Don Nicola Bux auspica che il Papa scriva un’enciclica sulla liturgia

CITTA’ DEL VATICANO – “Il mio auspicio è che il Papa scriva un’enciclica sulla Liturgia, proprio a partire dalla fede, e che i cardinali, i vescovi e i sacerdoti, lo assecondino di più su questi temi”. Così mons. Nicola Bux, docente alla Facoltà teologica pugliese e consultore presso le Congregazioni perla Dottrina della fede e per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti, commenta alla Radio Vaticana quanto detto dal Papa nel videomessaggio per la cerimonia conclusiva del Congresso Eucaristico internazionale di Dublino sul fatto che i desideri dei Padri Conciliari circa il rinnovamento liturgico sono stati oggetto di “molte imcomprensioni ed irregolarità” e che “la revisione è rimasta ad un livello esteriore”.

“Nonostante le indicazioni del Concilio – spiega Bux -, la liturgia è stata degradata da ‘atto di culto’ a una sorta di intrattenimento, a una riunione di famiglia. Ma non si tratta di un bene a nostra disposizione, è un ‘atto pubblico della Chiesa’ che viene regolato dalla Santa Sede e – come ricordava il Concilio – nessun altro, anche se sacerdote, può aggiungere, togliere o mutare alcunchè di sua iniziativa in materia liturgica”. Quello che è avvenuto, “e che il Papa in qualche modo denuncia, è esattamente ciò che i Padri Conciliari non volevano. Molti hanno inteso la riforma come una rivoluzione e hanno messo al centro l’uomo, con la sua immancabile volontà di protagonismo, anzichè Dio”. Secondo il docente, “abbiamo tolto dal centro il Santissimo Sacramento per mettere al suo posto noi chierici, in un momento in cui – come si vede dalle cronache – faremmo bene a metterci di lato, come ministri”.

“Non lamentiamoci poi del decadimento dell’etica, anche nella Chiesa – conclude Bux -. Come ha ricordato Benedetto XVI con un’espressione forte: ‘la crisi della Chiesa nasce proprio da una crisi della liturgia’”. (ANSA).

Cosa divide la Chiesa

di don Nicola Bux

La riforma liturgica postconciliare tra abusi e teoremi, resistenze e indulti

1. Premessa

Da non pochi ecclesiastici non si vuol vedere la realtà in costante crescita, di gruppi di  fedeli,  soprattutto  giovani,   che  promuovono  l’attuazione  del  Motu  Proprio Summorum  Pontificum,  per  la  corretta  celebrazione  della   Messa   sia  in  forma extraordinaria, sia in forma ordinaria. Ma poi si finisce per ammettere tale realtà, in quanto da taluni vescovi si sostiene che “la Messa in latino divide la Chiesa”. Pronti a invocare “i segni dei tempi”, non ci si chiede come mai tanti giovani ne siano attratti e quale sia la causa.

Il pensatore ebreo Heschel osserva: “E’ consueto incolpare la scienza secolare e la filosofia antireligiosa dell’eclissi della religione nella società odierna, ma sarebbe più onesto incolpare la religione delle sue stesse sconfitte. La religione è declinata non perché  è  stata  contestata,  ma  perché  è  divenuta  priva  di  rilevanza,monotona, oppressiva e insipida”1. Un tale giudizio non può essere assolutizzato, ma deve far riflettere noi cristiani; per  esempio, se dando priorità al sociale, abbiamo sanato la divisione prodottasi all’interno dell’io tra la sua fede e la realtà in cui vive; se abbiamo prima vagliato la cultura che ci circonda e poi trattenuto ciò che vale. Infatti, la religione è quello che l’uomo fa nella sua solitudine ma anche ciò in cui scopre la sua essenziale compagnia, l’esigenza di dire tu a Dio: “O Dio tu sei  il mio Dio…così nel santuario ti ho cercato per contemplare la tua potenza e la tua gloria”(Sal 63, 2-9).

2. L’io e il culto

La liturgia oggi non stimola la nostalgia del Tu divino, non aiuta a far emergere un io così, perché è privata della Sua  presenza che riempie di silenzio – i tabernacoli vengono tolti dal centro e messi all’angolo o addirittura fuori della chiesa – e quindi, a chi poter dire: “Al tuo nome e al tuo ricordo si volge tutto il nostro desiderio” (Is 26,8)? Il Desiderato delle genti non può essere trovato, perché non è più in chiesa. Poi, l’insistenza  eccessiva  sul  “comunitario”,  specialmente  nelle  celebrazioni  deisacramenti, ha oscurato il “personale”: così, il desiderio che spinge ogni uomo alla ricerca di Dio, non può sopravvivere, non si trasforma in domanda, cioè in preghiera.

“Se non vuoi avere paura, – dice sant’Agostino – metti alla prova il tuo io profondo. Non toccarne solo la superficie ma va in fondo al tuo essere e raggiungi gli angoli più reconditi del tuo cuore” 2. Ma una gran parte di ciò che è più  profondo nell’uomo rimane sepolto a causa dell’allontanamento da Dio: solo Cristo incarnato e risorto può svegliarlo,  perché  è  permanentemente  alla  sua  ricerca.  Benedetto  XVI  spiega  la ragione  per  cui  Dio  si  è  messo  alla   ricerca  dell’uomo:  “Egli  viene  incontro all’inquietudine del nostro cuore,all’inquietudine del nostro domandare e cercare” 3. Per questo la liturgia deve mostrare la sua capacità di risvegliare l’io: se riesce a farlo, proverà la sua verità ed efficacia. Infatti, solo il divino, il sacro presente, Colui che è il senso  ultimo  delle  cose, può  salvare l’uomo, cioè preservarne  e difenderne le dimensioni essenziali e il suo destino. Non si può comprendere che cos’è l’io, al di fuori del cristianesimo. Perché Cristo corrisponde a ciò che io sono e quando lo incontro, specie nel mistero della liturgia comprendo ciò che manca: il Mistero, Uno che mi dice: “Io sono il Mistero che manca a ogni cosa che tu gusti,  a  ogni promessa che tu vivi. Qualunque cosa tu desideri,cerchi di raggiungere,io sono il Destino di tutto ciò che fai. Tu cerchi me in qualsiasi cosa” 4.

3. Nuovo movimento liturgico

L’io rinasce da un incontro così, e genera un’affinità con la persona incontrata e una compagnia  con  altri  che  l’hanno  incontrata 5 : ecco  come  sta  nascendo  il  nuovo movimento liturgico. Nessun potere può impedire totalmente il destarsi dell’incontro, ma cerca tuttavia di impedire che diventi storia 6; non si vuole  vedere la libertà: è la prova  della  mancanza  di  un’esperienza  reale  della  fede,  secondo  ciò  che  dice sant’Ambrogio: “Ubi fides,ibi libertas”. Se c’è la libertà, che è il segno più prezioso e potente della fede, si può verificare che stiamo facendo un’esperienza di fede in grado di resistere a tutto. Ma la libertà è Dio stesso, quindi la libertà dell’uomo per essere vera e sana è dipendenza da Dio. Nel clima di “religione  civile dell’autodeterminazione” da cui siamo circondati, bisogna annunciare la libertà come responsabilità e limite. Accade anche oggi che il potere laico e talvolta anche ecclesiastico, non tolleri la religiosità vera, la vera  devozione secondo san Francesco di Sales, perché la vede come un limite al suo possesso. La fede resta il gesto di  libertà fondamentale e la preghiera  è  l’educazione  costante  alla  libertà.  Ecco  l’importanza  del  tabernacolo, perché l’uomo impari ad aderire al Mistero da cui dipende.  Così il Mistero diventa sperimentabile e noi lo visitiamo, perché con Gesù il Mistero è diventato “presenza affettivamente  attraente” 7 .Il  Mistero  presente  si  scopre  in  un  incontro,  come  la persona amata. Egli è il Verbo Incarnato e il cardine della nostra salvezza(Caro salutis  cardo) 8.Il fatto che permane è il segno della Sua verità: senza il continuo riaccadere  dell’Avvenimento  cristiano  non  c’è  possibilità  di  una  libertà  e  di  una comunione reale.

4. I teoremi erronei

Se questa è la cosa più importante, è incredibile assistere all’indignazione di taluni liturgisti  per  il  “parallelismo   rituale”,  instaurato  dal  Motu  Proprio  Summorum Pontificum e regolato dall’Istruzione Universae Ecclesiae, tra le due forme dell’unico rito romano, perché pericoloso per la comunione ecclesiale. Loro così ecumenici, non sanno che il  rito bizantino nella chiesa ortodossa ha ben tre forme? Così altri riti orientali?A Toledo non si celebra, e non da  ora,  la forma ordinaria latina e quella extraordinaria  del  rito  mozarabico?  Alcuni  ordini  religiosi  non  avevano  le  loro specificità rituali, come i bizantini slavi hanno le proprie rispetto ai greci? E poi, non si  sostiene  a  ogni  pie’  sospinto  nella  “chiesa  postconciliare”  che  la  varietà  o pluriformità non nuoce all’unità? Perché, dunque, temere  che i vescovi “perdano il controllo delle diocesi”? Se sono vescovi cattolici, basta che si mantengano uniti al Papa.  La liturgia è celebrazione di Cristo e della Chiesa, non di una assemblea particolare.  Nella  Chiesa  la  “discontinuità”  deriva  non  dalle  due  forme  del  rito romano, ma dalla creatività del tal prete o tal gruppo per cui si può assistere a liturgie frutto di tale impostazione.

Ma vanno in giro altre dottrine erronee:

a. il soggetto che celebra è l’assemblea.

In verità solo Cristo è il protagonista e il soggetto della Messa nella quale è presente; è lui ad associare a sé “il popolo di Dio gerarchicamente ordinato”, cioè la Chiesa cattolica, che vive anche nel raduno locale di due o tre persone che, dal termine latino celeber (che vuol dire ‘frequentato’)si chiama celebrazione; si usano anche i termini rito (dal greco αριθµός e dal sanscrito rtám ‘ordine’) per indicare l’azione sacra che si svolge secondo un ordine conforme a ciò che richiede la religione e cerimonia, che dal latino vuol dire ‘culto’. Nella Messa  il sacerdote agisce nella persona di Cristo capo del corpo che è la Chiesa. Il fatto che la Messa possa essere celebrata dal solo sacerdote corrisponde proprio a tale personificazione che culmina nell’offerta di sè: pochi o tanti che siamo, se non c’è l’offerta del mio corpo in sacrificio non v’è culto spirituale (cfr Rm 12,1). Sul Golgotha non erano rimasti solo Maria e Giovanni? E a Emmaus, non v’erano solo due discepoli? Si è arrivati a dire che la  Messa  senza popolo è un monstrum: ma, se ci trovassimo sotto persecuzione non dovrebbe il sacerdote celebrare da solo per non essere scoperto? E così i singoli fedeli? Sebbene la persecuzione sia lo stato ordinario della Chiesa, l’eccezione conferma la regola. Si è assolutizzata la Messa col popolo: ma, se popolo vuol dire una “massa di persone”, si salverebbero solo le messe domenicali, laddove fosse ancora alta la frequenza. Col presupposto del popolo, la  messa si dovrebbe celebrare raramente, visto che alle messe feriali vi sono poche persone. Non si salverebbero  nemmeno le comunità monastiche. Se la Chiesa è corpo mistico, vive anche in un solo fedele e in un solo sacerdote.  Non è che per contrastare l’individualismo nella liturgia, si finisce per dimenticare il primato della persona sulla comunità? Quindi la Messa col popolo, non la si deve ritenere superiore a quella dove il popolo non  c’è o vi fossero poche persone.  La  Costituzione  liturgica  stabilisce  che qualsiasi  messa  ha  una  natura pubblica e sociale.9 Paolo VI afferma che non si può “esaltare la messa cosiddetta «comunitaria» in modo da togliere importanza alla messa privata”.10 Infine, la verità e validità della celebrazione – termine che taluni vogliono applicare ai fedeli, secondo il pensiero  protestante per il quale la mediazione sacerdotale è esercitata anche dal popolo – non dipende dall’accostarsi di  tutti  alla Comunione: anche  oggi,  come  in  antico,la  Messa  vede  presenti  “scomunicati”,  penitenti  e catecumeni che non possono fare la Comunione.

