noi.

Dolore.

Il carattere principale delle preghiere e dei riti della presente quindicina consiste nel profondo dolore di vedere il Giusto conculcato dai suoi nemici fino alla morte, e nella più energica indignazione contro il popolo deicida. David e i Profeti forniranno di solito la base dei testi liturgici. Quanto più il Cristo rivela di sua bocca le angosce della sua anima, tanto più si moltiplicheranno le imprecazioni contro i suoi carnefici. Il castigo della nazione giudaica è descritto in tutto il suo orrore, ed in ciascuno degli ultimi tre giorni ascolteremo il pianto di Geremia sulle rovine dell’infedele città.

Conversione.

Prepariamoci dunque a queste forti impressioni troppo spesso ignorate dalla pietà superficiale del nostro tempo. Ricordiamo con quale amore e bontà il Figlio di Dio si diede agli uomini, visse la loro vita, “passò sulla terra facendo del bene” (At 10,38); e vediamo ora questa vita tutta tenerezza, condiscendenza ed umiltà, finire con un infame supplizio sul patibolo degli schiavi. Consideriamo da un lato la perversità del popolo peccatore che, in mancanza dei delitti, imputa a colpa i benefici del Redentore, e consuma la più nera ingratitudine con l’effusione d’un sangue innocente e divino; e dall’altro contempliamo il Giusto per eccellenza in preda a tutte le amarezze, con l’anima “triste fino alla morte” (Mt 26,38), con la maledizione che pesa su di lui, mentre beve questo calice fino alla feccia, nonostante la sua umile implorazione; il Cielo che rimane inflessibile alle sue preghiere ed ai suoi dolori; e ascoltiamo il suo grido: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46). È questo ciò che commuove la santa Chiesa, è questo che ella ci offre a contemplare; perché sa che, se saremo compenetrati di quella scena, i legami che avevamo col peccato si scioglieranno da sé, e ci sarà impossibile rimanere ancora complici di tali misfatti.

Timore.

Purtroppo, la Chiesa sa anche la durezza del cuore umano, e come esso ha bisogno di timore per decidersi una buona volta ad emendare la propria vita: ecco perché non ci risparmia nessuna delle imprecazioni che i Profeti mettono in bocca al Messia contro i nemici. Tali anatemi sono altrettante profezie che s’avverarono alla lettera negli ostinati Giudei; ma stanno anche ad ammonirci che pure il cristiano li deve temere, se persiste, secondo l’energica espressione di san Paolo, “a crocifiggere Gesù Cristo” (Ebr 6,6). Ricordi allora le parole del medesimo Apostolo: “Quanto più acerbi supplizi pensate voi che si meriti che avrà calpestato il Figlio di Dio, ed avrà tenuto come profano il sangue del testamento col quale è stato santificato, ed avrà fatto oltraggio allo spirito della grazia? Ben sappiamo chi sia colui che ha detto: A me la vendetta! Io darò la retribuzione! – ed ancora: Il Signore giudicherà il suo popolo. È cosa terribile cadere nelle mani del Dio vivente” (Ebr 10,29-31).

Orrore del peccato.

Infatti, niente di più spaventoso, perché nei giorni in cui siamo “egli non ha risparmiato nemmeno il proprio Figliolo” (Rm 8,32), dandoci con tale imperscrutabile rigore la misura di ciò che dovremmo attenderci da lui, se trovasse ancora in noi il peccato, che lo costrinse ad essere così inesorabile verso il suo diletto Figliolo “oggetto di tutte le sue compiacenze” (Mt 3,17). Queste considerazioni sulla giustizia verso la più innocente e la più augusta di tutte le vittime, e sul castigo dei Giudei impenitenti, distruggeranno in noi l’effetto al peccato e matureranno quel salutare timore sul quale poggeranno, come sopra un’incrollabile base, una ferma speranza e un sincero amore.

Virtù del sangue divino.

Infatti, se coi nostri peccati siamo gli autori della morte del Figlio di Dio, è anche vero che il sangue che scorre dalle sue santissime piaghe ha la virtù di lavarci da questo delitto. La giustizia del Padre celeste può solo placarsi mediante l’effusione del sangue divino; d’altra parte la sua stessa misericordia vuole che questo sangue vada a nostro riscatto. Il ferro dei carnefici ha aperto cinque piaghe nel corpo del Redentore: sono cinque sorgenti di salvezza che scorrono ormai sull’umanità a purificare e rinnovare in ciascuno di noi l’immagine di Dio cancellata dal peccato. Accostiamoci dunque con confidenza a glorificare il sangue liberatore che apre al peccatore le porte del cielo, ed il cui valore infinito basterebbe a riscattare milioni di mondi più colpevoli del nostro. Siamo prossimi all’anniversario del giorno in cui esso fu versato; passarono molti secoli da quando scese a bagnare le membra trafitte del nostro Salvatore, e, scorrendo giù giù dall’alto della croce, inzuppò questa terra ingrata: ma la sua potenza è sempre la stessa.

Rispetto e confidenza verso il sangue divino.

