La morte delle cattedrali

di Marcel Proust*

* Questo studio di Marcel Proust apparve nel «Figaro» del 16 agosto 1904, in occasione della legge di separazione della Chiesa dallo Stato francese, che prevedeva fra l’altro l’abolizione dei luoghi di culto, l’inventario di tutti i beni della Chiesa di Francia, l’istituzione delle cultuali pena la confisca di quegli stessi beni da parte dello Stato, la «polizia dei culti», ecc. Legge che, come è noto, fu occasione di vittoria spirituale da parte dell’episcopato francese, obbediente all’ordine di San Pio X: lasciarsi spogliare serbando, in povertà assoluta, il mandato pastorale. Oggi che senza alcuna pressione da parte di governi laici si ode parlare negli stessi ambienti ecclesiastici di «sacrificio necessario» delle cattedrali e del canto gregoriano sembra opportuno rileggere la sottile, sferzante, appassionata perorazione di Proust in difesa dell’immenso tesoro di cui s’è nutrita per secoli – con la fede cristiana – tutta la grande arte di Occidente, e che non è facile comprendere a chi o a che cosa voglia oggi essere immolato [N.d.T.]

Supponiamo per un istante che la religione cattolica sia spenta da secoli, che le tradizioni del suo culto siano perdute. Sole, monumenti fatti inintelligibili ma rimasti mirabili, di una fede obliata, sopravvivono le cattedrali, mute e dissacrate. Supponiamo quindi che un giorno alcuni eruditi suffragati da documenti arrivino a ricostruire le cerimonie che vi si celebravano un tempo, per le quali erano state costruite, che erano precisamente il loro significato e la loro vita, senza le quali esse non erano ormai più che lettera morta; e supponiamo allora che alcuni artisti, sedotti dal sogno di restituire momentaneamente la vita a quei grandi vascelli divenuti silenziosi, vogliano rifarne per un’ora il teatro del dramma misterioso che vi si svolgeva, al centro di canti e profumi: in una parola, intraprendano, per la Messa e le cattedrali, ciò che i felibri hanno realizzato per il teatro di Orange e le antiche tragedie. Esiste un governo appena sollecito del passato artistico della Francia che non sarebbe pronto a sovvenzionare largamente un cosi magnifico tentativo? Si può forse pensare che ciò che esso fa per delle rovine romane, non lo farebbe per dei monumenti francesi, per quelle cattedrali che sono probabilmente la più alta ma indiscutibilmente la più originale espressione del genio di Francia? Poiché alla nostra letteratura si può preferire la letteratura d’altri popoli, alla nostra musica la loro musica, alla nostra pittura, alla nostra scultura, le loro; ma è in Francia che l’architettura gotica ha creato i suoi primi e più perfetti capolavori. Altri paesi non fecero che imitare la nostra architettura religiosa, e senza uguagliarla. Cosi dunque (riprendo la mia ipotesi), ecco degli eruditi che hanno saputo ritrovare il significato perduto delle cattedrali: le sculture, le vetrate riprendono il loro senso, un profumo misterioso aleggia di nuovo nel tempio, un dramma sacro vi ha luogo, la cattedrale si rimette a cantare. Il governo sovvenziona con ragione, con maggior ragione che le rappresentazioni del teatro d’Orange, dell’Opéra Comique e dell’Opéra, questa resurrezione delle cerimonie cattoliche, di un interesse storico, sociale, plastico, musicale di cui la sola bellezza è al di sopra di tutto ciò che un artista poté mai sognare, e alla quale forse soltanto Wagner sembrò accostarsi, imitandola, nel Parsifal. Carovane di snob vanno alla città santa (sia Amiens, Chartres, Bourges, Laon, Reims, Rouen, Parigi, la città che volete, tante sublimi cattedrali abbiamo!), e una volta l’anno riprovano l’emozione che un tempo andavano a cercare a Bayreuth e ad Orange: gustare l’opera d’arte nella cornice stessa che per essa fu costruita. Disgraziatamente, qui come a Orange, essi