20. Sanctus

XX – SANCTUS

II Trisagio è il cantico che udì Isaia quand’ebbe la visione celeste e, dopo di lui, san Giovanni, come ci narra egli stesso nella sua Apocalisse (4,8). La Chiesa non poteva mettere questo cantico celeste al principio della celebrazione, quando ci siamo confessati peccatori dinanzi a Dio e a tutta la corte celeste.
Che dicono dunque gli Angeli? Sanctus, Sanctus, Sanctus Dominus Deus Sabaoth. Celebrano la santità di Dio. Ma come la celebrano? Nella maniera più perfetta: adoperano il superlativo, dicendo per tre volte di seguito che Dio è veramente santo. Ritroviamo il cantico del Trisagio nel Te Deum: Tibi Cherubim et Seraphim incessabili voce proclamant: Sanctus, Sanctus, Sanctus Dominus Deus Sabaoth.
Perché applichiamo a Dio la triplice affermazione della santità? Perché la santità è la principale delle perfezioni divine: Dio è santo per essenza.
Già nell’Antico Testamento, il profeta Isaia udì questo cantico degli Angeli, e più tardi, nel Nuovo Testamento, ce ne parla Giovanni, il discepolo prediletto, nella sua Apocalisse. Dio è dunque veramente santo, ed Egli medesimo si compiace di rivelarcelo. Ma alla santità va unita un’altra qualità: Sanctus Dominus Deus Sabaoth, “Santo è il Signore, Dio degli eserciti”; come se si dicesse: Deus sanctus et fortis. Dunque, due qualità in Dio: la santità e la forza. S’adopera l’espressione Deus Sabaoth o Deus exercituum, “Dio degli eserciti”, perché niente è più forte d’un esercito che sormonta tutti gli ostacoli, supera tutte le difficoltà e passa sopra a tutto, e ciò esprime perfettamente la forza di Dio. Dunque, Dio è santo e forte, tanto forte quanto santo e tanto santo quanto forte.
Questo cantico angelico ha preso il nome di “Trisagio“, termine che deriva da agios, “santo”, e da treis, “tre”: “Dio tre volte santo”.
Nell’Antico Testamento esso costituiva una definizione della Santissima Trinità, perché è come se si dicesse: “Santo è Dio Padre, Santo è Dio Figlio, Santo è Dio Spirito Santo”. Ma, per intravedere questo, bisognava essere molto colti e conoscere le Scritture; e non vi erano che pochi dottori in possesso d’una tale conoscenza. O, talvolta, era piaciuto a Dio d’infonder una tale conoscenza in alcune anime privilegiate a cui si degnava di comunicar i suoi lumi. Tra i Giudei vi sono sempre state di queste anime privilegiate.
Dopo aver confessato la santità e la forza di Dìo, la Chiesa aggiunge: Pieni sunt caeli et terra gloria tua. Non v’è nulla di più sublime per esprimere la gloria di Dio. Infatti, non v’è angolo della terra dove la gloria di Dio non brilli e risplenda; tutto è opera della sua potenza e tutto lo loda e lo glorifica.
La santa Chiesa, contemplando in un trasporto di giubilo la gloria e la potenza di Dio, esclama: Hosanna in excelsis. Così gridavano i Giudei, secondo quanto ci dice la Scrittura, quando, la Domenica delle Palme, Gesù entrava trionfante in Gerusalemme. Osanna filio David, gridava il popolo: sì, Hosanna, che significa “saluto” e “rispetto”. Unendo questo saluto al Sanctus, la Chiesa ha costituito un solo brano liturgico. Hosanna in excelsis, “saluto e rispetto nell’alto dei cieli”, senza permettere che alcuna dì tali espressioni così belle e significative cadesse in oblio.
Come al principio della Messa la Chiesa ci ha unito agli Angeli per mezzo delle suppliche del Kyrie, vero grido di tristezza, così ora vuole che ci uniamo di nuovo ai cori angelici, ma in tutt’altra maniera. Essendo già penetrata nei misteri, essa è vicina a raggiunger il loro possesso completo. Per questo è presa dall’entusiasmo e pensa unicamente a cantar al suo Dio: Sanctus, Sanctus, Sanctus, Hosanna in excelsis.
Era senza dubbio lodevole che i Giudei cantassero l’Hosanna mentre Gesù scendeva dal monte degli Olivi, arrivando a Gerusalemme e traversando la Porta Aurea: tutto era in armonia ed annunziava il trionfo. Ma, in realtà, è ancor più opportuno cantarlo qui, nel momento in cui il Figlio di Dio sta per discender in mezzo a noi che abbiamo la grazia di conoscerlo! È vero, infatti, che i Giudei dicevano: Hosanna filio David, ma non lo conoscevano; dopo pochi giorni, infatti, gridano contro di Lui: Tolle tolle, crucifìge eum.
Tutte le Chiese, a qualunque liturgia appartengono, qualunque rito seguono, hanno questo Trisagio.
Anticamente il Sanctus si cantava nel medesimo tono del Prefazio e si aveva il tempo sufficiente per dirlo intero prima della Consacrazione e di aggiungervi le parole: Benedictus qui venit in nomine Domini. Più tardi si composero canti più ornati, e dunque più lunghi. Da qui è venuto l’uso di divider il brano in due parti, perché poteva accadere che la Consacrazione avesse luogo prima d’averlo terminato. Il coro sospende dunque il canto alla parola Benedictus, che riprende dopo la consacrazione. E così questa frase, che prima si considerava come un saluto a Colui che doveva venire, diviene un saluto a Colui che è già venuto.
Il sacerdote, al contrario, recita immediatamente dopo il Trisagio queste parole: Benedictus qui venit in nomine Domini e, pronunziandole, traccia su se medesimo il sacro segno della nostra Redenzione per esprimere che quelle parole si applicano a Gesù Cristo. Tuttavia, la recita del Sanctus e del Benedictus da parte del sacerdote non deve considerarsi come un uso relativamente recente, come abbiamo detto parlando dell’Introito. Abbiamo veduto, infatti, il Sanctus recitato da alcuni sacerdoti di rito orientale; ora, è noto che le liturgie orientali hanno conservato quasi senza modifiche i riti da esse adottati sin dalla più remota antichità.