Differenze tra la Chiesa Cattolica e le chiese ortodosse

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di Corrado Gnerre

Il Cristianesimo ortodosso (“ortodossia” significa “corretta opinione”) si chiama così perché convinto di applicare la vera volontà di Gesù Cristo.  Esso si esprime in comunità autocefale (cioè aventi in sé il proprio capo), che solitamente vengono erette al rango di patriarcato. Queste comunità sono in comunione fra loro, ma agiscono indipendentemente le une dalle altre. Vi sono poi alcune comunità autonome e semiautonome che hanno un notevole grado di autogoverno, ma non possono definirsi di governo proprio nel vero senso della parola, perché l’elezione del loro primate viene formalmente approvata dal sinodo della “chiesa” autocefala da cui dipendono.

All’interno dell’Ortodossia vi sono varie controversie giurisdizionali, e ciò per diversi motivi. In alcuni casi le questioni si legano all’autodeterminazione nazionale di un popolo, come nel caso delle “chiese” ucraina, montenegrina e macedone, le quali non sono in comunione con le principali chiese ortodosse.

Le comunità ortodosse più importanti sono quelle greca, russa, serba, bulgara e rumena. Complessivamente l’Ortodossia è per dimensioni la terza maggiore confessione cristiana, contando circa 250 milioni di fedeli, sia in Oriente che in Occidente.

La storia

Diamo qualche notizia sulla storia dell’Ortodossia. Le radici dello scisma sono nella decisione dell’Imperatore Costantino di fare di Costantinopoli (nell’anno 330) la “nuova Roma” e di renderla capitale dell’Impero. Fu così che nel 381 il vescovo di quella città pretese per il suo seggio un primato d’onore immediatamente dopo quello di Roma. A questo poi si aggiunse il fatto che l’Imperatore Teodosio si stabilì a Costantinopoli e alla sua morte l’Impero si divise in Impero d’Occidente e Impero d’Oriente. Quest’ultimo divenne la residenza stabile dell’imperatore d’Oriente.

Ciò accrebbe le pretese del Vescovo di Costantinopoli, che, al Concilio di Calcedonia (451), ottenne non soltanto la conferma del suo posto d’onore, ma un’effettiva giurisdizione sulle diocesi di Tracia, d’Asia, del Ponto e su altri Paesi vicini. Questa decisione fu adottata dopo la partenza dei legati romani e non fu mai riconosciuta dal Papato. Non fu così a Costantinopoli dove, poco a poco, si sviluppò quella convinzione che in germe contiene tutto lo “scisma” bizantino: il vescovo di Costantinopoli avrebbe dovuto avere sul Patriarcato un’autorità assoluta, ma avrebbe dovuto comunque riconoscersi, a livello onorifico, inferiore al Vescovo di Roma, il quale – evidentemente – anch’egli avrebbe dovuto esercitare un’autorità assoluta sui territori dell’Occidente.

È ovvio che alla base della separazione non vi fu solo l’ambizione dei patriarchi di Costantinopoli. Giocarono anche altri fattori. Per esempio: la diversità culturale latina rispetto a quella greco-orientale, la diversa mentalità teologica, la politica degli imperatori d’Oriente, i quali, non vedendo di buon occhio che la Chiesa del loro impero dipendesse da un’autorità straniera, appoggiavano e stimolavano le pretese dei vari patriarchi.

Dopo un breve scisma (863-867), operato dal patriarca di Costantinopoli Fozio, che tra l’altro lanciò anche l’argomento del Filioque (di cui parleremo in un successivamente), lo scisma definitivo avvenne nel 1054 con il patriarca Michele Cerulario. Questi salì alla sede di Costantinopoli il 25 marzo del 1043. Le relazioni con Roma erano già sospese da tempo. Il Papato attraversava uno dei periodi più tristi. Dal 901 al 1059 si contano una quarantina di papi di fronte a soli quindici patriarchi di Costantinopoli. Michele Cerulario non ruppe le relazioni con Roma, che di fatto non esistevano più, quanto fece fallire ogni tentativo di riprenderle. Riaprì la polemica contro i riti e gli usi latini, che Fozio aveva già cominciata. Per suo ordine furono chiuse tutte le chiese latine di Costantinopoli. Fece poi lanciare da Leone di Ocrida un manifesto offensivo contro gli usi latini.

Al papa Leone IX non restò che inviare a Costantinopoli una delegazione di legati con a capo il cardinale Umberto. Il tentativo fallì. Alla fine, ai legati pontifici non restò che deporre sull’altare della celebre basilica di Santa Sofia la bolla con cui veniva scomunicato Michele Cerulario. Era il 16 luglio del 1054. Cerulario ovviamente rispose scomunicando i legati. Al ritorno a Roma, il cardinale Umberto e i legati seppero che il Papa era morto il 19 aprile e le Sede era ancora vacante. Ma la loro sentenza fu accolta da tutti. Da quel momento lo scisma era un fatto compiuto.

Non solo scisma … ma anche eresia

La versione ufficiale vuole che il Cristianesimo ortodosso sia classificato come scismatico e non eretico. Ricordiamo la differenza tra eresia e scisma.

L’eresia è un errore che si pone sul piano della dottrina, lo scisma invece è un errore che si pone sul piano della disciplina. Dal momento che il Cristianesimo ortodosso viene ricordato soprattutto per il suo rifiuto alla sottomissione al Papa, in quanto Vescovo di Roma avente un potere di giurisdizione su tutti gli altri vescovi, esso viene considerato come una comunità scismatica. È un giudizio che convince poco e diciamo subito il perché.

Prima di tutto: già il rifiuto del primato petrino ha implicazioni non solo sul piano disciplinare ma anche su quello dottrinale. Secondo: è riduttivo ritenere che il Cristianesimo ortodosso si differenzi da quello cattolico solamente per la non accettazione del primato del Vescovo di Roma. Infatti, vi sono diverse differenze. Parliamone.

Chiesa e primato petrino

Gli ortodossi ritengono – a proposito della costituzione della Chiesa – che san Paolo sia stato del tutto pari a san Pietro (tesi del “duplice capo della Chiesa”, già condannata da Innocenzo X). Ovviamente questo comporta anche il rifiuto del dogma dell’infallibilità pontificia.

Gli ortodossi ritengono che nei primi secoli la Chiesa Cattolica non fosse “monarchica” e ritengono che il Primato della Chiesa Romana non poggi su validi argomenti.

Dio

Gli ortodossi, ovviamente, concepiscono Dio in maniera molto simile a come viene concepita dai cattolici, ma attenzione: non identica. Gli ortodossi credono sì in un solo Dio in tre persone (Padre, Figlio e Spirito Santo), ma per quanto riguarda il rapporto tra Dio e la creazione i loro teologi distinguono fra essenza eterna di Dio ed energie divine. L’essenza divina sarebbe inconoscibile, mentre possono essere conosciute le energie o atti divini. Ora, un conto è dire che il mistero di Dio non potrà mai essere completamente compreso dall’intelligenza delle creature (angelo o uomo che sia), altro è affermare una completa inconoscibilità dell’essenza divina. Ciò infatti può comportare la convinzione secondo cui Dio non sarebbe costitutivamente logos, bensì potrebbe essere concepito volontà pura indipendente da qualsiasi logica. Si tratterebbe, ovviamente, di un effetto del rifiuto del metodo analogico, cioè della possibilità di conoscere la natura di Dio anche attraverso la ragione umana.