Dunque, il soggetto celebrante non è l’assemblea, ma il Signore.

b. la Chiesa prende forma nel rito celebrato.

Si vuol sostenere che fuori della liturgia la Chiesa non abbia forma e quasi non esista. Invece la Chiesa è unita al mistero di Cristo sempre presente con noi fino alla fine del mondo. La Chiesa si edifica nella celebrazione  eucaristica,  nel senso che cresce continuamente; questa “però, non è il punto d’avvio della comunione, che presuppone come esistente, per consolidarla  e  portarla a perfezione”;11 perché “la liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa”.12

Dunque, la Chiesa non prende forma nel rito ma viene prima del medesimo.

c. la presenza di Cristo è mediata dall’assemblea riunita, dal sacerdote celebrante, dalla parola proclamata.

La presenza del Signore non è solo mediata, come spiega la Costituzione liturgica del Vaticano II: “Cristo è sempre  presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche”: quindi, precede i mezzi dai quali è mediata  seppure “in modo speciale”  e attraverso cui si rende visibile “soprattutto sotto le specie eucaristiche”13 del pane e  del vino; questa presenza è definita come reale da Paolo VI, che si richiama al concilio di Trento, “non per esclusione,quasi che le altre non siano “reali”, ma  per  antonomasia,perché  è  anche  corporale  e  sostanziale,  e  in  forza  di  essa Cristo,Uomo-Dio,tutto intero si fa presente”.14 Non è tale nemmeno la Parola divina proclamata nella  Chiesa.15 E ricorda pure che “Non è lecito…insistere sulla ragione del segno sacramentale,come se il simbolismo…esprimesse esaurientemente il modo della presenza di Cristo in questo sacramento”.16

Dunque, la presenza di Gesù Cristo precede e non è solo mediata dai segni visibili.

d. l’altare è la stessa cosa della mensa.

L’Institutio  Generalis  Missalis  Romani  prescrive:  “L’altare,  sul  quale  si  rende presente  nei  segni  sacramentali  il  sacrificio  della  Croce,  è  anche  la  mensa  del Signore…”.17 L’altare si chiama così perché, in continuità col culto giudaico, è alta res, ossia “luogo alto” per offrire (da offerre, levare in alto)il pane e il vino scelti e consacrati per rendere presente il  sacrificio del Calvario, ‘luogo alto’ ove Cristo è stato innalzato. Nella riforma liturgica ha molto nociuto aver  ignorato che il culto cristiano è in continuità col culto del Tempio; così c’è stata una corsa ad “adeguare” l’altare ad una tavola, staccandolo dalla parete e abbassandolo in piano. Ma, dopo il Motu Proprio Summorum Pontificum, non è più necessario “adeguare” altari e chiese: semmai dobbiamo “adeguare” noi stessi alla sacra liturgia. E poi, dobbiamo chiederci: il cosiddetto adeguamento liturgico ha avvicinato la gente alla fede?

Dunque, l’altare non è la stessa cosa della mensa, ma è “anche mensa”, cioè la include in se stesso.

e. le norme e rubriche sono state abolite.

Il fatto che esse siano più numerose e minuziose nei Messali precedenti, fino a quello del 1962, ha garantito la Messa cattolica, sia che la celebrasse un prete dotto, sia un curato di campagna. Esse sono come il riporto di un fiume,  che  certo va sempre ripulito per farlo scorrere; sono come gli argini che frenano gli abusi e reati,come da Paolo VI ad oggi i papi hanno richiamato. Si sostiene che il ritorno all’uso del rito dovrebbe prevalere sul timore dell’abuso: precisiamo: purché sia il ritus servandus, senza del quale non sussiste l’ordo celebrandi: è l’osservanza obbediente che porta ad evitare gli abusi della celebrazione. A questo servono i libri liturgici con le loro prescrizioni e norme, che traducono e garantiscono l’osservanza dello ius divinum e dello ius liturgicum.

Dunque, non è vero che norme e rubriche siano abolite, ma vanno osservate nei nuovi come negli antichi libri  liturgici, come segno di obbedienza a Dio che ha il diritto, solo lui, di stabilire come essere adorato dalla Chiesa.

f. la tradizione antica è stata conservata nel Novus Ordo.

Il Messale pubblicato nel 1965 proponeva l’antico rito romano ritoccato in alcune parti, senza ricorrere a cambiamenti non necessari per la Chiesa 18 e i padri del sinodo del 1966 lo approvarono in maggioranza. Ma qualcuno tirò fuori nel 1969 la messa “normativa” che venne così imposta a tutti. Che poi il Novus Ordo sia più antico del Messale  tridentino, è discutibile in quanto        mancano     elementi    antichi      come l’orientamento del sacerdote ad Dominum e  la lingua latina, che la  Costituzione liturgica non aveva aboliti. Pensino anche a tali fatti taluni vescovi quando affermano che la Messa in latino divide la Chiesa.

Dunque, in realtà nel Novus Ordo sono stati ripristinati alcuni elementi antichi e eliminati altri del Vetus Ordo, secondo criteri non sempre chiari.

g. la lingua latina non è più lingua d’uso e riduce i fedeli a muti spettatori.

Giovanni  XXIII,  la  riteneva  lingua  liturgica  oggettiva  e  universale, immutabile  e sacra. 19  Col  latino,  la  Chiesa  ha  simbolicamente  sconfitto  Babele  mediante  la Pentecoste  dell’unico  linguaggio  universale.  Infatti,  la  Costituzione  liturgica  del concilio Vaticano II incastonava l’uso della lingua parlata nella Messa, in proporzioni di un terzo (letture e preghiera dei fedeli) in rapporto alla latina (ordinario, orazioni, preghiera eucaristica, riti di comunione); tali proporzioni sono state squilibrate, sì che la lingua parlata o vernacola ha corroso i termini e i significati dei testi liturgici. Poi, sostenendo la tesi che le traduzioni della  liturgia sono inadeguate e che ogni cultura avrebbe dovuto comporre le sue preghiere,20 si è incentivato il  relativismo nelle traduzioni: è accaduto che tutto ciò che nei testi era rivolto essenzialmente verso Dio, lo si è piegato in direzione dell’amicizia comunitaria.

Dunque, il latino è stato lasciato in uso dal concilio Vaticano II nella liturgia e i fedeli possono parlarlo o ascoltarlo, senza per questo essere spettatori.

h. Esiste una tradizione rinnovata e una tradizione vecchia.

La tradizione si sviluppa organicamente come il corpo umano o il paesaggio, non destrutturandosi. La riforma  postconciliare si presenta come una storia di resistenza e indulti. Negli anni  ’50,  prima  del  concilio,  c’erano  liturgisti  che  parlavano  di  necessità  della “restaurazione”  liturgica;  poi  cambiarono  termine  e  usarono  “riforma”,  fino  ad opporsi al papa supremo legislatore: a Giovanni Paolo II, che nel 1988 tolse la proibizione al Messale del 1962 consentendo la celebrazione del Vetus Ordo, e ora a Benedetto XVI. L’indulto non vuol dire che un rito sia stato abolito e sostituito dal nuovo, ma che accanto al primo è permesso il secondo (v. la Comunione in mano o sulla lingua). Quindi, il Messale “tridentino” non era stato abrogato, né quel pontefice consentì a una finzione giuridica. Nemmeno si deve sostenere che il Messale di Giovanni XXIII del 1962 fosse “di passaggio”: nessun libro liturgico di per sé è definitivo  e  nemmeno   provvisorio,  a  meno  che  non  se  ne  dichiari  l’uso  ad experimentum. Pertanto, ciò che è proibito non necessariamente è abrogato: proibire vuol dire vietare l’uso, che poi  può tornare in vigore; mentre abrogare vuol dire annullare  del  tutto.  Ciò  è  inconsistente  sul  piano  giuridico?  Tanto  meno,  come chiariremo più avanti, la riforma liturgica ha voluto e dovuto superare quel rito che ora le viene riaffiancato.  Si dimentica che vi sono state  deformazioni della riforma “al  limite  del  sopportabile”?  Paolo      VI   nella   Costituzione  apostolica  Missale Romanum ha parlato di “renovatio”. Pertanto ci si chieda: si è voluta la revisione o la demolizione del Messale? Ora, l’Istruzione Universae Ecclesiae interviene a sanare ciò che ha portato alla rottura invece che alla continuità.

Dunque, non esiste nella Chiesa e nella liturgia una tradizione rinnovata e una vecchia: la vera tradizione,  innova in modo sano, cioè dall’interno, non cambiando continuamente: non sarebbe tradizione né riforma, ma rivoluzione.

i. prima del concilio la liturgia versava in grave crisi.

Se è  così,  non  vi  è  stata  continuità  della  riforma  liturgica  dal  1948  al  1988, contrariamente a quanto  sostiene Bugnini nel suo libro e come sta a dimostrare il fatto della repentina rimozione di lui da parte di Paolo VI. Invece, una riforma della liturgia non sostituisce la vecchia forma a causa di carenze, ma la rimette in forma – ri-forma  –dalle  deformazioni  subite  inevitabilmente. I  progressisti  hanno  voluto creare una liturgia “del concilio” attraverso una loro lettura dei “bisogni pastorali” dei contemporanei;  ciò  ha  portato  alla  liturgia  da  intrattenimento  o  happening;  i “regressisti” invece hanno reagito all’opposto, sviluppando un conservatorismo delle forme rituali.

Dunque, se si vuole sostenere che il vecchio rito era deformato,  si deve ammettere che ciò è avvenuto anche per il nuovo.

l. la riforma liturgica doveva generare nel corpo ecclesiale una forma diversa di partecipazione,corporea e simbolica,comunitaria e dialogica.