rimangono dei curiosi, dei dilettanti; qualsiasi cosa facciano, non abita più in loro l’anima di un tempo. Gli artisti che son venuti ad eseguire i canti, quelli che incarnano i sacerdoti, possono essere colti, penetrati dello spirito dei testi; il ministro della pubblica istruzione non sarà avaro, con loro, di decorazioni né di complimenti. Eppure, non ci si può impedire di esclamare: «Ahimè, quanto più belle dovevano essere queste feste, al tempo in cui erano dei sacerdoti a celebrare l’uffizio e non per dare a dei letterati un’idea di quelle cerimonie, ma perché avevano nella loro virtù la stessa fede degli artisti che scolpirono il giudizio universale nel timpano del portico o dipinsero le vite dei santi sulle vetrate dell’abside. Come l’opera tutta intera doveva parlar più alto, più giusto, quando tutto un popolo rispondeva alla voce del sacerdote, piegava i ginocchi al campanello dell’elevazione, non, come in queste rappresentazioni retrospettive, al modo di freddi figuranti stilizzati ma perché anche loro, come il sacerdote, come lo scultore, credevano. Ma ahimè, tali cose sono altrettanto lontane da noi quanto il pio entusiasmo del popolo greco alle rappresentazioni del suo teatro, e le nostre “ricostruzioni” non potranno mai darne un’idea». Ecco che cosa si direbbe se la religione cattolica non esistesse più, se degli eruditi fossero giunti a riscoprirne i riti, se degli artisti avessero provato a resuscitarli per noi. Ma per l’appunto quella religione esiste ancora e non ha per così dire mai mutato dal gran secolo in cui le cattedrali furono edificate. Non abbiamo bisogno, per immaginare ciò che fosse, vivente e nel pieno esercizio delle sue funzioni sublimi, una cattedrale del tredicesimo secolo, di farne, come del teatro di Orange, la cornice di una ricostruzione, di retrospettive esatte forse ma gelide. Basta entrarvi a una qualunque ora del giorno in cui si celebri un uffizio. La mimica, la salmodia, il canto non sono affidati qui ad artisti senza persuasione. I ministri stessi del culto ufficiano qui, non secondo un pensiero estetico ma per fede, e per ciò tanto più esteticamente. Le comparse non si potrebbe desiderarle più vive e più sincere, se il popolo stesso si degna di comparire per noi senza saperlo. Si può dire che, grazie alla persistenza nella Chiesa cattolica degli identici riti e, d’altro canto, della fiducia cattolica nel cuore dei francesi, le cattedrali non siano soltanto i più begli ornamenti della nostra arte ma i soli che vivano ancora la loro vita integrale, che siano rimasti in rapporto con lo scopo per il quale furono edificati. Ora, la rottura del governo francese con Roma sembra rendere prossima la discussione e probabile l’adozione di un progetto del signor Briand, ai termini del quale, di qui a cinque anni, le chiese potranno essere e saranno spesso dissacrate; non solo il governo non sovverrà più alla celebrazione delle cerimonie rituali nelle chiese, ma potrà trasformarle in tutto ciò che gli piacerà: museo, sala di conferenze, casino da giuoco. O voi, signor André Hallays, che andate ripetendo che la vita si ritira dalle opere d’arte non appena non servano più ai fini che presiedettero alla loro creazione, e che un mobile divenuto ninnolo, un palazzo divenuto museo raggelano, non riescono più a parlare al cuore e finiscono per morire – io spero che cesserete un istante di denunciare i restauri più o meno goffi che minacciano ogni giorno le città di Francia che avete preso a vigilare, e che vi leverete, alzerete la voce a pungolare se occorre il signor Chaumié, a chiamare in causa, al bisogno, il signor de Monzie, a convocare il signor John Labusquière, a riunire la Commissione dei monumenti storici. Il vostro zelo ingegnoso fu spesso efficace, non lascerete morire, adesso, e in un colpo solo, tutte le chiese di Francia.