Dunque, una tale convinzione (la completa non conoscibilità dell’essenza divina) può portare a delle conseguenze ben precise. Prima fra tutte quella di “separare” (e non solamente “distinguere”) il piano naturale da quello soprannaturale. Ovvero di ritenere il piano naturale giudicato da leggi completamente diverse rispetto all’essenza della realtà soprannaturale. Tanto è vero questo, che l’Ortodossia pone poca attenzione al rapporto tra fede e scienza, rapporto che è invece è sempre stato ed è tuttora importante per il Cattolicesimo. Altra conseguenza è il fenomeno del cesaropapismo, ovvero la sottomissione del potere religioso rispetto a quello politico. È vero che questo fenomeno è legato primariamente alla rinuncia da parte dell’Ortodossia del potere temporale, ma non ne è estranea anche la singolare concezione di Dio di cui abbiamo appena parlato.

Gli ortodossi ritengono che il dogma della processione dello Spirito Santo anche dal Figlio (“Filioque”) non sia contenuto nelle parole del Vangelo o non sia stato accettato dalla fede degli antichi Padri. Al limite, dichiarano di essere disposti ad affermare l’espressione secondo cui lo Spirito Santo procederebbe dal Padre attraverso il Figlio, ma non dal Figlio. Le conseguenze di una convinzione di questo tipo sono molto importanti. Infatti, negare che lo Spirito Santo proceda logicamente dal Figlio, vuol dire negare che l’amore proceda dalla verità. È quella negazione di Dio come logos a cui abbiamo già fatto cenno.

La Vergine Maria

Per quanto riguarda la Vergine Maria, gli ortodossi negano il dogma dell’Immacolata Concezione, affermando che la Vergine sarebbe stata concepita con il peccato originale, ma che poi sarebbe stata purificata al momento del concepimento del Verbo Incarnato.

Si insiste, invece, sul fatto che Maria non commise mai peccato, che rimase sempre vergine e che, ovviamente, è vera Madre di Dio. Si afferma anche che Maria fu assunta in Cielo, ma non se ne fa una verità vincolante.

I sacramenti

Per quanto riguarda i sacramenti, il Cristianesimo ortodosso non ne ha mai definito dogmaticamente il numero. In tempi recenti ha riconosciuto di fatto i sette sacramenti della Chiesa Cattolica ai quali ha aggiunto altri come: la tonsura monastica, la benedizione delle acque, la consacrazione delle icone… Insomma, l’Ortodossia non riconosce una vera differenza tra sacramenti e sacramentali.

Per quanto riguarda il Battesimo, a differenza della Chiesa Cattolica dove questo può essere amministrato anche per infusione, nelle comunità ortodosse esso deve invece essere amministrato per immersione.

Per quanto riguarda la Cresima, il rito ortodosso è esteso a tutto il corpo con una serie di unzioni col crisma benedetto dal vescovo. A differenza del Cattolicesimo, il ministro può anche essere il sacerdote, anche se il crisma deve essere comunque consacrato da un vescovo.

Per quanto riguarda l’Eucaristia, nell’Ortodossia non si utilizza il termine transustanziazione ma trasmutazione. Teologicamente non cambia nulla. L’Eucaristia è celebrata con pane di frumento fermentato e non azimo (questa è una differenza) e vino rosso mescolato con acqua tiepida all’interno del calice. La Comunione è distribuita sempre sotto le due specie. Per riceverla non si esige la capacità di distinguere il pane comune da quello “trasmutato”, infatti la Comunione può essere amministrata anche ai bambini molto piccoli dopo il Battesimo. Altra differenza: mentre i cattolici identificano la transustanziazione con le parole di Cristo all’Ultima Cena, gli ortodossi identificano la trasmutazione con la conclusione del canone eucaristico, ovvero con l’epiclesi o invocazione allo Spirito Santo.

Per quanto riguarda il sacramento della Penitenza, esso è molto simile a quello cattolico. Però nell’Ortodossia ognuno deve confessarsi col proprio “padre spirituale” e senza il confessionale a grata. Alcuni affermano che nell’Ortodossia la Confessione verrebbe vista soprattutto come una sorta di “terapia dell’anima”. Infatti, a differenza di ciò che accade nel Cattolicesimo, il confessore non “assolve” il penitente dai peccati bensì recita una preghiera invocando il perdono divino.

Per quanto riguarda l’Unzione degli infermi, nell’Ortodossia questo sacramento può essere amministrato anche a coloro che soffrono solo spiritualmente e non è stato mai solo riservato agli ultimi momenti della vita.

Per quanto riguarda l’Ordine, anche nell’Ortodossia esso permette la creazione dei ministri della Chiesa, nei tre gradi di vescovo, presbitero e diacono. Solo il vescovo è eletto fra i celibi (specificamente fra i monaci), mentre sacerdoti e diaconi possono essere scelti tanto fra celibi quanto tra sposati, per quest’ultimi però è necessario che non siano in seconde nozze e non si sposino dopo l’ordinazione. I ministri sono eletti solo fra i maschi.

E infine il Matrimonio. Per l’Ortodossia neppure la morte di uno dei due coniugi può sciogliere il vincolo. Solo il vescovo può decidere se ammettere i suoi diocesani a seconde o terze nozze. A questo però si aggiunge qualcosa che va completamente a discapito di questo sacramento: si afferma che, ove sia assolutamente venuto meno l’amore coniugale per adulterio, può ammettersi il divorzio. Si tratta di un permesso causato da una errata interpretazione di Matteo 19, 9: «Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra, commette adulterio». In realtà, Gesù vuol dire che in caso di concubinato la propria moglie si può ripudiare perché non è davvero moglie, mentre gli ortodossi interpretano, sbagliando, concubinato come adulterio e quindi come una possibile eccezione all’indissolubilità del matrimonio.

La negazione del Purgatorio

Gli ortodossi non credono nel Purgatorio, anche se – contraddittoriamente – invitano a pregare per i defunti. In realtà, si afferma che dopo la morte nel suo avvicinamento verso Dio l’anima dovrebbe superare dei punti di blocco, definiti “stazioni di pedaggio”. In questo avvicinamento l’anima incontrerebbe i cosiddetti “demoni dell’aria” e sarebbe da loro giudicata, provata e tentata. Il giusto che ha vissuto santamente la sua vita terrena supererebbe velocemente queste prove senza timore e terrore.

Le varietà

Una differenza importante è tra chiese ortodosse calcedoniane e chiese ortodosse non calcedoniane.

Le prime costituiscono la realtà più comunemente nota con il nome di Ortodossia. Esse sono: gli antichi patriarcati di Gerusalemme, Antiochia, Alessandria e Costantinopoli e diverse altre chiese autocefale. Pur nel rispetto di una forte autonomia, queste “chiese” sono in una forte comunione.

Le seconde (le chiese non calcedoniane) o antico-orientali sono diffuse dall’Armenia fino all’Africa orientale e all’India del Sud. Si tratta di “chiese” che si sono poste al di fuori dell’antico Impero Romano d’Oriente, di cui hanno rifiutato le formulazioni di fede cristologica definite dal Concilio di Calcedonia del 451.