Ciò  contraddice  la  continuità.  Invece,  il  rito  romano  è  la  condensazione  della tradizione viva ed è linguaggio comune nella misura in cui le singole persone entrano in rapporto con la presenza divina; proprio questa esigenza induce non pochi fedeli a preferire  la  forma  extraordinaria  del  rito  romano.  In  genere,  oggi  si  intende  la partecipazione come comprensione dei  riti: questo è giusto; tuttavia la comprensione dei riti non coincide con quella del mistero nella liturgia, che non sarà mai piena: in questo ci aiuta sant’Agostino: “La comprensione è la ricompensa della fede. Non tentare  di  comprendere  per   arrivare  a  credere,  ma  abbi  fede  per  arrivare  a comprendere”.21

Dunque,   la   riforma   liturgica    non   doveva   generare   una   forma   diversa   di partecipazione, ma incentivare quella di sempre che consiste nell’aiutare l’uomo ad entrare nel Mistero.

m. la riforma liturgica era una scelta irrevocabile.

Credo che ci sia alla base un equivoco su cosa sia una riforma: si dimentica che essa deve cominciare da sé, dalla  propria conversione. Se la riforma rimane nell’ambito sociologico, genera da un lato rottura e dall’altro resistenza.

Se invece  andiamo  allo  scopo  della  liturgia,la  santificazione  dell’uomo  e  la glorificazione di Dio, allora si comprende che essa, come spesso ricorda Benedetto XVI, sia soggetto da vivere più che da riformare. La liturgia,  è  parlare di Dio e operare con lui: per questo san Benedetto ammoniva:Operi Dei nihil praeponatur! Paolo VI aveva la preoccupazione della continuità ecclesiologica nella liturgia, quindi dell’unità. Infatti il papa non è padrone della liturgia, ma solo custode,né può limitarsi ad appoggiare una riforma o contraddirla, in quanto è il supremo legislatore. Si deve convenire con quanto ha detto il cardinale Koch: “proprio i teologi che si erano impegnati nel  movimento liturgico o che avevano partecipato ai lavori del concilio sono presto divenuti seri critici degli sviluppi  liturgici postconciliari”22. Si pensi a Klaus Gamber, Andreas Jungman, Louis Bouyer e lo stesso Josef Ratzinger. Nel mio piccolo, posso confermare che è così. Dunque, solo la riforma in capite et in membris è una “scelta” irrevocabile della Chiesa, non una riforma liturgica.

5.  La continuità della sacra liturgia

La riforma deve servire a riaffermare i valori preesistenti all’oggi: la tradizione della Chiesa è anche una interpretazione teologica della storia, uno sviluppo organico, che implica il passato. La domanda da porsi, afferma il liturgista Enrico Mazza, è: con quale criterio si sia fatta la riforma liturgica postconciliare.23 E nel dibattito seguito alla tavola rotonda, ha riferito di averla posta a Neunheiser, uno degli esperti, che rispose: “ci sembrava che fosse giusto così”. Si deduce che la riforma non ha indicato quali fossero i criteri di scelta dell’antico da conservare o da tralasciare. Certamente la crisi ecclesiale manifestatasi nel post-concilio dipende dal crollo della liturgia: non lo pensano  solo ambienti del tutto minoritari o “lefebvriani”; se anche fosse così, ci si dovrebbe ricordare che la verità non risiede nella maggioranza. E’ ora di rispettare il confronto tra posizioni, maggioritarie o minoritarie che siano, mettendo  da  parte  le  letture e  i  conteggi. Non  serve  fare “dietrologia”  da parte progressista e regressista, come ai tempi di Paolo VI, circa la solitudine del papa a fronte dei collaboratori che sarebbero disorientati sulla liturgia; o circa le componenti della Curia Romana pro e contra la riforma liturgica. Questo nuoce alla valutazione obbiettiva della  riforma. Si accetti invece il dibattito ampio e rispettoso; vi sono vescovi e teologi che hanno le idee abbastanza chiare e vogliono stare col papa e non senza di lui, procedendo a piccoli passi. La dottrina cattolica insegna che lo Spirito non passa nella Chiesa solo durante un concilio, ma l’accompagna ordinariamente col magistero del papa e dei vescovi uniti con lui. Affermare dunque, che la Messa in latino divida la Chiesa significa innanzitutto andare contro l’impulso dello Spirito. Su qualche sito è riportato un intervento di Paolo VI al concistoro del 24 maggio 1976 che stigmatizzava quanti dividevano la Chiesa, perché rifiutavano l’ossequio alle norme liturgiche. Bisogna dirla tutta: egli, in nome della Tradizione, chiedeva di celebrare con dignità la liturgia rinnovata, ricordando che “l’adozione del nuovo Ordo Missae non è lasciata certo all’arbitrio dei sacerdoti o dei fedeli”, riferendosi a quanti volevano continuare nell’antica forma e ai quali l’aveva concesso, solo se sacerdoti anziani o infermi, ma sine populo. Il punto è che poi, proprio il Novus Ordo che egli aveva promulgato è stato oggetto di arbitri, abusi e reati;  quindi l’auspicio che il Novus Ordo  fosse  stato  promulgato  per  sostituirsi  all’antico,  –  in  nome  della Tradizione – non è stato centrato,  in  quanto è venuto meno il presupposto: il ritus servandus, l’osservanza, ossia il principio dello ius divinum da cui  deriva lo ius liturgicum. Sull’argomento Paolo VI è intervenuto altre volte. Così accade che molti cristiani che partecipano alla liturgia si trovano costretti non dalla legge della Chiesa universale, ma dalle pretese arbitrarie di una determinata diocesi, parrocchia o gruppo che vanno contro la liturgia “normativa”. Ora, come ha ricordato con  franchezza Benedetto XVI: “Riscoprire e apprezzare l’ubbidienza alle norme liturgiche da parte dei Vescovi, come  “moderatori della vita liturgica della Chiesa”, significa rendere testimonianza della Chiesa stessa, una ed universale, che presiede nella carità.” .24 Pertanto il Papa, prendendo atto della situazione, ha ripristinato il Messale del 1962. Si sa, che ogni pontefice perfeziona o rivede la legislazione precedente. Perché dunque rimanere un papa indietro? Se Paolo VI “rivede” Pio V, non può Benedetto XVI “rivedere” Paolo VI? Sono prevalentemente giovani  i  promotori della forma extraordinaria, non anziani nostalgici. Non ha scritto san Benedetto nella Regola che lo Spirito può parlare attraverso il più giovane? La Chiesa è giovane e viva.

6. I sentimenti del timore di Dio e del sacro 

Si deve constatare che oggi nella liturgia nuova è venuta meno la riverenza e il sacro,in una parola l’adorazione, perché non si è più consapevoli di stare alla presenza divina. Non si glorifica primariamente Dio, di conseguenza l’uomo non è santificato e il mondo non è “consacrato”. Basilio ricorda: “Tutto ciò che ha un carattere sacro è da lui che lo deriva”25. Ecco che la riforma deve cominciare dalla rinascita del sacro nei cuori e parallelamente del timore di Dio: quel senso di grande rispetto alla Sua infinita maestà che pervade la Sacra Scrittura: da  Abramo che consapevole della Sua onnipotenza e onnipresenza si prostrava col viso a terra (Gen 17,3-17), a Mosè dinanzi al roveto ardente (Es 3,6) ed Elia (cfr 1 Re 19,13): si coprirono il volto quando percepirono la presenza del Signore, pervasi di sacro timore, perché “Il timore di Dio è una scuola di sapienza”(Pr 15,33). Non si dica che questo sia venuto  meno nel Nuovo  Testamento:  da  Maria  che  esulta:  “di  generazione  in  generazione  la  sua misericordia stende su quelli che lo temono”(Lc 1,49), riconoscendo la grandezza di Colui che per amore si è piegato sulla creatura; a  Pietro, Giacomo e Giovanni che nella  Trasfigurazione  “caddero  con  la  faccia  a  terra  e  furono  presi  da  grande timore”(Mt  17,6);  e  Pietro  che  cadde  in  ginocchio  ai  piedi  di  Gesù  al  lago  di Tiberiade,  chiedendogli  di   allontanarsi  da  sé  peccatore(cfr  Lc  5,8);    non   era schiacciato ma partecipe della bellezza e potenza divina. Dinanzi all’immensità di Dio, la gioia di averlo vicino deve tradursi nella massima riverenza; Egli è l’onnipotente Figlio di Dio che si è fatto vicino a noi. Perciò, sono incomprensibili le proteste di chi afferma che dinanzi a Cristo risorto bisogno stare in piedi,non più in ginocchio! Dice il Catechismo: “Il senso del sacro fa parte della virtù della religione”- quindi riporta un pensiero del beato J.H.Newman: «Il  sentimento  di  timore  e  il  sentimento  del  sacro  sono  sentimenti  cristiani  o no?[…]Nessuno può ragionevolmente dubitarne. Sono i sentimenti che palpiterebbero in noi,con una forte intensità,se  avessimo la visione della Maestà di Dio. Sono i sentimenti che proveremmo se ci rendessimo conto della sua presenza. Nella misura in  cui  crediamo  che  Dio  è  presente,dobbiamo  avvertirli.  Se  non  li  avvertiamo,è perché non percepiamo, non crediamo che egli è presente”.26 Di tali sentimenti e dei conseguenti atteggiamenti ha urgente bisogno la liturgia romana per parlare di Dio all’uomo contemporaneo.

7. Conclusione

Cosa fare in concreto? Sono ancora valide le indicazioni che l’allora cardinal Joseph Ratzinger  ha  tracciato:  1.  promuovere  la  corretta  celebrazione  del  Novus  Ordo, secondo le prescrizioni dei libri liturgici, ragion per cui Giovanni Paolo II promulgò l’enciclica  Ecclesia  de  Eucharistia  e  l’Istruzione  Redemptionis  Sacramentum.  2. promuovere  la  corretta  celebrazione  secondo  il  Vetus  Ordo,  come  ora  prescrive l’Istruzione Universae Ecclesiae.  3. compiere la revisione dei nuovi libri liturgici facendo in modo da  reintrodurre alcuni dei tesori che furono a suo tempo scartati. La Congregazione  per  il  Culto  Divino  e  la  Disciplina  dei  Sacramenti,  insieme  alla Pontificia Commissione Ecclesia Dei sono gli strumenti ordinari per promuoverle. Non si attribuisce  allo  Spirito  Santo  sia  la  varietà  dei  carismi  sia  la  loro unità?