Non vi è oggi un socialista di buon gusto che non deplori le mutilazioni inflitte dalla Rivoluzione alle nostre cattedrali, tante statue, tante vetrate infrante. Ebbene, meglio devastare una chiesa che dissacrarla. Finché vi si celebra la Messa, per mutilata che sia essa conserva ancora la sua vita. Dal giorno in cui viene dissacrata è morta, e se anche sia protetta come monumento storico di celebrazioni scandalose, non è più che un museo. Si può dire alle chiese ciò che Gesù diceva ai suoi discepoli: «Se non continuerete a mangiare la carne del Figlio dell’Uomo, e a bere il suo sangue, non vi è più vita in voi» (San Giovanni, VI, 55), quelle parole misteriose e così profonde del Salvatore fatte, in questa nuova accezione, assioma d’estetica e di architettura. Quando il sacrificio della carne e del sangue del Cristo, il sacrificio della Messa, non sarà più celebrato nelle chiese, non vi sarà in esse più vita. La liturgia cattolica è una cosa sola con l’architettura e la scultura delle nostre cattedrali, poiché le une e le altre hanno radice in un unico simbolismo. È noto come non vi sia nelle cattedrali scultura, per secondaria che sembri, che non abbia il suo valore simbolico. Se nel portico occidentale della cattedrale di Amiens la statua del Cristo si eleva su uno zoccolo ornato di rose, di gigli e di vite, è perché il Cristo ha detto: «Io sono la rosa di Saron. Io sono il giglio delle valli. Io sono la vite vera» [1].

Se sotto i suoi piedi sono scolpiti l’aspide e il basilisco, il leone e il drago, ciò è dovuto al versetto del salmo XC: Super aspidem et basiliscum ambulabis: et conculcabis leonem et draconem. Alla sua sinistra è rappresentato, in un piccolo bassorilievo, un uomo che lascia cadere la sua spada alla vista di un animale mentre accanto a lui un uccello continua a cantare. Questo perché «il poltrone non ha il coraggio di un tordo», e il bassorilievo ha il compito di simboleggiare, in effetti, la viltà come opposta al coraggio, perché è posta sotto la statua che è sempre (almeno nei primi tempi) alla sinistra della statua del Cristo, la statua di San Pietro, l’apostolo del coraggio. E così delle migliaia di figure che adornano la cattedrale.

Ora, le cerimonie del culto partecipano dello stesso simbolismo. Nel libro mirabile al quale vorrei avere un giorno l’occasione di rendere intero omaggio, L’arte religiosa in Francia nel XIII secolo, Emile Mâle così analizza, secondo il Razionale dei divini uffizi di Guglielmo Durando, la prima parte della festa del Sabato Santo. Fin dal mattino si comincia con lo spegnere nella chiesa tutte le lampade, per designare che l’Antica Legge, che finora illuminava il mondo, è ormai abrogata.

Poi il celebrante benedice il fuoco nuovo, figura della Nuova Legge. Egli lo fa scaturire dalla selce, per ricordare che Gesù Cristo è, come dice San Paolo, la pietra angolare del mondo. Allora il vescovo e il diacono si dirigono verso il coro e si arrestano davanti al cero pasquale. Il cero, ci insegna il Durando, è un triplice simbolo. Spento, simboleggia insieme la colonna oscura che guidava gli ebrei durante il giorno, l’Antica Legge e il corpo di Gesù Cristo. Acceso, significa la colonna di fuoco che Israele vedeva di notte, la Nuova Legge e il corpo glorioso di Gesù Cristo risorto. Il diacono fa allusione a questo triplice simbolismo, intonando, davanti al cero, la formula dellExultetMa egli insiste soprattutto sulla somiglianza del cero e del corpo di Gesù Cristo. Ricorda che la cera immacolata fu prodotta dall’ape, insieme casta e feconda come la Vergine che mise al mondo il Salvatore. Per rendere sensibile agli occhi la similitudine della cera e del corpo divino, egli pianta nel cero cinque grani di incenso che ricordano insieme le cinque piaghe del Cristo e i profumi recati dalle pie donne per imbalsamarlo. Finalmente egli accende il cero col fuoco nuovo e in tutta la chiesa le lampade si riaccendono a mostrare la diffusione della Nuova Legge nel mondo.

Ma questa, si dirà, è una festa eccezionale. Ecco l’interpretazione di una cerimonia quotidiana, la Messa, che, lo vedrete, non è meno significante.