Veniamo dunque ad “attingere alle fonti del Salvatore” (Is 12,3); e le nostre anime torneranno piene di vita, tutte pure e splendenti di celeste bellezza; non rimarrà in essa la minima traccia delle passate sozzure; ed il Padre ci amerà con lo stesso amore con cui ama il Figlio suo. Non fu forse per ritrovare noi, ch’eravamo perduti, che lasciò morire il Figlio della sua tenerezza? Noi eravamo divenuti preda di Satana per i peccati; ed ecco che tutto ad un tratto egli ci strappa dalle sue mani e ci restituisce la libertà. Dio però non usò la forza per sottrarci dal rapitore: allora come siamo diventati nuovamente liberi? Ascoltiamo l’Apostolo: “Siete stati comprati a caro prezzo” (1Cor 6,20). E qual è questo prezzo? Ce lo spiega il Principe degli Apostoli: “Non mediante cose corruttibili come l’oro e l’argento, siete stati riscattati, ma col prezioso sangue di Cristo, dell’Agnello immacolato e senza macchia” (1Pt 1,18-19). Messo questo sangue divino sulla bilancia della giustizia celeste, l’ha fatta pendere a nostro favore: tanto sorpassava il peso delle nostre iniquità! La forza di questo sangue è riuscita ad abbattere le porte dell’inferno, ha rotto le nostre catene, e “ricomposta la pace fra il cielo e la terra” (Col 1,20), Raccogliamo dunque sopra di noi questo sangue prezioso; laviamo in esso tutte le nostre piaghe, e segnamocene la fronte come d’un sigillo indelebile e difensore, affinché nel giorno dell’ira siamo risparmiati dalla spada vendicatrice.

Venerazione della Croce.

Insieme al sangue dell’Agnello che toglie i peccati, la santa Chiesa ci raccomanda di venerare anche la Croce, come l’altare sul quale è immolata la Vittima. Due volte nel corso dell’anno, nella festa dell’Invenzione e dell’Esaltazione, ci sarà mostrato questo sacro legno per ricevere i nostri onori, come il trofeo della vittoria del Figlio di Dio; però in questo momento ci parla solo dei suoi dolori, presentandola come un oggetto di umiliazione e d’ignominia. Aveva detto il Signore nell’antica alleanza: “Maledetto chi pende dal legno” (Dt 21,23), e l’Agnello che ci salva si degnò affrontare questa maledizione; ma, per ciò stesso, come ci è caro il legno una volta infame! È divenuto lo strumento della nostra salvezza, il pegno dell’amore del Figlio di Dio per noi. Per questo la Chiesa, in nostro nome, gli dedicherà ogni giorno i più affettuosi omaggi; e noi uniremo alle sue le nostre adorazioni. La riconoscenza verso il Sangue che ci ha rascattati, una tenera venerazione verso la santa Croce, saranno dunque, durante questi quindici giorni, i sentimenti che occuperanno particolarmente i nostri cuori.

Amore per Cristo.

Ma che faremo proprio per l’Agnello, per colui che ci dà il suo sangue ed abbraccia con tanto amore la croce della nostra liberazione? Non è forse giusto che ci attacchiamo ai suoi passi e, più fedeli degli Apostoli al momento della sua Passione, lo seguiamo giorno per giorno, ora per ora, nella Via dolorosa? Gli terremo fedele compagnia, in questi giorni in cui s’è ridotto a nascondersi agli sguardi dei suoi nemici; invidieremo la sorte di quelle poche famiglie devote che l’accolgono fra le loro pareti, esponendosi con la coraggiosa ospitalità a tutta la rabbia dei Giudei; compatiremo gli affanni della più tenera delle madri; penetreremo col pensiero nel Sinedrio, dove si macchina la congiura contro la vita del Giusto. Ad un tratto l’orizzonte sembrerà illuminarsi un istante, ed ascolteremo il grido dell’Osanna risuonare per le strade e per le piazze di Gerusalemme. Tale inatteso trionfo del Figlio di David, le palme, le voci innocenti dei fanciulli, daranno tregua per un istante ai nostri presentimenti. Il nostro amore s’unirà al tributo d’omaggio reso al Re d’Israele che visita con una tale dolcezza la figlia di Sion, affinché sia adempiuto l’oracolo profetico; ma queste gioie avranno poca durata, e ricadremo subito nella tristezza!

Meditazione della Passione.