Inoltre va detto che esistono chiese che hanno riti pressoché identici all’Ortodossia, ma che riconoscono l’autorità di Roma. Queste chiese sono dette solitamente uniate, ma i loro fedeli preferiscono definirsi cattolici di rito orientale.

Bisogna convertire gli ortodossi

Purtroppo in non pochi ambienti cattolici si è diffusa la convinzione secondo cui non sarebbe necessario convertire gli ortodossi, perché Ortodossia e Cattolicesimo sarebbero due parti dell’unica Chiesa Corpo Mistico di Cristo.

Prima di vedere quanto errata sia una simile convinzione, ricordo che i santi hanno sempre preteso che gli ortodossi si convertissero al Cattolicesimo. Nestor Caterinovich apparteneva alla Ortodossia russa. Quando incontrò san Pio da Pietrelcina si convertì con tutta la sua famiglia alla fede cattolica e sottolineò sempre la felicità che ne derivò: «Padre Pio – soleva dire commosso ai suoi amici – ha trionfato sul nostro cuore, ma col suo trionfo ha procurato a noi una tale felicità, che non possiamo fare a meno di recarci il più sovente possibile al suo convento, per dimostrargli l’inalterabile riconoscenza dell’animo nostro».

Veniamo adesso a confutare la tesi secondo cui Chiesa Cattolica e Chiesa ortodossa sarebbero due parti di un’unica chiesa. Offriamo alcune citazioni importanti.

  • Sant’Ambrogio (339-397) afferma chiaramente: «Ubi ergo Petrus ibi Ecclesia» ovvero: “Perciò dov’è Pietro ivi è la Chiesa.”
  • La professione di fede di Michele Paleologo, accettata dagli orientali nel 1274, afferma chiaramente: «la santa Chiesa romana ha anche primato ed autorità sovrana su tutta la Chiesa cattolica (…). Ad essa sono sottomesse tutte le Chiese e i loro prelati le prestano obbedienza e riverenza».
  • Nei decreti del Concilio di Firenze (secolo XV), firmati dagli orientali, è scritto: «Definiamo anche che la Santa Sede apostolica e il Pontefice romano posseggono il primato su tutta la terra; che questo pontefice romano è il successore del beato Pietro, il capo degli Apostoli e il vero vicario di Cristo, la testa di tutta la Chiesa, il padre e il dottore di tutti i cristiani; che a lui, nella persona del beato Pietro, è stato affidato da Nostro Signore Gesù Cristo il pieno potere di pascere, reggere e governare tuta la Chiesa, come dicono gli atti dei concili ecumenici e i sacri canoni».
  • Il Concilio Vaticano I (1870), nella costituzione Pastor aeternus, afferma: «Affinché l’episcopato fosse uno ed indiviso, affinché, grazie all’unione stretta e reciproca dei Pastori, l’intera moltitudine dei credenti fosse custodita nell’unità della fede e della comunione, Cristo, collocando il beato Pietro a capo degli altri Apostoli, stabilì nella sua persona il principio duraturo e il fondamento visibile di questa duplice unità».
  • Leone XIII scrive nella Satis cognitum: «Gesù Cristo non ha affatto concepito ed istituito una Chiesa formata da più comunità, simili per alcuni caratteri generali, ma distinte le une dalle altre e non unite da quei legami che soli possono dare alla Chiesa l’individualità e l’unità che professiamo nel simbolo della fede: “Credo la Chiesa…una”». E ancora: «E dunque proprio di Pietro sorreggere e conservare unita e ferma con indissolubile compagine la Chiesa. Ma come potrebbe egli adempiere questo compito, se non avesse il potere di comandare, vietare, giudicare; in una parola, senza un vero e proprio potere di giurisdizione? Infatti solo in virtù di questo potere si conservano gli Stati e le società. Un primato d’onore o anche quel modesto potere di consigliare ed ammonire, detto potere di direzione, non possono conferire a nessuna società umana un elemento efficace d’unità e di solidità».
  • Pio XI è di una chiarezza inequivocabile. Scrive nella Mortalium animos: «Il corpo mistico di Cristo, cioè la Chiesa, è omogeneo e perfettamente articolato, come un corpo fisico; è perciò illogico e ridicolo pretendere che il Corpo Mistico possa essere formato da membra sparse, isolate le une dalle altre; perciò chi non gli è unito non può essere suo membro, né saldato al capo che è Cristo. Nessuno si trova e permane in quest’unica Chiesa di Cristo, se non riconosce ed accetta con ubbidienza l’autorità e il potere di Pietro e de suoi legittimi successori».

Per concludere, pensiamo piuttosto ai tanti martiri della Chiesa uniate, che, pur di rimanere fedeli a Roma, hanno offerto la loro vita. A che pro se essere ortodossi equivale ad essere cattolici? Il grande cardinale Joseph Slipyi, prigioniero per diciotto anni in un gulag, lo ricordò: «I nostri predecessori si sono sforzati per mille anni di conservare il legame con la Sede apostolica romana, e negli anni 1595 e 1596 hanno consolidato l’unione con la Chiesa cattolica romana a certe condizioni che i Papi hanno solennemente promesso di rispettare. Durante quattro secoli, questa unione è stata autenticata da un gran numero di martiri ucraini e ancora oggi questa difesa della santa unione da parte dei nostri fratelli è gloriosamente iscritta negli annali della Chiesa».

Nell’Ortodossia c’è solo una successione apostolica materiale, ma non formale ed essenziale

Certamente non si può negare che nella Chiesa ortodossa vi sia una reale successione apostolica. Ma tale constatazione merita però un approfondimento per evitare delle pericolose semplificazioni.

Cristo ha istituito una Chiesa gerarchica e monarchica fondando un collegio apostolico sotto l’autorità di Pietro. A loro volta gli Apostoli hanno fondato chiese locali. Con il passare dei secoli i successori degli Apostoli hanno ricevuto i poteri per governare quelle chiese.

Questo aspetto materiale della successione dei vescovi non deve però far passare in secondo piano un altro aspetto, ovvero quello formale ed essenziale. Infatti, l’episcopato può essere ricevuto materialmente ma non formalmente se si è separati dalla Chiesa e dal suo capo in Terra, che è il Vescovo di Roma.

Certamente, la sola successione materiale comporta la validità dei sacramenti, ma non esprime la purezza di tale successione.

fonte: ilgiudiziocattolico

Tradizione e Vaticano II

di p. Serafino M. Lanzetta, FI

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1. La Tradizione della Chiesa

Uno dei tabù post-moderni più insidiosi, dal quale fino a qualche anno fa bisognava necessariamente emanciparsi nella Chiesa, è stato il lemma “Tradizione”. Il rischio, sempre ricorrente, è quello di emanciparsi però non solo da uno slogan, da una parola, per coniarne una nuova, ma dalla Chiesa stessa, che dalla Tradizione è strutturata e della Tradizione vive.