Dunque, ebbe  ad  osservare  l’allora  cardinale:  “noi  possiamo  persuadere  i vescovi che la presenza dell’antica liturgia non turba l’armonia dell’unità delle lorodiocesi, ma è piuttosto un dono destinato a edificare il corpo di Cristo di cui noi siamo i ministri”.27

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1 Crescere in saggezza, Gribaudi, Milano 2001, p. 157.
2 Sermoni,348,2;PL 38,1,1527.
3 “Cristiani non per vanto ma per aprire il mondo a Dio”: Omelia della Messa Crismale, L’Osservatore Romano, 22 Aprile 2011, p. 8.
4 Cfr. L. GIUSSANI, Avvenimento di libertà, Marietti, Genova 2002, p. 149.
5 Cfr. Idem, L’io rinasce da un incontro(1986-1987), BUR, Milano 2010, p. 364.
6 Ibidem, p. 247.
7 Idem, L’autocoscienza del cosmo, Bur, Milano 2000, p. 247.
8 TERTULLIANO, De resurrectione carnis, VIII, 10; PL 2,806.
9 Sacrosanctum concilium, n 27.
10 PAOLO VI, Enciclica Mysterium fidei, Città del Vaticano 1965, Enchiridion delle Encicliche 7,876-877.
11  GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Ecclesia de Eucharistia, Città del Vaticano 2003, n. 35.
12 Sacrosanctum concilium, n. 9.
13 Ivi, n. 7.
14 PAOLO VI, Enciclica Mysterium fidei, Enchiridion delle Encicliche 7,883.
15 Cfr asterisco in nota al § 21 della Costituzione Dei Verbum.
16 PAOLO VI, Enciclica Mysterium fidei, Enchiridion delle Encicliche 7,855.
17 Ed. typica 2000; ed. it. 2004: n. 296.
18 Sacrosanctum concilium, n 4.
19 Cfr  Costituzione Apostolica Veterum Sapientia, 22.II.1962, Premessa.
20 Cfr A. BUGNINI, La riforma della liturgia, 1948-1975, Roma 1980, p. 238.
21 De Magistro, 11,37; PL 32,1216.
22 Relazione al III Convegno sul Motu Proprio Summorum Pontificum, Roma, 13-15 Maggio 2011:“Dalla Liturgia antica un ponte ecumenico”, L’Osservatore Romano, 15 maggio 2011, p. 7.
23 Cfr. Riflessioni sulle riforme liturgiche nella Chiesa, in N. BUX-E. MAZZA-E. GARZILLO, Liturgia e arte sacra fra innovazione e tradizione, Reggio Emilia 2011.
24 Discorso in occasione dell’incontro e celebrazione dei vespri con i vescovi del Brasile,  Catedral da Sé, Sao Paulo, L’Osservatore Romano, 12 maggio 2007, p. 8.
25 De Spiritu Sancto, c 9, 22; PG 32,107.
26 Catechismo della Chiesa Cattolica, n 2144.
27 J. RATZINGER, Allocuzione nel decennale dell’Ecclesia Dei, 24 ottobre 1998.

L’abito sacerdotale: sua finalità e sua importanza

“Chi non ama la sua talare resisterà ad amare il suo servizio a Dio? Il prossimo non sostituisce Dio! Non è soldato chi non ama la sua divisa.” (Card. Giuseppe Siri)

di Daniele Di Sorco

 

1. Il monaco senza abito.

Si dice che l’abito non fa il monaco, il che è vero, nel senso che non basta mettersi qualcosa addosso per cambiare vita o distinguersi esteriormente dal mondo per operare la propria conversione interiore. D’altra parte, è vero anche il contrario: abbandonare l’abito religioso o deformarlo a mero “segno di riconoscimento” (come il tesserino appuntato sul petto dagli addetti di qualche azienda) può significare due sole cose, entrambe negative: o la vergogna per un modo di essere che si cerca di nascondere ogni qual volta faccia comodo; o l’idea secondo cui tra i consacrati e i laici non vi sia alcuna differenza se non sul piano puramente accidentale. In ultima analisi, è un della fede, occultata o deformata, che provoca l’abbandono, se non addirittura il disprezzo, della veste sacra.

Non è mia intenzione, qui, analizzare minutamente le molteplici ragioni che giustificano l’uso, da parte dei consacrati, di un abito diverso dalle altre persone. Tuttavia, poiché oggi anche il semplice buon senso sembra vacillare, bisognerà per lo meno spendere una parola contro le obiezioni più frequenti.

2. Chiarezza, non finzione.

La prima è quella secondo cui il consacrato, vestendosi come chiunque, sarebbe più vicino alla gente, più capace di mettersi in relazione con loro. Ora, la chiarezza dei ruoli sta alla base del funzionamento di un rapporto. Nessuno, credo, per corteggiare una ragazza si vestirebbe da donna; e sarebbe ridicolo che il capo di un’azienda, per avere migliori relazioni coi propri operai, andasse a visitarli in tuta da lavoro. Anzi, nell’uno e nell’altro caso l’interlocutore si sentirebbe preso in giro dal tentativo di impostare il rapporto su un mezzo inganno. E reagirebbe o allontanando il dissimulatore oppure trattandolo con sufficienza, perché chi si vergogna di un modo di essere perfettamente legittimo non ha alcun diritto ad essere preso sul serio. Con questo cade la prima obiezione all’abito religioso: chi non lo porta per avvicinarsi alla gente, si rende, sia pure involontariamente, artefice di un inganno. Il consacrato deve avvicinare la gente come consacrato, non come finto laico.

3. Il falso spiritualismo si traduce in vero materialismo.

L’altra frequente obiezione viene formulata più o meno in questo modo: uno stato interiore e spirituale non ha bisogno di essere manifestato con segni esteriori e materiali. Distinguo: uno stato interiore e spirituale privato, che non ha riflessi visibili sulla propria condizione pubblica, non ha effettivamente bisogno di essere denotato esteriormente. Non si chiederà ad un laico che si è confessato e ha fatto la Comunione di appendersi una nastrino al collo per far sapere a tutti la grazia che ha ricevuto. Anzi, vantarsi dei propri meriti, ancorché spirituali, significa alienarsi, come dice il Vangelo, la ricompensa che essi avrebbero meritato nell’altra vita. Invece uno stato interiore e spirituale pubblico, che cioè muta la condizione pubblica di una persona, modificandone il suo status, non solo può, ma deve essere manifestato con segni visibili. Ora, il conferimento dei sacri ordini è pubblico, come pubblico è l’ingresso in un istituto religioso mediante la solenne professione dei voti. È necessario, quindi, che il consacrato porti esteriormente un segno di questa sua condizione, che lo distingue dagli altri fedeli e che, essendo pubblica, dev’essere pubblicamente manifestata.

Certo, la sana filosofia ci insegna a subordinare il materiale allo spirituale. Sappiamo perfettamente che il segno esteriore ha senso nella misura in cui riflette uno stato interiore. Attribuire soverchia importanza al segno, a scapito della realtà che esso significa, vuol dire confondere il mezzo col fine, l’accidentale con l’essenziale. Ma nell’uomo, fatto di anima e di corpo, anche la parte materiale ha la sua importanza. È l’istituzione stessa dei Sacramenti a dimostrarcelo. Per veicolarci le sue grazie ex opere operato, nostro Signore avrebbe potuto scegliere qualunque mezzo, anche puramente spirituale. Invece ha deciso di legarle ad un segno tangibile, un segno che, pur essendo in se stesso materiale, produce infallibilmente una grazia spirituale. Perché questa scelta? Per la consapevolezza che l’uomo, non essendo un puro spirito (come gli Angeli), ha bisogno di segni sensibili per accedere più facilmente alle realtà insensibili (cioè non percepibili attraverso i sensi). Ho parlato dell’istituzione dei Sacramenti. Ma avrei potuto menzionare anche l’Incarnazione. Dio poteva redimerci in diversi modi. Se ha scelto di farlo assumendo l’umana natura, è per lo scopo delineato dal prefazio di Natale: “affinché, conoscendo Dio visibilmente, siamo rapiti alla contemplazione delle realtà invisibili”.

Bisogna quindi tenersi egualmente lontani da due opposti eccessi: da un lato, quello del materialismo, che ordina l’inferiore (le realtà corporee) al superiore (le realtà spirituali), comportando il dileguo di queste ultime; e dall’altro quello, non meno deleterio, dello spiritualismo, che, pur riconoscendo la ragionevole supremazia delle realtà spirituali, finisce per misconoscere l’importanza di quelle materiali.

L’uomo, diceva Pascal, è un po’ angelo e un po’ bestia. Quando cerca di diventare solo angelo, finisce per diventare solo bestia. Il protestantesimo ha voluto trasformare la religione del Verbo incarnato in qualcosa di puramente spirituale, senza sacramenti, senza sacrificio, senza sacerdozio, in una parola senza segni visibili che producano la grazia invisibile. Dopo non molto tempo, questo innaturale spiritualismo si è trasformato nel suo contrario, cioè nell’esaltazione della materia a scapito dello spirito. E non può essere altrimenti. Sganciato da uno dei propri elementi costitutivi – il corpo – l’uomo tenta di librarsi nei puri cieli dello spirito; ma, come dice il Poeta, “sua disianza vuol volar sanz’ali”, poiché l’uomo non è un angelo, anche se si sforza di diventarlo. Non nel senso che non possa raggiungere la purezza di un angelo o la santità di un angelo, ma nel senso che non può comportarsi come se non avesse anche una parte materiale, la quale, se non viene usata come mezzo di santificazione, finisce per assumere una propria autonomia, trasformandosi in mezzo di dannazione. Mi spiego con un esempio. Tutti abbiamo bisogno di mangiare: possiamo seguire ciecamente questo istinto, e ammalarci di indigestione; possiamo fingere che non esista, e morire di fame; oppure possiamo mangiare per saziarci, ossia ordinando la realtà corporale (l’istinto) alla realtà spirituale (la ragione). Ora, poiché gli aspiranti suicidi, grazie a Dio, sono pochissimi, le persone che negano al cibo qualunque utilità, piuttosto che morire di fame, finiranno per passare al versante diametralmente opposto, cioè a sostenere la necessità di assecondare irrazionalmente le proprie passioni. È il finto angelo che diventa vera bestia.

4. Tentazioni gnostiche.

L’utilizzo di un segno esteriore che denoti una condizione interiore è dunque connaturale all’essenza dell’uomo, il quale, come abbiamo visto, deve servirsi ragionevolmente delle realtà materiali in modo da ordinarle a quelle spirituali. Di qui la somma importanza dell’abito sacro. Esso, infatti, non si limita ad indicare una condizione qualsiasi, tra le tante che l’uomo può pubblicamente assumere, ma è il segno di uno stato di vita diverso e distinto da quello delle altre persone. In quanto stato, tale condizione non viene mai abbandonata, neppure temporaneamente. Il consacrato non è tale solo quanto è in servizio: per questo i sacerdoti o i religiosi che usano la veste sacra solo durante le funzioni sono da biasimare non meno di quelli che non la usano mai. Anzi, forse sono da biasimare di più, perché, oltre a fraintendere il significato del segno, lo sviliscono a puro elemento di esibizione, come se il sacerdote non avesse alcun bisogno dell’abito e lo indossasse solamente per non deludere gli innocenti e puerili desideri del popolo. Chi si comporta così, riconosce il principio, sopra esposto, secondo cui le cose sensibili vanno utilizzate per favorire la contemplazione delle cose soprasensibili; ma ne limita l’applicazione ad alcune categorie di persone: il popolo, semplice e istintivo, ha bisogno di questi segni; i sacerdoti, i dotti, le persone colte, no. Non è difficile riconoscere in questo una forma velata di gnosi: l’accesso ad una forma di conoscenza riservata a pochi crea l’illusione di trascendere la natura umana, di non aver bisogno di ciò di cui tutti hanno bisogno. Inutile far rilevare come, alla resa dei conti, i consacrati che seguono questo tipo di ragionamento, quando non usano la veste, lo fanno per i discutibili motivi di cui abbiamo parlato all’inizio del presente articolo, se non addirittura per ragioni ancor meno onorevoli. È, ancora una volta, l’angelo (anche se stavolta restringe la possibilità di de-materializzarsi ad una ristretta cerchia di privilegiati) che si rivela bestia.