«Il canto grave e triste dell’Introito apre la cerimonia; esso esprime l’aspettazione dei patriarchi e dei profeti. Il coro dei chierici è il coro stesso dei santi dell’Antica Legge che sospirano la venuta del Messia, che non sono destinati a vedere. Il vescovo entra allora, ed appare come la vivente immagine del Salvatore, atteso dalle Nazioni. Nelle grandi festività, si recano innanzi a lui sette ceri, a ricordare che, secondo la parola del profeta, i sette doni dello Spirito Santo riposano sul capo del Figlio di Dio. Egli avanza sotto un baldacchino trionfale di cui i quattro portatori possono compararsi ai quattro Evangelisti. Due accoliti procedono alla sua destra e alla sua sinistra e figurano Mosé ed Elia, che si mostrarono sul Tabor ai lati del Signore. Essi ci insegnano che Gesù aveva in sé l’autorità delle Tavole e quella della Profezia.

«Il vescovo siede sul suo trono e resta silenzioso. Sembra non partecipare in alcun modo alla prima parte della cerimonia. La sua attitudine contiene un insegnamento: egli ci ricorda con il suo silenzio che i primi anni della vita di Gesù Cristo trascorsero nell’oscurità e la meditazione. Il suddiacono, frattanto, s’è diretto al pulpito e, volto verso la destra, legge ad alta voce l’Epistola. Intravediamo qui il primo atto del dramma della Redenzione. Poiché la lettura dell’Epistola figura la predicazione di San Giovanni Battista nel deserto. Egli parla prima che il Salvatore abbia cominciato a far udire la sua voce, ma non parla che agli ebrei. Sicché il suddiacono, immagine del Precursore, si volge verso il nord, che è il lato dell’Antica Legge. Terminata la lettura, egli si inchina dinanzi al vescovo come il Precursore si umiliò dinanzi a Gesù Cristo».

«Il canto del Graduale, che segue la lettura dell’Epistola, si riporta ancora alla missione di San Giovanni Battista e simboleggia le esortazioni alla penitenza che egli dirige agli ebrei alla vigilia dei tempi nuovi».

«A questo punto, il celebrante o il diacono, legge il Vangelo. Momento solenne, poiché qui comincia la vita attiva del Messia; la sua parola si fa udire per la prima volta nel mondo. La lettura del Vangelo è la figura stessa della sua predicazione».

«Il Credo segue al Vangelo come la fede segue all’annuncio della verità. I dodici articoli del Credo si riferiscono alla vocazione dei dodici Apostoli».

«I paramenti stessi che il sacerdote indossa all’altare», aggiunge Mâle, «gli oggetti che servono al rituale sono altrettanti simboli. La pianeta, che s’indossa al di sopra delle altre vesti, è la carità che è superiore a tutti i precetti della legge e che è legge suprema essa stessa. La stola, che il sacerdote si passa al collo, è il giogo leggero del Maestro; e poiché sta scritto che ogni cristiano deve prediligere quel giogo, il prete bacia la stola mettendola e togliendola. La mitra a due punte del vescovo significa la scienza che egli deve avere dell’uno e dell’altro Testamento; due nastri ne pendono a ricordare che la Scrittura ha da essere interpretata secondo la lettera e secondo lo spirito. La campana del Sanctus è la voce dei predicatori. L’impalcatura alla quale è sospesa è figura della croce. La corda, fatta di tre canapi attorti, significa la triplice intelligenza della Scrittura, che deve essere interpretata nel triplice senso storico, allegorico e morale. Quando si prende in mano la corda per scuotere la campana, si esprime simbolicamente la verità fondamentale che la conoscenza delle Scritture deve esprimersi nell’azione».

Così tutto, fino al minimo gesto del sacerdote, fino alla stola che indossa, si accorda a simboleggiarlo, con il sentimento profondo che anima tutta intera la cattedrale e che, come ha ben detto Mâle, è il genio stesso del Medioevo. Mai spettacolo comparabile, specchio altrettanto gigantesco della scienza, dell’anima e della storia, fu offerto agli sguardi e all’intelligenza dell’uomo. L’identico simbolismo abbraccia anche la musica che si fa udire allora nell’immensa nave e di cui i sette toni gregoriani figurano le sette virtù e le sette età del mondo. Si può dire che una rappresentazione di Wagner a Bayreuth è men che nulla accanto alla celebrazione della Messa solenne nella cattedrale di Chartres.