Infatti, in diversi livelli ecclesiali, il processo del rinnovamento conciliare, doveva passare necessariamente attraverso un ammodernato concetto di Traditio, che non ripetesse semplicemente quello che era stato già detto nei secoli precedenti, ma che desse alla stessa Chiesa un vigore nuovo e potesse essere inteso come dinamicità intrinseca, come vivezza del mistero, come progressività in una conoscenza biblica sempre più matura e intelligente, fino a scartare come non cattolico, quanto nella Bibbia non risultasse letteralmente scritto. La Tradizione doveva passare attraverso il filtro delle Scritture, viste in qualche modo come sua stessa possibilità e come suo metro di valutazione teologica. Senza dubbio si è verificata una “concentrazione scritturistica” mai prima conosciuta. Con tutti i pregi per aver favorito la sua conoscenza in virtù del metodo della lectio divina, accanto a nuovi problemi non meno significativi: la sua “volgarizzazione” ha favorito in molti, in diversi esegeti e anche in alcuni cristiani, un approccio soggettivistico. Smarrito il canone della Traditio, la Scrittura perde il suo stesso humus vitale dal quale è fiorita, la sua identità. Ridimensionando la Tradizione la Scrittura è stata allontanata dalla Chiesa e tutti ne sono diventati autorevoli interpreti

Il “problema Tradizione” però era un falso problema. Non c’era un’opposizione irriducibile tra Scrittura e Tradizione, per il semplice fatto che gli agiografi avevano scritto quanto il Signore aveva detto e quanto gli Apostoli avevano insegnato nella loro predicazione. Regola della fede sono le Scritture canoniche in quanto consegnate alla Chiesa, ispirate da Dio in ragione del fatto che, quei fedeli agiografi, avevano ricevuto dalla Chiesa per mano degli Apostoli quelle Parole, trasmesse con l’assistenza dello Spirito Santo. La Tradizione andava a costituire le Scritture e le Sacre Scritture diventavano il canone fisso di un dogma maturato in una compagine viva, nella Chiesa del Dio vivo, che così, con la sua stessa vita, diventava metro ultimo e prossimo della cattolicità. Perciò, la Bibbia non escludeva la Tradizione, né lo potrebbe. Molti, facendo leva su un’accennata distinzione dogmatica tra Scrittura e Tradizione di Dei Verbum – Tradizione è solo la predicazione apostolica e solo la trasmissione della Parola di Dio? (cf. Dei Verbum 9), oppure l’intera comprensione e trasmissione della fede, principiante dalla predicazione ed estesa a tutta la Chiesa, in ragione del Magistero ecclesiastico? –, e sul fatto che la classica distinzione delle due fonti della divina Rivelazione fu accantonata per chiari motivi pastorali ed ecumenici del Vaticano II, hanno favorito uno smarrimento della divina Tradizione, per fare spazio solo alla Bibbia, che facilmente però, come diecevamo, scade nel libero esame, in una fede adogmatica, che oggi si direbbe “fai da te”. Si è smarrito il criterio dell’essere cristiani. La forma del cattolicesimo. Non basta la Bibbia, è necessaria anche la Chiesa. Quel «non crederei al Vangelo se non mi ci inducesse l’autorità della Chiesa», rivolto da S. Agostino ai donatisti, oggi è di un’attualità imprescindibile e potrebbe essere riformulato anche così: non avrei il Vangelo, né lo capirei, se non mi venisse dato e spiegato dalla Chiesa. La Scrittura come regola di se stessa, del suo esserci, di barthiana memoria, non regge. C’è prima la Chiesa e poi la stesura del Vangelo, prima la trasmissione di quanto il Signore aveva detto e fatto e poi la sua elaborazione scritta. Questo “prima” è da intendersi in senso cronologico, che distingue in modo ontologico l’alterità tra Tradizione e Scrittura e ne determina la loro impossibile riduzione ad unum. Nella “Tradizione apostolica”, poi, che riceve e trasmette la Parola del Signore, s’innesta e si salda nell’unicità dello stesso tradere la “Tradizione ecclesiastica”, quale fedele deposito e l’accresciuta comprensione nel tempo della Chiesa di quelle verità di fede, che sempre identiche, crescono con colui che le medita, lasciando alla Chiesa il compito di scrutarle, di interpretarle rettamente e di insegnarle senza possibilità di errore. Anche quando le Parole del Signore furono messe per iscritto, la Tradizione (orale) non perse la sua efficacia, non solo al fine di interpretare rettamente le divine Scritture, ma per approfondire la stessa fede. Così, con quella divina suggestio dello Spirito Santo (cf. Gv 14,26), si arrivò alla comprensione e alla definizione di verità, quali la Verginità perpetua di Maria, l’Immacolata Concezione, il numero settenario dei Sacramenti, ecc.: non altre verità, ma quelle che il Signore aveva insegnato e che la Tradizione aveva ininterrottamente consegnato, attraverso le Scritture e attraverso la trasmissione orale dell’unico insegnamento del Signore Gesù. Unico è il deposito della fede, identico e immutabile, due però le vie, i rivoli se si vuole, per riceverlo e ritrasmetterlo accresciuto fino a quando il Signore verrà: quella scritta e quella orale.

Come si vede, Tradizione non è un elemento opzionale, facilmente superabile tacendone la sua essenza o riducendolo al mero momento dell’interpretazione scritturistica. Non è neanche un discrimen politico, come purtroppo da diversi anni a questa parte viene inteso. Sì, forse è stata questa la ragione del suo progressivo accantonamento: una Chiesa (politicamente) più aperta al domani, al progresso, al mondo, all’evoluzione (-ismo), avrebbe dovuto rinunciare al dato antico, al suo passato, al suo ieri, immagine di una Chiesa fissista. L’oggi invece è, per tanti, quello di una Chiesa capace d’avanguardie. Emanciparsi dalla Tradizione (dal mistero in definitiva) era l’urgenza dei tempi nuovi. Anche qui però si era impostato il problema in modo surrettizio: la Tradizione non era l’identità di un partito conservatore della Chiesa, era ed è la sua vita, la sua possibilità di essere, ieri come oggi. Se si rinuncia alla Tradizione, dimenticando quello che la Chiesa era, si smarrisce il vero fine di quello che la Chiesa dovrà essere. Un ritorno alla genuina e cattolica identità della Chiesa, è indispensabile per superare le divisioni nell’unico Corpo di Cristo e per dare speranza al futuro come presenza dell’unico ed indiviso Cristo nel mondo, per mezzo della Chiesa.

 2. Il dato della Tradizione in Dei Verbum:

I numeri della Costituzione sulla Divina Rivelazione riguardanti la Tradizione orale che maggiormente ci interessano sono il n. 9 e 10, i quali recitano rispettivamente:

 «La sacra Tradizione dunque e la sacra Scrittura sono strettamente congiunte e comunicanti tra loro. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo un tutto e tendono allo stesso fine. Infatti la sacra Scrittura è la parola di Dio in quanto consegnata per iscritto per ispirazione dello Spirito divino; quanto alla sacra Tradizione, essa trasmette integralmente la parola di Dio – affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli – ai loro successori, affinché, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano; ne risulta così che la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura e che di conseguenza l’una e l’altra devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e riverenza» (n. 9).

 «È chiaro dunque che la sacra Tradizione, la sacra Scrittura e il magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti che nessuna di queste realtà sussiste senza le altre, e tutte insieme, ciascuna a modo proprio, sotto l’azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime» (n. 10).