In realtà, il consacrato è il primo ad aver bisogno della veste sacra, è il primo ad aver bisogno di un segno esteriore che gli ricordi, anche quando sarebbe più propenso a dimenticarlo, il suo stato di vita. La natura umana, come ben sappiamo, non è distrutta dalla grazia; tanto meno è distrutta dalla conoscenza di certe nozioni o dall’assunzione di uno stato di vita (gnosi). Da questo punto di vista, il sacerdote è un uomo come tutti gli altri, bisognoso, anche lui, di ordinare il corpo mediante il ragionevole utilizzo delle realtà sensibili. Per questo le costituzioni degli Ordini religiosi, fino alla recenti riforme, ordinavano al consacrato di non deporre mai la sacra veste: perfino durante la notte, se non si usava l’abito intero (distinto, ovviamente, da quello impiegato durante il giorno), bisognava portare l’abitino, ossia un piccolo scapolare dello stesso tessuto e colore della veste sacra. Il terzo Concilio plenario di Baltimora stabiliva che i sacerdoti potevano indossare il clergyman solo all’esterno (come d’abitudine nei paesi anglosassoni), mentre in chiesa e in casa (cioè anche nel privato) doveva tassativamente portare la talare. In molti seminari, i candidati ai sacri ordini dormivano con l’abito talare piegato e deposto sul petto: non si trattava, come alcuni vorrebbero, di un semplice memento mori, ma della logica applicazione del principio secondo cui l’abito religioso serve anzitutto al sacerdote per riconoscere se stesso. Nei bui momenti di sconforto, di scoraggiamento, di tentazione, quando la volontà interiore è meno propensa a ricordarsi degli impegni assunti e delle scelte fatte, è spesso un segno esteriore che ci richiama alla realtà e ci salva. Riconoscere questo, non significa trasformare l’uomo in un eterno fanciullo, sempre bisognoso di qualcuno o qualcosa che lo controlli; significa piuttosto prendere atto della natura intima dell’uomo (in cui l’angelo, in alcuni momenti, rischia di essere soppiantato dalla bestia) e predisporre gli opportuni rimedi. Di qui la necessità di usare la veste sacra come memento al consacrato del suo modo di essere. In questo stessa senso va inquadrata la prassi di portare la tonsura o chierica nei capelli, la quale peraltro, a differenza della veste, non poteva essere neppure deposta. L’abito non fa il monaco, ma aiuta ad esserlo.

5. Dignità e bellezza.

C’è poi un’ultima questione da affrontare. Secondo alcuni, il sacerdote deve sì essere identificabile come tale, ma per ottenere questo scopo basta un “segno di riconoscimento” qualsiasi: una crocetta, un tau, un colletto, qualunque cosa possa alludere alla sua funzione. Osserviamo, anzitutto, che un segno, per essere riconoscibile, dev’essere univoco: quindi, parlare di un “segno di riconoscimento” senza stabilire esplicitamente quale, non ha alcun senso. Oggi siamo arrivati al paradosso di sacerdoti i quali pensano di essere riconosciuti per una sorta di telepatia interiore, come se il loro modo di essere ce l’avessero scritto in faccia. Né c’è da stupirsene, visto che alludere ad un “segno di riconoscimento” senza definirlo, significa lasciare aperto il campo alle più disparate interpretazioni, anche a quelle telepatico-sensitive. In secondo luogo, un segno, per essere efficace, deve avere una qualche relazione evidente ed immediata (analogia) con la realtà che vuole significare. Ora, è indubbio che la veste sacra, per il fatto di avvolgere interamente chi la porta, rimanda in modo assai efficace al fatto della totale consacrazione a Dio. Il consacrato, anche esteriormente, è rivestito di Cristo. La sua separazione dal mondo (che non significa estraneità, visto che, tolti i casi di vita assolutamente contemplativa, continua in vario modo ad operare nel mondo) è denotata dall’uso di vesti radicalmente diverse da quelle comuni. I colori sobri e le stoffe poco pregiate rimandano alla scelta dell’umiltà e, per chi ne ha fatto voto, della povertà. Secondo la stessa logica, i Prelati, in ragione del proprio ruolo, indossano vesti dai colori e dai tessuti più preziosi. E tutto questo, senza considerare le simbologie proprie degli abiti dei singoli istituti, ricchissime di significati teologici e spirituali. Come, celebrando la Messa, il sacerdote – anche esteriormente – si spoglia di se stesso e si riveste di Cristo, così nella sua vita quotidiana il consacrato, che ha rinunciato a se stesso abbracciando un determinato stato di vita, deve testimoniare – anche esteriormente – la sua intima identificazione col Salvatore.

Per questo la veste sacra non dev’essere priva di una sua dignità estetica. Trascurare questo aspetto in nome della comodità o del funzionalismo, significa eliminare od oscurare la corrispondenza analogica tra simbolo e significato. Non di rado, oggi, vediamo abiti religiosi striminziti e di tessuto sottilissimo, che lasciano trasparire le vesti borghesi sottostanti e che sembrano fatti apposta per essere frettolosamente indossati quando ci si reca ad una funzione o si esce di casa. Nulla a che vedere rispetto alle vesti ampie, nobili e dignitose, ancorché poverissime, che si usavano prima delle recenti riforme. Le modifiche più notevoli si sono avute negli abiti delle religiose: ai lungi veli, ai soggoli inamidati, alle ampie gonne che scendevano fino al ginocchio, alle cinture, agli scapolari (cose, talvolta, di forma originale o insolita, ma sempre degne di una sposa di Cristo e comunque munite di una loro storia e di un loro significato), si sono sostituiti dei ridicoli tailleur stile anni Cinquanta, con gonna al ginocchio e giacchetta stilizzata. D’estate non è raro vedere le mezze maniche. Il soggolo è completamente scomparso e il velo si è trasformato in un esile fazzoletto, che lascia intravedere più capelli di quanti ne compra. Non è difficile scorgere, in queste stilizzazioni, il passaggio dall’abito come segno “escatologico”, la cui forma suggerisce la realtà che è chiamata a significare, all’abito come segno “di riconoscimento”, dotato di una funzione puramente convenzionale. E tutto questo senza tener conto delle conseguenze psicologiche di simili scelte: infatti, stilizzare o trascurare il segno che denota il proprio modo di essere, viene comunemente interpretato come negligenza e disinteresse verso il modo di essere in quanto tale.

6. Considerazioni finali.

Concludo con un tentativo di sintesi. L’abito religioso è il segno esteriore di una realtà interiore. Esso non è coessenziale a questa realtà, nel senso che non è indispensabile affinché questa esista (l’abito non fa il monaco), ma ne è la legittima espressione, conformemente alla natura dell’uomo, che essendo composto di anima e di corpo ha bisogno di servirsi delle cose visibili per cogliere meglio quelle invisibili (l’abito aiuta ad essere monaco). Spogliarsi del segno esteriore non implica la cessazione della realtà interiore; ma è visto dagli altri o come un suo svilimento (vergogna per ciò che si è) o come un tentativo di inganno (fingersi ciò che non si è). Quindi non è in alcun modo funzionale alle relazioni col prossimo, che, al contrario, hanno come presupposto la chiarezza, anche esteriore, dei ruoli. Queste considerazioni, se valgono per il prossimo, valgono a maggior ragione per il consacrato stesso, il quale, per primo, ha bisogno di un segno che gli ricordi sempre, anche quando sarebbe più propenso a scordarlo, la propria condizione. In quanto simbolo (realtà materiale che allude ad una realtà spirituale), la veste sacra deve avere una corrispondenza analogica con ciò che significa: in altre parole, deve in qualche modo rimandare, nel colore e nella forma, alle caratteristiche dello stato di vita che è chiamata a rappresentare. I segni di riconoscimento convenzionali (crocette, colletti, tau), come pure gli abiti stilizzati e imbruttiti che hanno rimpiazzato le dignitose vesti tradizionali, non soddisfano questo requisito, quindi sono da scartare. Essi denotano, tutt’al più, una funzione (come quella di un impiegato che porti un cartellino di riconoscimento), ma non un modo di essere: non sono sufficienti a fare della veste religiosa quel “segno escatologico” di cui parlano gli autori di spiritualità. Anzi, a causa della loro bruttezza ed ordinarietà, finiscono per svilire, a livello psicologico, anche la realtà che significano.

L’esperienza dimostra quanto abbiamo tentato di spiegare a parole. Nel corso della storia, l’abbandono della veste sacra è sempre coinciso con periodi di forte decadenza spirituale. Ad avere in uggia la forma tradizionale dell’abito sacro erano, per esempio, i chierici frivoli e libertini del XVIII secolo. Quanto al clero moderno, l’ostentata noncuranza nei confronti dei segni esteriori fa riscontro ad una mondanizzazione e ad una crisi d’identità (disciplinare e dottrinale) senza precedenti.

Del resto, la decadenza della religiosità esteriore è, ad un tempo, causa ed effetto della decadenza della religiosità interiore, poiché la mente umana è fatta in modo tale da conoscere invisibilia per visibilia. Trascurando il segno visibile, si finisce a poco a poco per perdere il contatto con la realtà invisibile da esso rappresentata. Parallelamente, chi non è più in grado di cogliere adeguatamente le cose spirituali non avverte più il bisogno di esprimerle in forma materiale. Si tratta di un circolo vizioso (abyssus clamat abyssum), dal quale è possibile uscire solo col recupero dei sani concetti della filosofia e della teologia tradizionali e col ritorno alla secolare prassi della Chiesa cattolica.

tratto dal sito www.messainlatino.it

Secondo il Papa, la S. Comunione si deve ricevere sulla lingua e in ginocchio

UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE  DEL SOMMO PONTEFICE  

LA COMUNIONE RICEVUTA SULLA LINGUA E IN GINOCCHIO

La più antica prassi di distribuzione della Comunione è stata, con tutta probabilità, quella di dare la Comunione ai fedeli sul palmo della mano. La storia della liturgia evidenzia, tuttavia, anche il processo, iniziato abbastanza presto, di trasformazione di tale prassi. Sin dall’epoca dei Padri, nasce e si consolida una tendenza a restringere sempre più la distribuzione della Comunione sulla mano e a favorire quella sulla lingua. Il motivo di questa preferenza è duplice: da una parte, evitare al massimo la dispersione dei frammenti eucaristici; dall’altra, favorire la crescita della devozione dei fedeli verso la presenza reale di Cristo nel sacramento.

All’uso di ricevere la Comunione solo sulla lingua fa riferimento anche san Tommaso d’Aquino, il quale afferma che la distribuzione del Corpo del Signore appartiene al solo sacerdote ordinato. Ciò per diversi motivi, tra i quali l’Angelico cita anche il rispetto verso il sacramento, che «non viene toccato da nessuna cosa che non sia consacrata: e quindi sono consacrati il corporale, il calice e così pure le mani del sacerdote, per poter toccare questo sacramento. A nessun altro quindi è permesso toccarlo fuori di caso di necessità: se per esempio stesse per cadere per terra, o in altre contingenze simili» (Summa Theologiae, III, 82, 3).