Senza dubbio, solo coloro che hanno studiato l’arte religiosa sono capaci di analizzare compiutamente la bellezza di una tale celebrazione. E basterebbe questo perché lo Stato avesse l’obbligo di vegliare alla sua perpetuazione. Allo stesso modo lo Stato sovvenziona i corsi del Collegio di Francia che non si dirigono se non a un piccolo numero di persone e che, a fianco di questa integrale resurrezione, una Messa solenne in una cattedrale, appaiono fredde dissezioni. E a fianco dell’esecuzione di simili sinfonie, le rappresentazioni dei nostri teatri ugualmente sovvenzionati corrispondono a dei bisogni letterari ben meschini. Ma aggiungeremo subito che coloro che possono leggere a libro aperto nella simbolica del Medioevo non sono i soli per i quali la cattedrale vivente, vale a dire la cattedrale scolpita, dipinta, sonora, sia il più grande degli spettacoli. Allo stesso modo si può gustare la musica senza conoscere l’armonia. So bene che Ruskin, mostrando le ragioni spirituali che presiedono alla disposizione delle cappelle nell’abside delle cattedrali, ha detto: «Mai potrete incantarvi alle forme dell’architettura se non siete in simpatia con i pensieri dai quali uscirono». Non è men vero per questo che tutti noi conosciamo l’avventura dell’ignorante, del semplice sognatore che entra in una cattedrale senza tentare di comprendere, abbandonandosi alle proprie emozioni e provandone un’impressione più confusa senza dubbio, ma altrettanto forte. Come testimonianza letteraria di tale stato d’animo, assai diverso certamente da quello del sapiente che passeggia nella cattedrale come in una «foresta di simboli che l’osservano con sguardi familiari», ma che consente di provare nella cattedrale, all’ora degli uffizi, un’emozione imprecisa ma possente, citerò la bella pagina di Renan intitolata Doppia preghiera: «Uno dei più begli spettacoli religiosi che ancora si possano contemplare ai nostri giorni (e che presto non si potranno più contemplare se la Camera vota il progetto Briand) è quello che presenta, al cader della notte, l’antica cattedrale di Quimper. Quando l’ombra ha riempito le navate laterali del vasto edificio, i fedeli dei due sessi si riuniscono nella navata centrale e cantano in lingua brettone la preghiera della sera su un ritmo semplice e commovente. La cattedrale non è rischiarata che da due o tre lampade. Nella navata, da un lato stanno gli uomini, in piedi; dall’altra le donne, inginocchiate, formano come un mare immobile di cornette bianche. Le due schiere cantano alternatamente e la frase cominciata da uno dei cori è terminata dall’altro. Ciò che cantano è molto bello. Quando lo udii mi parve che con qualche leggera trasformazione lo si potrebbe adattare a tutti gli stati della umanità. Mi fece soprattutto sognare una preghiera che, grazie a certe variazioni, potesse convenire ugualmente agli uomini e alle donne». Tra questa vaga rêverie che non è senza incanto e le gioie più consapevoli del conoscitore d’arte religiosa, vi sono molte gradazioni. Ricordiamo, per memoria, il caso di Gustave Flaubert che studia, ma per interpretarlo in un sentimento moderno, una delle parti più belle della liturgia cattolica: «Il sacerdote bagnò il pollice nell’olio santo e cominciò le unzioni, sugli occhi prima … sulle sue narici ghiotte di brezze tiepide e di sentori amorosi, sulle sue mani che si erano dilettate di contatti soavi … sui suoi piedi infine, così rapidi quando correvano all’assolvimento dei suoi desideri, e che ora non camminerebbero più».

Così, dinanzi a questa realizzazione artistica, la più completa che mai fosse, poiché tutte le arti vi ebbero parte, della più grandiosa visione alla quale si sia mai elevata l’umanità, si possono sognare molte cose, e la dimora è grande abbastanza perché tutti possiamo trovarvi posto. La cattedrale che ospita tanti santi, patriarchi, profeti, apostoli, re, confessori, martiri, ove generazioni intere si affollano fino all’entrata dei portici, spesso supplici, angosciate, elevando l’edificio tremante sotto il cielo come un alto gemito, mentre gli angeli si affacciano sorridenti dall’alto delle gallerie che, nell’incenso rosa e azzurro della sera e l’oro abbagliante del mattino, appaiono veramente come i «balconi del cielo», la cattedrale, nella sua immensità, può dare asilo al letterato come al credente, al sognatore come all’archeologo; quel che importa è ch’essa resti viva, e che dall’oggi al domani la Francia non sia trasformata in un arida riva dove gigantesche conchiglie cesellate apparirebbero in secca, svuotate della vita che le abitò, e che neppure porterebbero più, all’orecchio che vi s’inchini, il vago murmure di un tempo: semplici pezzi da museo, gelidi musei esse stesse. «Non è troppo tardi, scriveva qualche anno fa André Allays, per segnalare un’idea strampalata, nata, pare nel cervello di alcuni abitanti di Vezelay. Costoro vorrebbero che si sconsacrasse la chiesa di Vezelay.