 3. Il dato della Tradizione in Trento e nel Vaticano I

L’insegnamento relativo alla Tradizione, letta nelle “tradizioni non scritte”, è contenuto nel decreto Sacrosancta del Concilio di Trento, promulgato nella IV sessione dell’8 aprile 1546, che dice:

 «[…] il sinodo sa che questa verità e disciplina è contenuta nei libri scritti e nelle tradizioni non scritte, che raccolte dagli apostoli dalla bocca dello stesso Cristo e dagli stessi apostoli, sotto l’ispirazione dello Spirito santo, tramandate quasi di mano in mano, sono giunte fino a noi, seguendo l’esempio dei padri della vera fede, con eguale pietà e venerazione accoglie e venera tutti i libri, sia dell’antico che del nuovo Testamento, essendo Dio autore di entrambi, e così pure le tradizioni stesse, inerenti alla fede e ai costumi, poiché le ritiene dettate dalla bocca dello stesso Cristo o dallo Spirito Santo, e conservate nella chiesa cattolica in forza di una successione mai interrotta»1.

 Secondo alcuni critici, tra i quali J.R. Geiselmann, Y. Congar, P. de Vooght, scomparsa nel testo tridentino definitivo la particella partim e sostituita con la congiunzione et, alquanto innocua, da sola sarebbe stata incapace di definire la Tradizione come canale della Rivelazione, distinto e indipendente dalla Scrittura. Per questi autori, il Concilio di Trento avrebbe assunto con l’et una posizione descrittiva più che esplicativa, limitandosi ad affermare che accanto alla Scrittura ci sono anche tradizioni apostoliche non scritte. Così arrivavano alle seguenti conclusioni:

a)     la Scrittura contiene tutta la rivelazione («principio, questo, comune sia ai cattolici che ai protestanti, della sufficienza materiale della “Scriptura sola”»);

b)     la Scrittura per essere rettamente capita necessita della Tradizione (principio dell’insufficienza formale delle Scritture, non in comune con i protestanti);

c)      di conseguenza la Tradizione ha solo una funzione interpretativa e dichiarativa della Scrittura.

 In realtà, come ripeterà il Vaticano I, la Chiesa attinge e dalla Scrittura e dalle tradizioni non scritte la sua fede. Pertanto, c’è anche una Tradizione costitutiva della fede.

Il testo principale del Vaticano I, che tratta della Tradizione, è la Costituzione Dei Filius, promulgata nella III sessione del 24 aprile 1870 che, mentre riproduce quasi letteralmente il decreto Sacrosancta del Tridentino, s’intrattiene più diffusamente sulla Scrittura, per rispondere ai problemi e alla necessità di quel tempo. I Padri del Vaticano I chiedono fondamentalmente due cose al primigenio testo della Commissione dottrinale: riprodurre fedelmente il testo del Tridentino, e togliere quelle piccole aggiunte che erano state apportate. Così recita il testo definitivo:

 «Questa rivelazione soprannaturale, secondo la fede della chiesa universale, proclamata dal santo concilio di Trento, è contenuta “nei libri scritti e nella tradizione non scritta, che, ricevuta dagli apostoli dalla bocca dello stesso Cristo o trasmessa quasi di mano in mano dagli stessi apostoli, per ispirazione dello Spirito Santo, è giunta fino a noi”»2.

 Il padre francescano Umberto Betti, acuto conoscitore del Vaticano I, membro della Commissione dottrinale del Vaticano II e relatore sul cap. II della Dei Verbum, commentando questo testo della Dei Filius, riconosce che anche nelle precedenti formulazioni del testo, «mai è affiorato qualche dubbio sull’uguale importanza della parola di Dio scritta e non scritta». Pertanto «non è arbitrario pensare che se i Padri conciliari ne avessero avuto l’occasione avrebbero dato anche sulla Tradizione un insegnamento ufficiale conforme alla convinzione comune che ne avevano. Ed essa era appunto che la Tradizione è fonte di rivelazione nello stesso modo che lo è la Scrittura»3.

 4. Un “nuovo” concetto di Tradizione o una scelta pastorale del Vaticano II?

Perché però il Vaticano II preferisce non ritornare sulla dottrina delle due fonti della Rivelazione – magari anche migliorando il lemma “fonte” con uno nuovo più perfetto dal punto di vista teologico – e spiegare la Tradizione come trasmissione della Parola di Dio e dell’insegnamento degli Apostoli, tralasciando la definizione ormai matura e opportuna della insufficienza materiale delle Scritture? Chiaramente, qui si enuclea il fine del Concilio che è pastorale e una delle sue principali preoccupazioni: l’ecumenismo nel dialogo con gli esponenti della Riforma. Il fine del Concilio permea anche un documento così importante quale la Costituzione sulla Divina Rivelazione. La non-infallibilità (generale o generica) dei documenti del Vaticano II, che non significa affatto fallibilità ma unicamente non-definitività, perciò suscettibilità di verifica e di miglioramento, in vista di un eventuale pronunciamento ex cathedra, in questo caso, mentre spiega la ragione di una scelta e di una riduzione così importanti, diventa sprone per un’analisi attenta, in ragione soprattutto degli effetti deleteri di un’ermeneutica della discontinuità applicata alla Costituzione sulla Divina Rivelazione rispetto al patrimonio dottrinale della Chiesa su questo dato così centrale.

Perciò, non si può prescindere dalla scelta pastorale del Concilio, quale vero metro di confronto dottrinale.

Questa scelta pastorale di dire la dottrina della Tradizione attraversa l’intero Concilio e limita, allo stesso tempo, anche l’insegnamento propriamente dogmatico al tempo che si voleva incontrare, nulla vietando che il Magistero possa nuovamente pronunciare su questo tema in modo definitivo, chiarendo l’in sé della Tradizione della Chiesa, e riprendendo così quanto era già unanime. Non è in discussione l’opportuno approfondimento teologico del concetto di “Rivelazione”, ma la cogenza della Tradizione, oggi e domani, per la costituzione della fede cattolica.

Dalla Dei Verbum in poi c’è stata comunque una vera svolta teologica. La Tradizionenormalmente è presentata come sola trasmissione della Scrittura. È solo un caso il possente biblicismo impostosi a scapito della Parola di Dio letta nella fede della Chiesa e interpretata con un’esegesi veramente teologica e non solo o meramente storico-critica?

Si è verificata una vera inversione che puntualmente viene così sintetizzata da Mons. Gherardini:

 «…la disgregazione dell’identità cattolica, dovuta ad un’insostenibile reinterpretazione delle fonti cristiane, con conseguente alterazione dei dati storici, relativizzazione della parola di Dio orale e scritta  e una rilettura della Tradizione apostolica sullo sfondo dello storicismo hegeliano e del relativismo dottrinale4.

 È prevalso poi l’attributo “vivente” applicato alla Tradizione, inteso come progresso in sé, mutazione evolutiva, non nell’alveo dell’eodem sensu eademquae sententia, ma del nuovovoluto per se stesso e spesso in contraddizione con l’antico. Facendo ingresso la categoria “storia” nell’impianto della fede, la fede stessa, libera da un canone quale regola fidei proximaet norma normans fidei, ovvero la Tradizione, è stata soggetta ad ogni divenire. Anche al divenire della fede. Quell’adattamento al mondo era possibile perché la fede poteva diventare anche altro, poteva assumere anche un’altra forma da quella cattolica.

La Tradizione della Chiesa, invece, è un baluardo di difesa, un vero progresso, è il criterio della verità, la sua misura, perché radicata nella verità di Cristo. Di quell’unica verità è annunziatrice, di quella Verità che ininterrottamente ci raggiunge oggi, ed è la sola che può assicurare alla fede la sua consistenza e durata, ieri come oggi e nel futuro.