Lungo i secoli, la Chiesa ha sempre cercato di caratterizzare il momento della Comunione con sacralità e somma dignità, sforzandosi costantemente di sviluppare nel modo migliore gesti esterni che favorissero la comprensione del grande mistero sacramentale. Nel suo premuroso amore pastorale, la Chiesa contribuisce a che i fedeli possano ricevere l’Eucaristia con le dovute disposizioni, tra le quali figura il comprendere e considerare interiormente la presenza reale di Colui che si va a ricevere (cf. Catechismo di san Pio X, nn. 628 e 636). Tra i segni di devozione propri ai comunicandi, la Chiesa d’Occidente ha stabilito anche lo stare in ginocchio. Una celebre espressione di sant’Agostino, ripresa al n. 66 della Sacramentum Caritatis di Benedetto XVI, insegna: «Nessuno mangi quella carne [il Corpo eucaristico], se prima non l’ha adorata. Peccheremmo se non l’adorassimo» (Enarrationes in Psalmos, 98,9). Stare in ginocchio indica e favorisce questa necessaria adorazione previa alla ricezione di Cristo eucaristico.

In questa prospettiva, l’allora cardinale Ratzinger aveva assicurato che «la Comunione raggiunge la sua profondità solo quando è sostenuta e compresa dall’adorazione» (Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello Balsamo, San Paolo 2001, p. 86). Per questo, egli riteneva che «la pratica di inginocchiarsi per la santa Comunione ha a suo favore secoli di tradizione ed è un segno di adorazione particolarmente espressivo, del tutto appropriato alla luce della vera, reale e sostanziale presenza di Nostro Signore Gesù Cristo sotto le specie consacrate» (cit. nella Lettera This Congregation della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, del 1° luglio 2002: EV 21, n. 666).

Giovanni Paolo II nella sua ultima enciclica, Ecclesia de Eucharistia, ha scritto al n. 61:

«Dando all’Eucaristia tutto il rilievo che essa merita, e badando con ogni premura a non attenuarne alcuna dimensione o esigenza, ci dimostriamo veramente consapevoli della grandezza di questo dono. Ci invita a questo una tradizione ininterrotta, che fin dai primi secoli ha visto la comunità cristiana vigile nella custodia di questo “tesoro”. […] Non c’è pericolo di esagerare nella cura di questo Mistero, perché “in questo Sacramento si riassume tutto il mistero della nostra salvezza”».

In continuità con l’insegnamento del suo Predecessore, a partire dalla solennità del Corpus Domini del 2008, il Santo Padre Benedetto XVI ha iniziato a distribuire ai fedeli il Corpo del Signore, direttamente sulla lingua e stando inginocchiati.

Il velo muliebre

Perché S. Paolo consiglia alle donne di tenere il capo coperto durante le azioni liturgiche?


Il Codice di Diritto Canonico del 1917 prescriveva alle donne di tenere il capo coperto in Chiesa, soprattutto al momento della Santa Comunione. Nel nuovo Codice non c’è traccia di questa disposizione e ormai questa antica e venerabile usanza è caduta nel dimenticatoio; eppure essa era fondata su una disposizione dello stesso Apostolo San Paolo. Ma, tra l’esegesi razionalista moderna, che tende a storicizzare tutte le disposizioni particolari (“roba d’altri tempi…”), e il famigerato luogo comune per cui “l’uomo di oggi” non sarebbe più in grado ci capire certe cose, anche la consuetudine, per le donne, di coprire il capo in chiesa, è andata perduta.

Per non parlare poi di molte suore, che, un tempo ben vestite (chi non ricorda i cappelloni delle Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli?), oggi espongono il ciuffo, per andar di pari passo con chi ha gettato tonaca e coletto bianco alle ortiche (e qui, visti i magrissimi risultati estetici, avendo tolto il velo, c’è assai spesso da stenderne subito un altro, questa volta pietoso, come si suol dire). Ma guai se ci limitassimo a rimpiangere i tesori che ci hanno scippato: dobbiamo cercare, con l’aiuto della Madonna, anche per questo caso, le ragioni della Tradizione: e allora leggiamo le parole dell’Apostolo, e vediamo come alcuni Padri della Chiesa le hanno interpretate. Dalla prima lettera di S. Paolo Apostolo ai Corinzi: [11,3] “Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. Ma ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di riguardo al proprio capo, poiché è lo stesso che se fosse rasata. Se dunque una donna non vuol mettersi il velo, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra. L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli. Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l’uomo, né l’uomo è senza la donna; come infatti la donna deriva dall’uomo, così l’uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio. Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna faccia preghiera a Dio col capo scoperto? Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli, mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chioma le è stata data a guisa di velo. Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine e neanche le Chiese di Dio”.

Da questo brano, noi possiamo ben comprendere i motivi per cui S. Paolo consiglia alle donne di tenere il capo coperto durante le azioni liturgiche. I motivi sono, essenzialmente, quattro:

1) La simbologia delle nozze tra Cristo e la natura umana. In chiesa, durante la liturgia, l’uomo e la donna non rappresentano solo se stessi, ma l’uomo – ogni uomo – rappresenta Cristo, lo Sposo: la donna rappresenta il genere umano, la natura umana sposa del Verbo. Possiamo comprendere ciò considerando la natura sponsale della fede (Ti sposerò nella fede e tu conoscerai il Signore – Os 2,22), il contesto generale della liturgia (l’atmosfera in cui la fede è esercitata nel modo più perfetto) e l’esplicito richiamo alle nozze di S. Paolo: E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo – 1 Cor 11, 8-9. Cristo sta all’uomo (maschio e femmina) come l’uomo sta alla donna. Inoltre l’uomo, diversamente dalla donna, è “immagine e gloria di Dio”, non per se stesso, ma in quanto rappresenta Cristo: perciò egli non può stare con il capo coperto, perché in questo modo egli “disonora il suo capo” (11,4) il suo proprio rappresentare Cristo: un uomo con il capo coperto non rappresenta bene Cristo, così una donna con il capo scoperto, non rappresenta bene la natura umana ela Chiesasposa di Cristo. In questo senso Tertulliano dice: “Poiché io sono l’immagine del creatore, non c’è posto in me per un altro capo (che non sia Cristo)” (Contro Marcione, V, 8, 1).

2) Un segno della sottomissione a Cristo. Una donna con il capo coperto dal velo, ricorda a tutti coloro che sono in chiesa che la natura umana è sposa di Cristo: perciò la donna, in quanto rappresenta la natura umana, deve avere un segno della sua dipendenza sul suo capo (1 Cor 11,10): questo segno della dipendenza è il segno dell’autorità di Cristo nei confronti della sua Sposa, la natura umana. Perciò il Concilio Gangrense chiama il velo memoriale, ricordo della sottomissione. S. Giovanni Crisostomo lo chiama insegna della sottomissione; Tertulliano giogo della sua umiltà (cf. Cornelius a Lapide, ad loc.).

3) Il rispetto del perfetto equilibrio del cosmo. L’edificio della chiesa rappresenta il cosmo, ricolmato della gloria di Dio, specialmente durante la celebrazione della S. Messa (I cieli e la terra sono pieni della tua gloria…). Il cosmo è perfettamente ordinato (Ma tu hai tutto disposto con misura, calcolo e peso – Sap 11,20). Nessuno può dimenticare la presenza, all’interno della chiesa-cosmo, della gerarchia celeste, perfettamente ordinata (Voi vi siete invece accostati al monte di Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli, all’adunanza festosa… – Eb 12,22). Non è quindi conveniente che in un cosmo perfettamente ordinato qual è la celebrazione liturgica, la ordinata relazione tra Cristo-Sposo e Chiesa-Sposa – la particolare relazione che la celebrazione liturgica ricrea nel modo più perfetto -, non sia mostrata (Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli – 1 Cor 11,10)

4) Un segno naturale di umiltà. Ultimo aspetto, ma non di minore importanza: “Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli, mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chioma le è stata data a guisa di velo” (1 Cor 11, 14-15). È obbligatorio, per le donne, portare il velo in Chiesa? Oggi non più, ma S. Paolo ce ne spiega i sempre validi motivi di convenienza.

Don Alfredo Morselli, 16 giugno 2009

La balaustra, argine del sacro

Da Il Timone n. 113 maggio 2012
Alcuni manufatti, chiamati comunemente balaustre per molti secoli hanno costituito una presenza regolare all’interno delle chiese. Nonostante l’apparente banalità di questi oggetti, sarebbero necessari fiumi d’inchiostro per descrivere tutte le funzioni e tutti i significati che essi hanno rivestito.

di Andrea Di Meo


Varcare un confine a piedi, scavalcare il crinale di un monte, addentrarsi in una caverna, sono piccole esperienze accomunate, come molte altre, da una sensazione particolarissima. A chi le ha vissute non sarà sfuggita l’impressione di oltrepassare una linea oltre la quale vigono altre regole, oltre la quale il comportamento deve mutare perché al di là di quel punto lo spazio è diverso, non è più lo stesso di prima. Gli esempi che ho citato, a solo scopo narrativo, hanno tutti la caratteristica di essere accompagnati da segnali visibili, che quasi suggeriscono con la loro stessa presenza l’incipiente mutamento di stato. In alcuni casi, come l’ingresso in una grotta, tale segnale è offerto dalla natura, in altri, come il passaggio del confine, il segnale è posto dagli uomini.
Esiste un parallelo a queste sensazioni anche nell’esperienza dello spazio sacro? Questo è sacro per effetto di un rituale che vi si celebra e di una formula di dedicazione che lo dedica solennemente alla divinità, ma è vero tuttavia che tale dedicazione, pur comportando un mutamento di stato e quasi di natura del luogo stesso, non ne condiziona però le leggi fisiche né le apparenze, e potrebbe quindi passare inosservato. Ecco dunque che si rende necessario apporre degli avvertimenti, dei nuovi segnali volti a rendere visibile ciò che altrimenti potrebbe non essere percepito. Fu così che nacquero già in tempi ancestrali e presso i culti più antichi i primi recinti per separare i luoghi più sacri dallo spazio circostante, e molto tempo dopo, ma in modo simile, furono create anche le prime recinzioni nei luoghi cristiani per separare il santuario o presbiterio dal resto della chiesa, come si può verificare dalle tracce archeologiche delle più antiche domus ecclesiae.
Nel percorso di attraversamento dello spazio sacro cristiano che in questa rubrica si sta compiendo, sarà infatti inevitabile inciampare, per così dire, in alcuni manufatti, chiamati comunemente balaustre, che per molti secoli hanno costituito una presenza regolare all’interno delle chiese. Nonostante l’apparente banalità di questi oggetti, sarebbero necessari fiumi d’inchiostro per descrivere tutte le funzioni e tutti i significati che essi hanno rivestito, e tutta la storia che li ha modellati fino ad arrivare alla semplicità delle ultime balaustre, mandate in soffitta, se non proprio distrutte, da tanti parroci nei passati cinquant’anni. Le balaustre, infatti, non furono che l’ultima mutazione di quegli elementi separatori che assunsero di volta in volta la forma della transenna lapidea, della tenda, del cancello e dell’iconostasi, e che replicavano quanto già la facciata della chiesa, o il suo portale, esprimevano fin dal primo approccio all’edificio sacro.
Il loro messaggio era un avvertimento, un caveat, posto a segnalare che oltre la linea sulla quale essi si ergevano si entrava in un’area dove l’azione e il pensiero individuale avrebbero dovuto abbandonare le consuetudini mondane e, lasciando alle spalle i diritti del mondo, piegarsi al diritto di Dio e conformarsi ad attitudini più sante. Al contrario infatti di come molti hanno erroneamente pensato, il compito primario delle balaustre e degli elementi ad esse affini non era di tipo funzionale, ma simbolico. Non era dunque di chiudere l’ingresso al presbiterio, ma di manifestare all’esterno di esso cosa il presbiterio dovrebbe realmente significare. Le balaustre dunque, più che elementi di divisione, vanno piuttosto percepite come tramiti di comunicazione. Se esse infatti non fossero esistite, quale spazio avremmo garantito al sacro?
Le balaustre, non diversamente dall’abito talare, custodivano uno spazio esigente, una riserva di santità e ne manifestavano l’esistenza al di fuori rendendola visibile. Quegli umili elementi, che diventavano l’appoggio dei comunicandi e che reggevano gli sguardi inginocchiati dei fedeli verso l’altare, sostenevano inoltre il peso immane di rendere il sacro percepibile e quasi tangibile. Quando, dopo gli anni Sessanta, tanti chierici e religiosi vollero disfarsi del concetto del sacro rivoluzionandolo, si accanirono proprio contro quei recinti che, delimitandolo, lo rendevano riconoscibile. Ma quest’opera di distruzione fu solo apparente: si possono cancellare le tracce del sacro ma esso sussisterà non visto, e presto o tardi tornerà a manifestarsi. Il ristabilimento delle balaustre nel restauro della Cappella Paolina al Vaticano voluto da Papa Benedetto XVI ben manifesta che questi elementi non hanno esaurito la loro funzione e che anzi mai più di oggi si sente nuovamente l’urgenza di restituirli al loro gravoso compito.