L’anticlericalismo ispira enormi idiozie. Sconsacrare quella basilica significa ritirarne l’anima che le resta. Quando si sarà spenta la piccola lampada che brilla in fondo al coro, Vezelay non sarà più che una curiosità archeologica. Vi si respirerà l’odore sepolcrale dei musei».

Solo continuando a riempire l’ufficio al quale furono prima destinate, le cose, dovessero lentamente morire al loro compito, conservano la loro bellezza e la loro vita. Si crede forse che nei musei di scultura comparata, i calchi dei celebri stalli in legno scolpito della cattedrale di Amiens possano dare un’idea di quei medesimi stalli, nella loro vecchiezza augusta e sempre operante? Mentre al museo un custode ci impedisce di accostarci ai loro calchi, gli stalli inestimabilmente preziosi, così vecchi, così illustri e così belli, continuano a esercitare ad Amiens le loro funzioni modeste di stalli, alle quali adempiono da tanti secoli con piena soddisfazione degli amienesi: come quegli artisti che, pervenuti alla gloria, non per questo abbandonano un piccolo impiego o smettono di dar lezioni. Quelle funzioni consistono, ancora prima che nell’istruire le anime, nel sopportare i corpi, e proprio a questo, rovesciati durante ciascun uffizio e mostrando il rovescio, essi vengono modestamente impiegati. Ben di più, i legni continuamente soffregati di quegli stalli hanno a poco a poco rivestito, o piuttosto lasciato affiorare quella oscura porpora che è come il loro cuore e che a tutto preferirà, fino a non poter più guardare i colori dei quadri che sembrano, dopo quelli, ben rozzi, l’occhio che una volta ne sia stato incantato. È con una sorta di ebbrezza che si gusta allora, nell’ardore sempre più infiammato del legno, ciò che è simile alla linfa, nel tempo, traboccante dall’albero. L’ingenuità dei personaggi qui scolpiti prende dalla materia nella quale vivono qualcosa come di doppiamente naturale. E in tutti quei frutti, quei fiori, quei rami, quelle vegetazioni di Amiens che lo scultore di Amiens scolpì nel legno di Amiens, i diversi strofinamenti hanno lasciato via via apparire quelle mirabili opposizioni di tono in cui la foglia si distacca, d’altro colore che il gambo, facendo pensare a quei nobili accenti che Gallé ha saputo trarre dal cuore armonioso delle querce.