Non si tratta di fare un processo al Vaticano II, ma di vedere con realismo i punti di svolta rispetto alla dottrina definita sulla Tradizione (orale). Questo non per affossare il Concilio, ma per capirlo correttamente e collocarlo nella sua giusta dimensione: non un tutto o il tutto della fede, ma uno sforzo di dialogo pastorale che certamente promana dalla dottrina, che però talvolta risente, in larga misura, dello stesso sforzo pastorale ed ecumenico.

NOTE

1. DH 1501.

2. DH 3006.

3.  U. Betti, La Tradizione è una fonte di rivelazione?, in «Antonianum» 38 (1963) 41.

4. B. Gherardini, Quod et tradidi vobis. La Tradizione vita e giovinezza della Chiesa, Frigento 2010, p. 230.

 

Fonte: http://www.conciliovaticanosecondo.it/

Francescane dell’Immacolata. “La Mano Invisibile. Il destino dei Frati Coltelli”

Pubblichiamo questo bell’articolo di Antonio Margheriti Mastino tratto dal sito papalepapale.com, che prende spunto da un nostro post nel gruppo Facebook “Associazione SAN GREGORIO MAGNO”. Ringraziamo cordialmente.

 

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«La visitatrice delle Francescane dell’Immacolata pensa bene di dire “togliete questa qua” riferita ad una statua dell’Immacolata. Ebbene costei parla come Satana in persona».

 

di Antonio Margheriti Mastino

In giro ci stanno resoconti di esorcismi da ridere: molti sono inventati di sana pianta. Anche perché nessun esorcista serio metterebbe mai sulla pubblica piazza gli esorcismi; succede talora ne parlino con gente del ramo, discutano di alcuni particolari, e può succedere che qualche laico ascolti e poi ne riferisca. Succede anche che alcuni particolari, ritenuti ammonitori, con cautela siano fatti filtrare.

Per esempio conosco una persona molto introdotta nel mondo cattolico, anche a livello molto alto, e molto discreta, che collabora con grandi esorcisti, quelli veri dico, non i fenomeni da baraccone da talk-show, e non è un caso che i nomi di questi pochi veri grandi esorcisti sia sconosciuto: quando sponsorizzano se stessi, sono ormai innocui, nel senso: sono caduti nelle spire del maligno.

Come un noto esorcista del Nord Italia, che si ritiene un caposcuola, l’esorcista migliore di tutti: è caduto vittima del maligno (vi dico una cosa che pochissimi sanno), fa cose crudeli, perseguita i buoni esorcisti e cerca di distruggerli, fa malefici, si dice anche celebri rituali satanici ormai. Nemmeno il suo vescovo se ne è accorto, o se ne è accorto e fa finta di nulla: hanno paura, perché è pericoloso. Si è contornato di para-esorcisti che, portati a un esorcismo, appena l’entità fa “bah” scappano. E nessuno più libera nessun ossesso, anche perché gli ossessi maggiori sono proprio questi esorcisti. È pericoloso, dunque, questo “prestigioso” esorcista (ora mi arriveranno una valanga di mail: il suo nome non uscirà dalla mia bocca nemmeno sotto tortura).

Dicevo della persona che ho conosciuto. Che per questioni specifiche mi ha spiegato le dinamiche interne agli esorcismi principali. Soprattutto mi ha spiegato le “idiosincrasie” più marchiane del demone. Per esempio qualsiasi cosa si richiami all’Immacolata, la odia, e prima ancora che odio è paura. Dinanzi a qualsiasi oggetto sacro che si richiami all’Immacolata dice “togliete quella lì”, “allontanate quella cosa”. Quella lì…. Della quale tace anche il nome: non la chiama mai con i titoli che gli spettano. Nemmeno la insulta, come fa con Dio e con Cristo, col papa: non osa perché la teme, e poi anche perché Cristo gli proibisce di offendere la sua Santa Madre.

Passiamo a parlare di tutt’altro

Leggo sul gruppo facebook dell’Associazione San Gregorio Magno:

«La visitatrice delle Francescane dell’Immacolata pensa bene di dire “togliete questa qua” riferita ad una statua dell’Immacolata. Ebbene costei parla come Satana in persona».

La visitatrice è la solita suora progressista Fernanda Barbiero.

Per ovvie ragioni io ho incrociato alcuni dei congiurati, aizzati da certi gruppi vaticani che si sono tirati anche il papa dalla loro, riferendogli un sacco di balle. E ho avuto la sensazione nettissima che si era spenta la luce nei loro occhi. C’era odio, smania di vendetta, di sfregiare. Erano diventati gli alfieri dell’anti-adorazione del divino. Non era più solo il loro Ordine nel mirino: ma quello che adorava.

Non mi sono meravigliato, perché tutto questo è sempre successo in ogni Ordine religioso, specie agli inizi: un’ala si stacca per orgoglio dal corpo e cerca di farlo precipitare, per vendetta. E lo portano davvero a un solo palmo dall’abisso. Il precipitare è spaventoso e inarrestabile, sembra non finire mai e in genere dura anni. Sino al limite estremo.

Poi dopo tanto strazio, tanto penare, qualcosa l’arresta d’improvviso, si resta come sospesi nell’aria. Sono attimi di meraviglia. E di pace finalmente. Viene la conta di chi è, nonostante tutto, rimasto fedele accettando la crocifissione per innocenza, inchinandosi alla maestà della preghiera, accogliendo la virtù della pazienza cristiana, bevendo fino in fondo al calice dell’amarezza nella solitudine desolata del Getzemani, mentre chi aveva tradito se n’era andato, chi era rimasto stava per rinnegare, chi non avrebbe rinnegato comunque si sarebbe nascosto e lì per lì s’era addormentato lasciando il Maestro solo, a pregare per sé e per tutti, a ingoiare il suo destino atroce, a versare lacrime, sudare sangue. Nello sconforto e nell’angoscia della catastrofe imminente che lo fa raggelare.

Ma qual è stata la fine di Lucifero? Colui che si era ribellato per orgoglio?

Quale era stata la fine di Giuda che per venalità e ambizione aveva tradito?

E infine: incontro a quale sorte sta andando il Maestro? In contro alla morte e alla morte di croce, certo. Ma anche incontro alla resurrezione, alla trasfigurazione, all’ascesa tra la gloria degli angeli verso il trono di Dio, finalmente assumendo egli stesso la sua divinità piena. Se il chicco di grano non muore… come darà pane?

Ecco, così. Dopo il precipitare giù lungo baratri di sventura una Mano Invisibile, che atterra e suscita, che affanna e che consola, appare al 90° minuto arresta d’improvviso questo precipitare dopo che è giunto al parossismo estremo, a un centimetro dallo schianto. Pace. Silenzio. Calma. Meraviglia. Siamo vivi! Cosa succede?

Un attimo dopo la Mano invisibile comincia a contare ad uno ad uno gli astanti e chiama ciascuno col nome che gli spetta. Fraticelli, fatevi avanti, dice la mano arrotando il ditino.

Tu sei Pietro? Qual è stata la sua sorte? Così è per te!

Tu sei Giovanni? Quale fu la sua sorte? Sarà così anche per te!