Giuda non tarderà a mercanteggiare l’odioso baratto; finalmente arriverà l’ultima Pasqua ed il simbolo dell’agnello sparirà alla presenza del vero Agnello, di cui la carne ci verrà data in cibo ed il sangue in bevanda. Questa sarà la cena del Signore. Vestiti degli abiti nuziali, prenderemo posto fra i discepoli, perché è il giorno della riconciliazione nel quale si riuniscono intorno ad una stessa mensa il peccatore pentito e il giusto sempre fedele. Ma il tempo stringe: ci dobbiamo incamminare all’orto del Getsemani; là potremo calcolare il peso delle nostre iniquità alla vista del deliquio del Cuore di Gesù, che n’è tanto oppresso da domandar grazia. Ecco, che, nel cuor della notte, le guardie e le soldatesche, guidate dal traditore, catturano il Figlio dell’Eterno; e le legioni angeliche che lo adoravano rimarranno quasi disarmate dinanzi a tale misfatto. Comincerà allora la serie delle ingiustizie che avranno per teatro i tribunali di Gerusalemme: la menzogna, la calunnia, le debolezze del governatore romano, gl’insulti delle guardie e dei soldati, tumultuosi schiamazzi d’una plebaglia ingrata e crudele; tali i fatti che s’addenseranno sulle rapide ore che passeranno dall’istante in cui il Redentore sarà preso dai suoi nemici fino a quando salirà, sotto il peso della Croce, la collina del Calvario. Vedremo da vicino tutte queste cose; il nostro amore non potrà allontanarsi in quei momenti in cui, fra tanti oltraggi, il Redentore tratta il grande affare della nostra salvezza.

Finalmente, dopo gli schiaffi e gli sputi, dopo la sanguinosa flagellazione, dopo l’obbrobriosa crudeltà della coronazione di spine, ci metteremo in cammino sulle orme del Figlio dell’Uomo; e sulle tracce del suo sangue ne riconosceremo i passi. Dovremo irrompere fra la calca d’un popolo che brama il supplizio dell’innocente, per sentire le imprecazioni vomitate contro il Figlio di David. Giunti sul luogo del sacrificio, vedremo coi nostri occhi l’augusta Vittima spogliata delle sue vesti, inchiodata sul legno su cui dovrà spirare, ed innalzata in aria fra il cielo e la terra, quasi per essere più esposta agli insulti dei peccatori. Ci accosteremo all’Albero della vita per non perdere neppure una goccia del sangue che purifica, e neppure una parola che, a tratti, il Redentore farà giungere fino a noi. Compatiremo la Madre sua, il cui cuore sarà trafitto dalla spada del dolore; e preso di lei saremo nel momento in cui Gesù, prima di spirare, ci affiderà alla sua tenerezza di madre. Quindi, dopo tre ore d’agonia, lo vedremo inclinare il capo e ne riceveremo l’ultimo respiro.

Fedeltà.

Ecco quello che ci resta: un corpo contuso e senza vita, e delle membra insanguinate e irrigidite dal freddo della morte. È questo il Messia che con tanta allegrezza avevamo salutato quando venne in questo mondo? Non è bastato a lui, Figlio dell’Eterno, “annientarsi fino a prendere forma di schiavo” (Fil 2,7); questa nascita nella carne era solo il principio del suo sacrificio; e il suo amore lo doveva spingere fino alla morte, ed alla morte di croce. Sapeva che non avrebbe ottenuto il nostro amore, se non a prezzo d’una immolazione così generosa; ed il suo cuore non si è rifiutato. “Amiamo dunque Dio, dice san Giovanni, perché egli per il primo ci ha amati” (1Gv 4,19). È la meta che si propone la Chiesa in questi solenni anniversari. Dopo avere abbattuta la superbia ed ogni resistenza con lo spettacolo della divina giustizia, sprona il nostro cuore ad amare finalmente colui che s’è offerto in vece nostra a subirne i duri colpi. Guai a noi, se questa grande settimana non apportasse alle nostre anime un giusto ritorno verso colui che aveva tutti i diritti d’abbominarci, e che invece ci ha amati più di se stesso! Diciamo dunque con l’Apostolo: “La carità di Cristo ci stringe, persuasi come siamo ch’egli è morto per tutti, affinché quelli che vivono non vivano già per loro stessi, ma per colui ch’è morto e risuscitato per essi” (2Cor 5,14-15). Tale fedeltà dobbiamo a chi fu nostra vittima, e che fino all’ultimo istante, invece di maledirci, non cessò mai d’implorare ed ottenere per noi misericordia. Un giorno riapparirà sulle nubi del cielo e “gli uomini vedranno, dice il Profeta, chi hanno trafitto” (Zc 12,10). Possiamo anche noi essere fra coloro, ai quali la vista delle cicatrici delle sue piaghe ispirò confidenza, avendo riparato col loro amore ogni reato di cui s’erano resi colpevoli verso il divino Agnello!

Confidenza.

Speriamo dalla misericordia di Dio che i santi giorni in cui entriamo producano in noi quella felice trasformazione che ci permetta, quando suonerà l’ora del giudizio in questo mondo, di sostenere senza tremare lo sguardo di colui che sarà calpestato dai piedi dei peccatori. La morte del Redentore sconvolge tutta la natura: il sole meridiano s’oscura, la terra trema dalle fondamenta, le rocce si spaccano: che ne siano scossi anche i nostri cuori, e dall’indifferenza passino al timore, dal timore alla speranza, infine dalla speranza all’amore; affinché dopo essere discesi col nostro liberatore negli abissi della tristezza, meritiamo di risalire con lui alla luce, irradiati dagli splendori della sua Risurrezione che, recandoci il pegno d’una vita nuova, non potranno più estinguersi in noi.

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