Non soltanto ai canonici che seguono l’uffizio in quegli stalli, i cui braccioli, le misericordie e la ringhiera raccontano l’Antico e il Nuovo Testamento, non soltanto al popolo che riempie l’immensa nave, la cattedrale, se il progetto Briand fosse votato, si troverebbe chiusa, impedita di offrire Messa e orazioni. Dicevamo poco fa che in una cattedrale quasi tutte le immagini sono simboliche. Alcune non lo sono. Sono le immagini dipinte o scolpite di coloro che avendo contribuito con i loro denari alla decorazione della cattedrale, vollero serbarvi per sempre un posto, onde potere, dalla balaustra della nicchia o dallo sguancio della vetrata, seguire silenziosamente gli uffizi e partecipare senza rumore alle preghiere, in saecula saeculorum. Si sa che, avendo i bovi di Laon cristianamente trascinato fino in cima alla collina su cui si eleva la cattedrale i materiali che servivano a costruirla, l’architetto li ricompensò drizzando le loro statue alla base dei campanili, dove potete vederli ancora oggi, nel fragore delle campane e nel ristagno del sole, levare i capi lunati al disopra dell’arca santa e colossale fino all’orizzonte delle pianure di Francia, nella loro «meditazione interiore». Per delle bestie, era tutto quel che si poteva fare: agli uomini si accordava di meglio. Essi entravano in chiesa, vi prendevano il loro posto che serbavano anche dopo la morte e dal quale potevano continuare, come nel tempo della loro vita, a seguire il divino sacrificio, sia che affacciati fuor del sepolcro di marmo volgano leggermente la testa dal lato del Vangelo o dal lato dell’Epistola, in grado di percepire, come a Brou, e sentire attorno ai loro nomi lo stretto e infaticabile allacciarsi dei fiori emblematici e delle iniziali venerate, serbando a volte fin nella tomba, come a Digione, i colori splendenti della vita, sia che in fondo alla vetrata, nei loro manti di porpora o d’oltre mare o d’azzurro che imprigiona il sole infiammandosene, riempiano di colori i suoi raggi trasparenti e bruscamente li sciolgano multicolori, erranti senza meta per la navata che tingono. Nel loro splendore disorientato e pigro, nella loro palpabile irrealtà, essi rimangono i donatori, che, proprio per questo, avevano meritato la concessione di una preghiera perpetua. E tutti vogliono che lo Spirito Santo, nel momento in cui discenderà nella Chiesa, riconosca bene i suoi. Non soltanto la regina e il principe portano le loro insegne, le loro corone o il loro collare del Toson d’Oro. I cambiavalute si sono fatti rappresentare verificando il titolo delle monete, i pellai vendendo le loro pellicce (vedi nel libro di Mâle la riproduzione di queste due vetrate), i beccai abbattendo i bovi, i cavalieri portando il loro blasone, lo scultore scalpellando capitelli.

O voi tutti, dalle vostre vetrate di Chartres, di Tours, di Bourges, di Sens, di Auxerre, di Troyes, di Clermond Ferrand, di Tolosa, bottai, pellai, speziali, pellegrini, bifolchi, armaioli, tessitori, tagliapietre, beccai, panierai, scarpari, cambiamonete, o voi, grande democrazia silenziosa, fedeli ostinati ad ascoltare l’uffizio, non smateriati ma più belli che ai giorni della vostra vita, nella gloria di cielo e di sangue della preziosa vetrata – non udrete più la Messa che vi eravate assicurata dando per l’edificazione della chiesa i vostri più limpidi scudi. I morti non governano più i vivi, secondo la profonda parola. E i vivi, obliosi, cessano di adempiere ai voti dei morti [2].

Ma lasciamo i bottai di rubino, i panierai di rosa e d’argento inscrivere sul fondo della vetrata la «muta protesta» che Jaurès saprebbe renderci con tanta eloquenza e che lo supplichiamo di far giungere alle orecchie dei deputati; e, dimenticando quel popolo innumerevole e silenzioso, avi d’elezione di cui la Camera non si preoccupa minimamente, per concludere, riassumiamo.

In primo luogo: la protezione anche delle più belle opere di architettura e di scultura francesi, che morranno il giorno nel quale non serviranno più al culto delle necessità dalle quali son nate, che è la loro funzione come essi sono i suoi organi, che è la loro spiegazione perché esso è loro anima, impone al governo il dovere di esigere che il culto sia perpetuamente celebrato nelle cattedrali, laddove il progetto Briand l’autorizza a fare delle cattedrali, in capo a qualche anno, i musei o le sale di conferenze (a immaginare il meglio) che gli piacerà, e persino, se il governo non prende questa iniziativa, autorizza il clero, se ne trovasse l’affitto troppo elevato (e poiché non avrà più aiuti, si può dire per forza) a non celebrarvi più uffizi.

In secondo luogo: la conservazione del più grande complesso artistico che si possa concepire, storico e pure vivo, e per la ricostruzione del quale non si indietreggerebbe dinanzi ad alcuna spesa se non esistesse più, vale a dire la Messa nelle cattedrali, impone al Governo il dovere di sovvenzionare la Chiesa cattolica per il mantenimento di un culto che importa ben altrimenti, alla conservazione della più nobile arte francese (per continuare a limitarci a questo punto di vista profano) che non tutti i conservatori, teatri di prosa o di musica, imprese di ricostruzioni di tragedie antiche al teatro di Orange, ecc. ecc., tutte queste associazioni avendo un fine d’arte contestabile, e preservando opere in gran parte trascurabili (che cosa rimane, dinanzi al coro di Beauvais o le statue d iReims, del Jour, dell’Aventurière o del Gendre de M. Poirier?), mentre l’opera che è la cattedrale del Medioevo con le sue mille figure dipinte o scolpite, i suoi canti, i suoi uffizi, è la più nobile di tutte le opere alle quali si sia mai innalzato il genio di Francia.