La riforma liturgica del Concilio Vaticano II nell’insegnamento di Benedetto XVI

di don Nicola Bux

(Relazione al Convegno sul Summorum Pontificum – Madrid, 24 aprile 2010)

1. “Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine(cfr Gv 13,1) in Gesù Cristo crocifisso e risorto”[1]. Se Dio sparisce dall’orizzonte dell’uomo, questi  perde l’orientamento con le conseguenze deleterie che constatiamo, in primis la deriva etica e l’immoralità. Ora, la Chiesa e il Successore di Pietro esistono per condurre gli uomini a Dio e in secondo luogo unire i credenti. Queste le ragioni addotte da Benedetto XVI, della revoca della scomunica ai vescovi della Fraternità S.Pio X fondata da Mons.Marcel Lefebvre.

Queste ragioni si ritrovano nel Proemio della Costituzione sulla sacra Liturgia, il primo testo fondamentale del concilio ecumenico Vaticano II, che “ritiene suo dovere interessarsi in modo speciale anche della riforma(instaurandam) e dell’incremento (fovendam) della Liturgia” (1). Quantunque si parli nei testi magisteriali di “riforma liturgica del Concilio (liturgica Concilii reformatio)”[2], il verbo ‘instaurare’ – tanto in latino tanto in italiano – va inteso come restaurare e non già come trasformare. ‘Instaurare’, allora, significare ‘ritornare ai fondamenti’. Mi sembra questo il senso di ‘riforma’ nell’insegnamento di Benedetto XVI e prima di Joseph Ratzinger teologo e prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede: “Io sono evidentemente per il Vaticano II, che ci ha portato tante belle cose. Ma dichiarare ciò insuperabile e giudicare inaccettabile ogni riflessione su ciò che noi dobbiamo riprendere dalla storia della Chiesa, ecco un settarismo che io non accetto! […] io sono per la stabilità! Se si cambia la liturgia ogni giorno, essa non è più vivibile! Bisogna anche avere un po’ di memoria: personalmente, tutto quello che ho vissuto in più di settanta anni ha nutrito  la mia spiritualità. Ma, d’altra parte, il fissismo – “Ora tutto è fatto…” – è comunque sbagliato. Infatti, spetta ad ogni generazione valutare ciò che si può migliorare per essere sempre più conformi alle origini e al vero spirito della liturgia. E io penso che ci sia effettivamente materia anche oggi, per la nuova generazione, per “riformare la riforma”. Non attraverso delle rivoluzioni (io sono un riformista, non un rivoluzionario…),  ma cambiando ciò che deve essere cambiato. Dichiarare ogni riforma impossibile mi sembrerebbe un dogmatismo assurdo”[3].

2.    Ora veniamo alla liturgia come intesa dalla Costituzione liturgica. La Chiesa è una realtà divina e umana, permanentemente rivolta a Gesù Cristo che riconosce presente in mezzo a lei grazie alla potenza dello Spirito Santo (cfr Sacrosanctum Concilium 7): tale riconoscimento si chiama adorazione, cioè una religione o relazione di culto pubblico integrale o – dal greco – liturgia, che imita quella celeste come è descritta nell’Apocalisse (cfr ivi). Lo sforzo  imitativo tra quella celebrata in terra e la celeste porta necessariamente a deformazioni che necessitano poi di ri-forme, a cominciare da quella di se stessi, cioè della Chiesa e quindi della liturgia. Il fine della liturgia è la gloria e l’adorazione del Signore e non l’esibizione o peggio esaltazione di sé. Più l’uomo dà gloria a Dio Padre e più si salva. Bisogna sapere che il cielo è aperto da quando Gesù Cristo il Figlio di Dio vi è salito con l’Ascensione e dal quale egli scende nella liturgia con tutti i suoi santi (cfr 8). Tale esercizio di mediazione tra Dio e l’uomo è la liturgia e lo compie il sacerdote, dal latino ‘sacrum’, perciò “è azione sacra per eccellenza”( 7). Sacro non è la stessa cosa di santo: sono due concetti diversi. Il primo termine riguarda cose fisiche o giuridiche (la vita, la legge…); il secondola persona. Unfedele laico può essere un santo, un sacerdote può non essere santo, anche se è un ministro sacro. Infatti può amministrare ‘cose sante’, i sacramenti, ma non essere santo. La definizione del sacro è l’irruzione della Presenza divina, della vita soprannaturale, il massimo di vita e di purezza: è questo il criterio per ordinare i segni nella liturgia.

La sacra o divina liturgia – termini con cui è definita rispettivamente dai latini e dagli orientali “non è una rappresentazione fredda e priva di vita degli eventi del passato o un semplice e vuoto ricordo di un tempo passato. Ma piuttosto Cristo stesso sempre vivente nella sua Chiesa” [4]. La presenza di Cristo cambia nel suo essere l’uomo, toccando e santificando tutti i momenti della vita [5], unendo gli uomini e proponendo la Chiesa quale segno di salvezza che raccoglie i dispersi[6]. Così scrive Pio XII nella enciclica Mediator Dei,  fondamentale per comprendere la Costituzione liturgica: si capisce meglio la celebre frase: “la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù” (cfr 10). Soprattutto “i segni visibili, di cui la sacra liturgia si serve per significare le realtà divine invisibili, sono stati scelti da Cristo o dalla Chiesa”(33): questo è essenziale per capire la sua sacralità, quindi la sua immutabilità. E’ di istituzione divina, possiamo dire di diritto divino ed è opus publicum. Si configura qui l’ ius o dimensione giuridica della liturgia. Forse la valutazione di alcuni studiosi per i quali “SC 21 distingue la parte mutabile della liturgia dalla parte immutabile senza però definire quale quest’ultima sia”[7] può essere riveduta almeno quanto ai principi.

Quindi l’ “accurata riforma generale” della liturgia che il Vaticano II riprendeva in continuità con la Mediator Dei e l’opera di Pio XII aveva tali intenti; non certo toccare questa “parte immutabile, perchè di istituzione divina” (Sacrosanctum Concilium 21), ma quelle parti in cui “si fossero insinuati elementi meno rispondenti all’intima natura della liturgia, o si fossero resi meno opportuni” (ivi). Tale riforma doveva tener conto di alcune norme generali: che regolare la sacra liturgia compete unicamente alla Sede Apostolica e, a norma del diritto (non in deroga ma in applicazione), al vescovo ed entro certi limiti alle assemblee episcopali territoriali. “Perciò nessun altro, assolutamente, anche se sacerdote, aggiunga, tolga o muti alcunché di sua iniziativa, in materia liturgica”(22,3); anche per il fatto che: “Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa …” (26).

La Costituzione liturgica pone una condizione per la riforma: “Per conservare la sana tradizione e aprire però la via ad un legittimo progresso, la revisione delle singole parti della liturgia deve essere sempre preceduta da un’accurata investigazione teologica, storica e pastorale. Inoltre si prendano in considerazione sia le leggi generali della struttura e dello spirito della liturgia, sia l’esperienza derivante dalla più recente riforma liturgica e dagli indulti qua e là concessi. Infine, non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano in maniera in qualche modo organica da quelle già esistenti. Si evitino anche, per quanto è possibile, notevoli differenze di riti tra regioni confinanti”(23).

Si deve constatare, insieme ad autorevoli studiosi che pure erano stati periti conciliari, che tale auspicio è stato disatteso. Un esempio: la Costituzione liturgica raccomanda che i riti non abbiano bisogno di molte spiegazioni (cfr ivi, 23), ma solo nei momenti più opportuni (cfr 35,3); invece si assiste a liturgie dove l’eloquenza dei segni è subissata da una colluvie di parole e didascalie che impediscono ai primi di parlare al cuore del fedele.

Un altro esempio: si invita a ristabilire nella Messa ciò che è caduto in disuso, secondo la tradizione dei padri(cfr 50): l’uso del latino, da conservare nei riti latini (cfr 36,1), mentre la lingua volgare si concede nelle letture e monizioni, in alcune preghiere e canti, nell’orazione comune e altre parti spettanti al popolo (cfr 54); si esorta anche a che “si abbia cura però che i fedeli possano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’Ordinario della Messa che spettano ad essi”(54); per i chierici l’ufficio divino in lingua latina (cfr 101,1). Perché il latino? La liturgia non è una devozione privata nella quale rivolgersi a Dio in modo individuale, con la propria lingua, ma azione pubblica della Chiesa che per l’occidente ha la sua lingua liturgica e sacra, il latino, fattore di unità ecclesiale oltre che culturale. Inoltre, il latino è garanzia di ortodossia del linguaggio dottrinale e liturgico. Certo, la comunicazione di Dio all’uomo nella Scrittura è giusto che per essere compresa possa avvenire nella liturgia anche in lingua vernacola; ma è altrettanto degno e giusto che la comunicazione della Chiesa col Signore avvenga ‘una voce dicentes’,  come fa comprendere l’espressione conclusiva del prefazio: e il latino esprime ciò adeguatamente. Gli orientali questo principio l’hanno conservato, usando, per esempio, l’aramaico, il greco antico e lo slavo ecclesiastico. Poi, non conserviamo nella liturgia latina parole ebraiche e greche come amen, alleluia, osanna? Nella cosiddetta società multiculturale odierna e con lo strumento di internet, l’argomento dell’incomprensibilità del latino è superato, in primis per i giovani.