Tu sei Lucifero? Conosci la sua sorte? E’ la tua! Precipita giù maledetto!

E tu, tu? come ti chiami tu? Il nome di un monaco santissimo quello che hai! Non sei degno del suo nome! Tu hai tradito, venduto, ucciso il tuo stesso Maestro, tuo Padre e i tuoi fratelli, mentre ti facevi beffe di loro, ti sei irto con la menzogna e l’inganno a loro giudice e carnefice, tu che in ogni centimetro della tua carne porti il marchio della dissoluzione e di Sodoma e Gomorra. Il tuo nome è Giuda, l’Iscariota! Sai quale fu la sua sorte? Seguila! e che dalle tue viscere penzolanti fuoriescano i demoni che come vermi l’infestano e dal tuo retto goccioli via il seme di Satana che hai accolto. Che tu sia dannato per sempre!

E in quell’ennesimo istante tutti i traditori, i carnefici, i calunniatori saranno scaraventati negli abissi dalla  Mano Invisibile che li ghermirà in un sol mazzo. La stessa Mano Invisibile, poi, stringerà delicatamente nel suo pugno coloro che erano rimasti sospesi a testa in giù a un passo dall’abisso, ne capovolgerà la sorte e li lancerà verso il cielo dicendo: «La notte è finita, è già l’alba. La vostra umiltà vi ha salvati, benedetti da Dio! Crescete e moltiplicatevi!»

Intanto però, adesso, non è ancora il momento della Mano Invisibile, ancora tutto deve essere compiuto e consumato, i corrotti devono manifestare sino in fondo l’abominio che hanno dentro, i buoni devono patirne sino in fondo: il martirio non è finito, l’abisso è ancora a diversi palmi, il precipitare appare irrefrenabile, vorticoso, spaventoso, senza speranza. Non è giunto il momento di grazia. Ancora Lucifero ha le mani sciolte e questo è il suo gioco e il suo momento: può ancora farlo, per indurre in tentazione e alla dannazione quanti più frati e accoliti possibili. Dio dal suo tribunale osserva la scena, vede il cuore di ciascuno, giudica in silenzio.

È questa la storia, il presente e il futuro dei Francescani dell’Immacolata, frati e monache. Qualcuno faccia in qualche modo arrivare questo mio messaggio al prigioniero, incarcerato dai suoi carnefici intonacati che ne cercano la morte, ma soprattutto la disperazione: padre Stefano Manelli. Il quale, santo com’è, non dispererà: sa che la disperazione è assenza di Dio. E’ del demonio. Ed è anche il futuro dei suoi persecutori.

fonte: http://www.papalepapale.com/

Mons. Paprocki: Il tabernacolo al centro del Santuario

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Il Vescovo Thomas Paprocki della diocesi di Springfield in Illinois ha dato direttiva a tutti i parroci della sua diocesi di spostare i tabernacoli nelle loro chiese di nuovo al centro del santuario.

In una lettera pastorale “Ars celebrandi et adorandi” il vescovo Paprocki espone la ricca tradizione e gli insegnamenti della Chiesa in materia di celebrazione e venerazione per l’Eucaristia.

Mons. Paprocki racconta anche il movimento deplorevole negli ultimi decenni che ha visto il Santissimo Sacramento relegato a “cappelle laterali”, che a volte sono niente di più che ripostigli convertiti.

Dispone Mons. Paprocki:

“Mi riferisco a chiese e cappelle della nostra diocesi, in cui i tabernacoli che erano già al centro del santuario, ma sono stati spostati, devono essere restituiti al più presto possibile al centro del santuario in accordo con il progetto architettonico originale . Tabernacoli che non sono al centro del santuario o comunque non in uno spazio visibile, importante e nobile devono essere spostati al centro del santuario; tabernacoli che non sono al centro del santuario, ma sono in uno spazio visibile, importante e nobile possono rimanere. “

Mons. Paprocki ricorda anche ai fedeli che il segno corretto di rispetto per il nostro Signore nel Santissimo Sacramento è genuflettersi. Egli incoraggia anche la più frequente esposizione eucaristica e l’adorazione, così come le processioni eucaristiche pubbliche per le strade

Pio IX: «Combattiamo, figli miei, e non abbiamo timore di nulla. I nemici di Dio passano, la Chiesa resta»

Da un discorso del beato Pio IX tenuto nel gennaio 1873, durante la sua “prigionia” in Vaticano.

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«Combattiamo, combattiamo, figliuoli miei, e non abbiamo timore di niente. Ricordatevi che i nemici di Dio spariscono e la Chiesa resta.

Gesù Bambino fugge in Egitto per evitare la rabbia di Erode, ma poi è avvertito di notte per ritornare:defuncti sunt enim qui quaerebant animam pueri, son morti quelli che attentavano alla vita del bambino.

Oh quanti sono i persecutori della Chiesa che sono defunti! e dopo aver sfogato la loro rabbia, dopo aver decimato le anime dei fedeli che servivano a Dio, son morti. E la Chiesa? La Chiesa RIMANE.

Sì, sono morti ma Voi, Diletta sposa di Gesù Cristo, [il Santo Padre nel pronunciare queste parole si commosse in modo tale che le lacrime sgorgavano dai suoi occhi e stringendo insieme le mani in atto pietosissimo, per alquanti secondi apparve assorto in una profonda preghiera: un silenzio profondo nella sala era rotto solo da qualche singhiozzo… poi continuò], Voi, Chiesa formata da Dio, Voi rimanete e rimarrete. Ipsi peribunt, Tu autem permanebis.

E rimanete giovane, forte, costante a fronte delle persecuzioni che vi purgano, vi lavano da ogni macchia, vi rendono più forte e diventate sempre quella Chiesa che a giusto titolo si chiama MILITANTE per combattere costantemente sino alla morte.

Rimanete con l’insegnamento della Verità, rimanete con l’insegnamento della morale, rimanete con l’insegnamento dei sacramenti, rimanete in tanti modo, in tante guise: costoro peribunt sed Tu autem permanebis».

Pio IX

Benedetto XVI: la vera “fede adulta” secondo San Paolo

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“Paolo desidera che i cristiani abbiano una fede “matura”, una “fede adulta”. La parola “fede adulta” negli ultimi decenni è diventata uno slogan diffuso. Ma lo s’intende spesso nel senso dell’atteggiamento di chi non dà più ascolto alla Chiesa e ai suoi Pastori, ma sceglie autonomamente ciò che vuol credere e non credere – una fede “fai da te”, quindi. E lo si presenta come “coraggio” di esprimersi contro il Magistero della Chiesa. In realtà, tuttavia, non ci vuole per questo del coraggio, perché si può sempre essere sicuri del pubblico applauso. Coraggio ci vuole piuttosto per aderire alla fede della Chiesa, anche se questa contraddice lo “schema” del mondo contemporaneo. È questo non-conformismo della fede che Paolo chiama una “fede adulta”. È la fede che egli vuole. Qualifica invece come infantile il correre dietro ai venti e alle correnti del tempo. Così fa parte della fede adulta, ad esempio, impegnarsi per l’inviolabilità della vita umana fin dal primo momento, opponendosi con ciò radicalmente al principio della violenza, proprio anche nella difesa delle creature umane più inermi. Fa parte della fede adulta riconoscere il matrimonio tra un uomo e una donna per tutta la vita come ordinamento del Creatore, ristabilito nuovamente da Cristo. La fede adulta non si lascia trasportare qua e là da qualsiasi corrente. Essa s’oppone ai venti della moda. Sa che questi venti non sono il soffio dello Spirito Santo; sa che lo Spirito di Dio s’esprime e si manifesta nella comunione con Gesù Cristo”.