E non abbiamo parlato in questo articolo se non delle cattedrali, per dare a tali conseguenze del progetto Briand la loro forma più impressionante, la più oltraggiosa per lo spirito del lettore. Ma è noto che la distinzione tra le chiese cattedrali e le altre è del tutto artificiosa, poiché basterebbe, in occasione di una festa, rizzarvi la cattedra di un vescovo perché la chiesa divenisse momentaneamente cattedrale. Ciò che ho detto delle cattedrali si addice a tutte le belle chiese di Francia e si sa che ve ne sono migliaia. Seguendo una strada francese tra i campi di lupinella e i pomari che si allineano d’ambo i lati per lasciarla passare «così bella», quasi a ogni passo scorgerete un campanile che si leva contro l’orizzonte nuvoloso o chiaro, traversando, nei giorni di pioggia luminosa, un arcobaleno che, come una mistica aureola riflessa sul cielo, prossimo all’interno stesso della chiesa semiaperta, vi giustappone i suoi ricchi e precisi colori di vetrata; quasi a ogni passo scorgerete un campanile elevantesi, al disopra delle case volte a terra, come un ideale che si lancia nella voce delle campane alla quale si mischia, se vi avvicinate, il gridio degli uccelli. E bene spesso potrete affermare che la chiesa, al disopra della quale esso si leva così, contiene belli e gravi pensieri scolpiti e dipinti, e altri pensieri che, non chiamati a una vita così precisa, sono rimasti più vaghi, allo stato di belle linee architettoniche, ma altrettanto possenti, se pure più oscuri, e capaci di rapire la nostra immaginazione nello zampillo del loro slancio o di racchiuderla tutta intera nella curva della loro caduta. Là, dalle balaustre incantevoli di un balcone romanico o dalla soglia misteriosa di un portale gotico socchiuso, che fonde all’oscurità illuminata della chiesa il sole dormente all’ombra dei grandi alberi che la circondano, noi dobbiamo continuare a vedere la processione che esce dall’ombra multicolore spiovente dagli alberi di pietra della navata e imbocca nella campagna, di tra le colonne tarchiate, sormontate da capitelli di fiori e di frutti, quei sentieri dei quali si può dire, come il Profeta diceva del Signore: «Tutti i suoi sentieri sono pace».

Infine, non abbiamo invocato sin qui che un interesse artistico. Ciò non vuol significare che il progetto Briand non ne minacci ben altri e che a questi altri noi siamo indifferenti. Ma insomma, è da questo punto di vista che abbiamo voluto porci. Il clero avrebbe torto a respingere l’aiuto degli artisti. Poiché, a vedere quanti deputati, appena finito di votare leggi anticlericali, partono per un giro delle cattedrali d’Inghilterra, di Francia o d’Italia, ne riportano alla loro moglie una vecchia pianeta per farne un mantello o una portiera, elaborano nei loro studi progetti di laicizzazione davanti alla riproduzione fotografica di una «Deposizione dalla Croce», contrattano a un rivendugliolo uno sportello di pala d’altare, vanno a cercare fino in provincia, per la loro anticamera, frammenti di stalli di coro che serviranno da portaombrelli e il venerdì santo, alla «schola cantorum», se non addirittura alla chiesa di San Gervais, ascoltano «religiosamente», come si dice, la Messa di Papa Marcello, è pensabile che il giorno nel quale avremo persuaso tutte le persone di gusto dell’obbligo che incombe al governo di sovvenzionare le cerimonie del culto, avremo trovato come alleati e sollevato contro il progetto Briand buon numero di deputati, anche anticlericali.

Note al testo

[1] In realtà le prime due frasi non furono pronunziate dal Cristo. La liturgia le applica di preferenza alla Vergine Maria [N.d.T.].

[2] Proust si riferisce all’usurpazione dei legati di Messe da parte del governo francese [N.d.T.].

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