Così per il gregoriano: la Costituzione liturgica afferma che è riconosciuto dalla Chiesa e gli è riservato nella liturgia il posto principale perchè è il canto proprio della liturgia romana (cfr 116) e i suoi libri sono da rieditare: lo ha fatto Paolo VI col Graduale simplex (36,1, 37 e 117). Il gregoriano è musica sacra perchè ha una oggettività che prescinde dal gusto soggettivo, anche se se ne serve. Perciò, va rimediata la sparizione del repertorio musicale rimpiazzato dalla musica derivata dalla cultura profana, secolarizzata e incompatibile col Vangelo. Quanto all’arte sacra, per garantirla la Chiesa si riserva il diritto di essere arbitra delle forme artistiche (Ivi,122) e di valutare ciò che può essere ritenuto sacro perché rispondente alla fede, alla pietà e ai canoni della tradizione (cioè le norme religiosamente tramandate), allontanando  dalla casa di Dio quelle contrarie “che offendono il genuino senso religioso,o perché depravate nelle forme, o perché mancanti, mediocri o false nell’espressione artistica”(124). In tal senso la Costituzione invita alla revisione dei canoni dell’arte sacra (cfr 128).

3.   C’è un insegnamento previo di J. Ratzinger che traduce la Costituzione liturgica: da dottore privato, teologo perito del Concilio e prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha prodotto studi alcuni dei quali ora raccolti nell’Opera omnia e in parte reperibili in Davanti al Protagonista e soprattutto nell’Introduzione allo spirito della liturgia tradotto in molte lingue.  Da collaboratore di Giovanni Paolo II, nella enciclica Ecclesia de Eucharistia a cui è seguita la  Istruzione Redemptionis sacramentum.

Alcuni mesi prima dell’elezione pontificia, egli si è appellato ad un’altra riforma liturgica che rappresenterebbe un vero “sviluppo organico” in rapporto al movimento liturgico come si è svolto fino al 1948 e che ha preso corpo nelle riforme di Pio XII. Egli presenta la riforma post-conciliare come una deviazione della vera riforma pensata in Concilio e che questo stesso avrebbe voluto armonicamente continuare: non di rottura ma di continuità, per usare i termini da lui stesso usati nel celebre passaggio sull’ermeneutica  del Concilio nel discorso tenuto alla Curia Romana il 22 dicembre 2005 a pochi mesi dall’elezione. Paolo VI aveva istituito un Consilium ad exsequendam (per eseguire) la Costituzione liturgica non per interpretarla o stravolgerla. Ci sarà bisogno dello studio d’archivio, in specie del diario del segretario mons. Bugnini, per capire se le prime riforme postconciliari, quelle del 1964-1965, fossero nell’alveo stabilito dal concilio, prima della svolta radicale del 1967 con la cosiddetta “messa normativa” presentata al sinodo dei vescovi e che sorprese la maggior parte di loro: una messa nuova in cui era abolita la specificità essenziale della liturgia romana, cioè la preghiera eucaristica unica. Questo giudizio è condiviso oggi da non pochi liturgisti [8].

Ora che è pontefice, con l’Esortazione Sacramentum caritatis e il Motu proprio Summorum Pontificum, si può parlare di avvio della “riforma della riforma”. La liturgia resta sempre «culmine e fonte» della vita della Chiesa (cfr Sacramentum caritatis nn. 3, 17, 70, 76, 83, 93).

Dunque, nell’insegnamento di Benedetto XVI la riforma della liturgia deve avvenire in modo organico, modificarsi un po’ come si modifica il paesaggio, in modo impercettibile, naturale nell’evoluzione. In tal senso vanno intesi i principi generali per il restauro e l’incremento della liturgia nella Costituzione conciliare. La chiave per capire i successivi articoli è il 14: lo scopo della riforma è la partecipazione dei fedeli, ove il termine actuosa, tradotta con attiva, significa invece interna e contemplativa, di mente e di cuore [9]; così l’hanno sempre intesa e raccomandata la tradizione e i pontefici.

Lo spirito da cui scaturisce la riforma è indicato nei n 15-19: la riforma comincia dall’educazione e formazione del clero, a cominciare dal seminario, e dei laici a partire dal catechismo, allo “spiritu et virtute liturgiae”, altrimenti si tratta di attivismo. I fondamenti della liturgia sono ora reperibili nel Catechismo della Chiesa Cattolica art. 1077-1112.

L’alveo in cui deve rimanere la riforma dei riti è descritto, come già detto, nell’“avvertenza” di Sacrosanctum Concilium 23: “…che le nuove forme scaturiscano in maniera in qualche modo organica da quelle già esistenti”. Questo richiama l’art. 50 circa l’instaurazione di pratiche cadute in disuso. La frase cruciale del 23: “non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa” spiega che la riforma che il concilio dava mandato di fare, non era un ‘assegno in bianco’ per una riforma liturgica radicale, ma per una equilibrata e moderata, prudente e tradizionale. Per esempio, circa la riforma della Messa, la Commissione liturgica del Concilio aveva assicurato i padri così: “Hodiernus Ordo Missae, qui decursu saeculorum succrevit, retinendus est[10]. Cosa è successo con quella promulgata nel 1969?

4.     Dunque il concilio ha voluto dire che la liturgia è suscettibile di riforma, ma deve essere uno sviluppo organico e non un’innovazione radicale. In tal senso si sono espressi studiosi come Jounel. La Chiesa non deve inventare le forme dei suoi riti, nati dalla tradizione apostolica, non deve la liturgia apparire come una rottura col passato o come una rivoluzione dei riti. La liturgia è vita e questa, ordinariamente non si sviluppa attraverso mutamenti repentini [11]. La riforma postconciliare è andata oltre i legittimi e tradizionali confini che il concilio stesso aveva stabilito: pur enunciando i principi in modo preciso “la loro forza normativa vien fortemente attenuata dalle non poche e sempre generiche eccezioni previste…A tali eccezioni, infatti, va ricondotta la rozza situazione di anarchia liturgica ch’è sotto gli occhi di tutti e sta quotidianamente ingigantendosi[12].

Se la liturgia ha subito seri danni, come va riparata? 1. Seguire il Papa che sa bene come fare; 2. Studiare; 3. Celebrare degnamente. “Ciò che era sacro rimane sacro”, ha scritto nel Motu proprio. Dove cominciare la riforma della riforma? “dalla presenza del sacro nei cuori, la realtà della liturgia e il suo mistero”[13]. Un mistero che ha bisogno di spazio interiore ed esteriore. Perciò vanno eliminate le “deformazioni della liturgia al limite del sopportabile[14]. La liturgia non può essere fabbricata, perciò c’è bisogno di arricchimento vicendevole tra la forma antica ora straordinaria e quella nuova ordinaria: questa dovrà ispirarsi al carattere sacro e stabile della prima. Perchè nella liturgia Cristo diviene contemporaneo a noi.

Ratzinger osserva che si è andati oltre col nuovo messale: così la crisi della Chiesa è dovuta alla crisi della liturgia, diventata senza regole, dimentica del ius divinum, self- made, “una danza vuota intorno al vitello d’oro che siamo noi stessi[15]. E aggiunge: “Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita […]come se in essa non importasse più se Dio c’è, e se ci parla e ci ascolta…[16].

Allora si può riassumere la riforma di Benedetto XVI in tre priorità: 1. la nozione di participatio actuosa di ognuno alla Messa [17]: non troppe parole, non teatralizzazione, non spontaneismo e improvvisazione; salvaguardare il rito romano: per aprirci alle altre culture non dobbiamo dimenticare la nostra; 2. il posto del silenzio ‘riverente’ nella Messa (cfr SC 30); perchè l’azione a cui prendere parte è il dono di Cristo sulla Croce; la Costituzione liturgica non chiede di essere ‘attivi’ in ogni parte della Messa, ma di fare l’offerta di sé e l’adorazione (con i segni di croce, le mani giunte, l’inginocchiarsi con riverenza), soprattutto il silenzio dei fedeli e del sacerdote. 3. l’orientamento del sacerdote all’altare, specialmente dall’offertorio in poi. La posizione verso il popolo è stato un errore tragico, mutuato dal fraintendimento dell’Ultima Cena. Il sacerdote invece deve essere rivolto al Signore, il Sole che sorge, il Risorto e il veniente. Così la Chiesa ha espresso la vera forma della Messa cioè l’eucaristia “pignus futurae gloriae”, perché nella Messa la salvezza è incompleta. La Messa verso il popolo fa della liturgia un “cerchio chiuso”[18].

Dunque, bisogna ripartire dalla teologia della liturgia per un nuovo movimento liturgico: “come il (primo) movimento liturgico, che ha preparato l’avvento del concilio Vaticano II, è cresciuto rapidamente in una corrente impetuosa, così anche in questo caso l’impulso dovrà venire da chi veramente vive la fede. Tutto dipenderà dall’esistenza di luoghi esemplari in cui la liturgia sia celebrata correttamente, in cui si possa vivere di persona ciò che questa è…”[19] . Esso è già in atto, di giovani fedeli laici. Basta andare su internet.

E’cominciata una riforma paziente: “in questo tempo in cui ci è richiesta la pazienza, questa forma quotidiana dell’amore. Un amore in cui sono presenti al tempo stesso la fede e la speranza”[20].

 

[1] Benedetto XVI, Lettera ai Vescovi, 10 marzo 2009.

[2] Cfr. Redemptionis sacramentum, n. 4; Ecclesia de Eucharistia, n. 10. [3] Davanti al Protagonista, Siena 2009, p 181.

[4] Pio XII, Enciclica Mediator Dei; DS 3855. [5] Ivi, 61.

[6] Ivi, 2.

[7] R.Amerio, IotaUnum. Studio sulle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, a cura di E.M.Radaelli, Lindau,Torino 2009, p 561-562.

[8] cfr C.Barthe, La Messe a l’endroit, Orthez 2020, p 34.

[9] Cfr Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello B. 2001, p 171-177.

[10] A.Reid, in Aa.Vv, The Genius of the Roman Rite. Historical, Theological and Pastoral Perspectives on Catholic Liturgy, ed.U.M.Lang, Chicago/Mundelein,Illinois,2010, p 208. [11] Cfr anche McManus, Bouyer, Jungmann in: ivi, p 204 s.

[12] cfr B.Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II: un Discorso da fare, Casa Mariana

Editrice, Frigento (Av), 2009, p 140. [13] Davanti al Protagonista, p 56-57.

[14] Lettera ai vescovi in occasione della pubblicazione del Motu proprio Summorum

Pontificum, 7 luglio 2007, n.5.

[15] Via Crucis 2005: Meditazione IX stazione, Città del Vaticano 2005; cfr anche:

Introduzione allo spirito della liturgia, p 19.

[16] J.Ratzinger,La mia vita, San Paolo 1997, p 113. [17] Cfr Introduzione allo spirito della liturgia, p 168. [18] Ivi, p 77-78.

[19] J.Ratzinger, Dio e il mondo, S.Paolo 2005, p 380.

[20] V.Messori a colloquio con J.Ratzinger, Rapporto sulla fede, C. Balsamo 1985, p 10.