Benedetto XVI, 28 giugno 2009.

Sacerdos in aeternum: Mi spezzo ma non mi piego

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di don Alfredo Maria Morselli
Bravo don Morselli” – dirà qualche mio affezionato lettore, leggendo il titolo di questo articolo – “gli avranno impedito di celebrare in latino, oppure gli avranno imposto le chitarre, ma lui ha tenuto duro e ha proseguito imperterrito…”
 Ecco che vengono a galla i legami tra il tradizionalismo e l’estrema destra… questi sono tutti fascisti…” – dirà invece qualche lurker progressista, spiritualmente resuscitato dopo la rinuncia di Benedetto XVI, venuto qui a curiosare rosicando, tra una speranza e l’altra che Francesco abolisca il motu proprio
Niente di tutto questo, semplicemente non mi piego, anzi, non solo non mi piego, ma non cammino quasi più, a motivo di un’artrosi particolarmente fetente – come direbbero al sud – che non mi lascia un osso libero.
In questi ultimi due anni i medici mi hanno rivoltato come un calzino, esaminato in utroque iure, e si sono rassegnati a una terapia palliativa.
Circa due anni fa ho cominciato rinunciando alle genuflessioni, ma celebravo ancora in piedi: offrivo tra le lacrime la rinuncia alla più bella e santa tra le pur tutte sante e benedette rubriche, che difendono il povero fedele dal libidinoso ad libitum del prete: libidinoso talvolta di arrampicarsi sugli specchi di una verbosità vuota quanto ampia, pur di non dire un semplice “Il Signore sia con voi“… Ma torniamo alla mia rubrica preferita: immediatamente dopo la consacrazione, il sacerdote statim… genuflexus… adorat.
Il Signore mi stava chiedendo, impedendomelo fisicamente, di rinunciare a quella rubrica che segna l’aut aut tra due modi di concepire la liturgia. “Fedeli, ho obbligato Dio a scendere dal Cielo e a nascondersi nell’Ostia, adoriamolo subito… come indugiare…, perché aspettare…”
 Quanto mi costava questa rinuncia!
Poi, dopo le caviglie e le ginocchia, è venuta la zona lombo sacrale, e di lì, come raggi dal sole, dolori ovunque, affezionatissimi, talmente amici che non mi lasciano un istante.
È così ho cominciato a celebrare da seduto, con la mia fedele perpetua Argentina che mi spostava il messale, ed era l’unica che mi aiutava all’altare senza farmi male; e alla fine, il 4 ottobre, I sabato del Mese – lo stesso giorno 34 anni fa in cui partii per il seminario – ho celebrato l’ultima Messa a Stiatico, non permettendomi la salute di reggere ancora la parrocchia.
Mentre facevo il ringraziamento, mi sono immaginato un colloquio con Nostro Signore, un colloquio alla don Camillo; avendo mangiato io in vita troppi tortellini, non potrò mai elevarmi alla mistica vera. “Signore, come mi avete ridotto, io che saltavo i fossi per la lunga, come potrò servirvi adesso che non sarò più neanche parroco…”
Al che, si fa sentire un doloretto alla schiena, ben distinguibile dal background solito.  
“Perché, Signore, che cosa ho detto di male?” 
Non ti ricordi le parole che hai rivolto al papà di quella suora di clausura, Suor ****?”
Gli ho detto che sua figlia potrebbe essere più utile alla Chiesa di mille missionari, perché con la preghiera sarebbe arrivata dappertutto, mentre un missionario non può andare in più di un posto alla volta
E allora, tu prega e vedrai che farai più danni che se fossi solo a Stiatico
Danni al nemico, intendete, vero?
Nessuna risposta.
Allora ho proseguito: “Signore, ma perché questi dolori sono venuti proprio a me, non potevate farli venire a quei cinghiali – parole Vostre – che devastano la vostra vigna – che so, Enzo Bianchi, il Cardinale Kasper… siamo in così pochi noi tradizionalisti…”
Non avevo ancora finito di parlare che una terribile fitta mi fece vedere le stelle…
Ma Signore, dicevo per il loro bene spirituale, naturalmente, voglio che siano santi anche loro…”
Altra stoccata allucinante… “Signore, con Voi non vale, Voi scrutate cuore e reni, è una lotta impari” “Coraggio, don Alfredo, anche il Re David, che – non ti offendere – ti sta molto sopra, una volta si è lamentato con me, dicendomi che per poco non vacillavano i suoi passi al vedere l’empio ergersi come cedro…
“E cosa gli avete risposto?”
Leggi il breviario tutti i giorni e non lo sai…?”
Visto che sono molto sotto il Vostro caro Re David, non potreste supplire con una ripetizione, come per gli studenti rimandati?
Alfredo, non sai che, nelle complesse vicende umane, io vedo anche l’ultima puntata? 
Quando mi hanno crocifisso, chi dei presenti, a parte la nostra Madre (quando ha detto “nostra Madre”, il tono era diverso, dolce e solenne nello stesso tempo), chi poteva prevederne i frutti? 
E quando Longino mi colpì con disprezzo il Cuore, chi poteva prevederne l’esito? 
Vedi, il diavolo è come quel poveretto che ha cercato di rovinare la Pietà di Michelangelo; solo che, se sopportate i suoi colpi nella fede, anziché rovinarvi vi rende più belli; più picchia forte più scolpisce in voi la mia immagine: lui lo sa, ma il suo odio gli impedisce di trattenersi
A quel punto non mi sono trattenuto e l’ho sparata grossa: “Signore, volete forse dire che avete pronta la soluzione Luciani?
Mi aspettavo come minimo un infarto, ma niente: chiusura della comunicazione, nonostante ripetuti atti di contrizione.
E così, veramente con la coda tra le gambe, ho completato i preparativi per la triste partenza. Stamattina ho celebrato la prima Messa nella mia nuova destinazione, un santuarietto – dove sono solo ospite – attiguo alla casa di riposo che mi funge da base d’appoggio.
Non sono riuscito a celebrare sull’Altare, perché la predella era troppo piccola per la sedia; e così ho sistemato la tavola calda (cito Guareschi) davanti all’altare della Madonna del Rosario.
Dopo l’ultima sparata, giustamente, avevo perso la comunicazione con il piano di sopra.
Ho celebrato dunque sulla tavola, guardando però la Madonna.
Alla fine, dopo il Magnificat di ringraziamento, risento la voce della Madre santissima: “Don Alfredo, grazie: erano più di cinquant’anni che non sentivo più la Messa di sempre, e che quest’altare è rimasto inutilizzato; hai celebrato sulla tavola, ma è come se avessi celebrato al mio altare
Madre, avete detto Messa di sempre, allora Voi siete… dei nostri
Nella mia fantasia, mi sono immaginato che la cara Regina del Santissimo Rosario strizzasse l’occhio.
E così ho potuto concludere il ringraziamento: “Grazie, Madre Santa; ma sarà meglio che non lo dica a nessuno, se no Vi mandano il commissario
fonte: messainlatino.it