Posizione e importanza del tabernacolo nelle chiese

Perché il Santissimo non si trova più nel presbiterio? Perché nel presbiterio troneggia la sedia del celebrante? Alcune riflessioni al riguardo…

12115863_1202121606469338_2943368952449051772_n

Nell’attuale periodo storico, in più diocesi italiane (ma anche all’estero) si registra un dibattito sulla conservazione delle ostie consacrate, al termine del Sacrificio Eucaristico. Per una lunga fase temporale, le Sacre Specie sono state conservate in un tabernacolo posto in posizione preminente nel presbiterio. Prima, sopra l’altare maggiore, poi – quando l’altare è stato rivolto verso l’assemblea dei fedeli – sempre in un luogo centrale, poggiato su un’apposita mensola. In tempi recenti, un sempre più alto numero di persone si sta accorgendo che, specie nelle chiese di recente costruzione, è posto al centro del presbiterio esclusivamente l’altare, mentre il tabernacolo è messo da parte, posizionato altrove. In alcuni casi (es. parrocchia Santa Paola Romana, Roma-Balduina), a troneggiare è la sedia del presidente dell’assemblea (quasi una “cattedra”), mentre il tabernacolo è posto sopra una colonnina a destra, in posizione defilata e con scarso decoro (esiste poi, semi-nascosta, una cappella dell’adorazione).
In altre situazioni, il Santissimo non è conservato nel presbiterio, ma è collocato al di fuori, in un luogo diverso (cappella, altare laterale, struttura di tipo monumentale).

A questo punto, tra i fedeli, sono sorti molti interrogativi. Perché il Santissimo non si trova più nel presbiterio? Perché nel presbiterio troneggia la sedia del celebrante? Da varie voci, riportate dai media, deriva pure la seguente considerazione: al di là di ogni concezione “architettonica”, se non addirittura “utilitaristica”, dovrebbe essere semplice comprendere che è dalla dottrina (dall’insegnamento) che scaturisce l’edificio di culto, e non viceversa. Per cui a pari dottrina dovrebbe corrispondere pari edificio. Se oggi si notano delle considerevoli differenze tra gli edifici moderni e quelli passati non si può fare a meno – affermano alcuni – di considerare che “forse” è cambiata la dottrina.

A questi punti, si aggiungono poi dei nuovi quesiti: perché nelle chiese di recente costruzione si tende a togliere il Crocifisso? Oppure lo si pone a un lato dell’altare? O lo si sostituisce con immagini del Risorto? Su quanto abbiamo riportato esiste disorientamento, e non mancano criticità mal dissimulate. Per tale motivo ci siamo rivolti a uno storico della Chiesa rivolgendogli vari quesiti. Queste le risposte fornite dal prof. Guiducci.

***

Prof. Guiducci, partiamo dalla storia del tabernacolo…
Si. Certamente. Può essere utile ricordare, intanto, che il termine tabernacolo deriva dal latino tabernaculum. È diminutivo di taberna con significato di dimora. Non è quindi un ripostiglio, o un contenitore ove tenere da parte “qualcosa”.
Nella Traditio ebraica e cristiana manifesta il luogo della casa di Dio presso gli uomini. Infatti, nella Vulgata (san Girolamo), la parola tabernaculum fu utilizzata per tradurre l’espressione ebraica: מִשְׁכָּן mishkhan, che significa dimora.

Il tabernacolo aveva storicamente delle caratteristiche?
Sì. Molto importanti. Una prima caratteristica era la centralità del tabernacolo. Presso il popolo di Israele si trattava di un santuario che si poteva trasportare. Accoglieva l’Arca dell’Alleanza (in ebraico ארון הברית, ʾĀrôn habbərît). All’interno dell’Arca erano contenuti i dieci Comandamenti, la verga di Aronne fiorita, e la manna. Il tabernacolo veniva eretto nel deserto. Accompagnava gli israeliti nel loro esodo, dopo l’uscita dall’Egitto. Ne avevano cura i membri della tribù di Levi (Leviti). In seguito, con l’entrata nella Terra Promessa, fu sostituito dal Tempio (Gerusalemme).

Perché era centrale il Tabernacolo?
Perché richiamava alla Presenza di Dio. In pratica: il Signore non guarda dall’alto, come uno spettatore il suo popolo, ma lo accompagna. Ne condivide i vissuti.

Un po’ come succede con i discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35)…
Esattamente.

Oltre la centralità, esistevano altre caratteristiche del tabernacolo?
Sì. La sua disposizione grafico-spaziale, simboleggiava (schema geometrico) anche la creazione, la struttura del cosmo, la storia futura del popolo d’Israele fino all’età messianica, il tempo del “regno dei cieli”.

Il Cristianesimo ha ripreso il concetto di dimora…
Sì. Certo. Ovviamente in altri termini. La riflessione sulla reale Presenza di Dio nel pane consacrato pose un’esigenza: era necessario individuare un luogo di adorazione. Nei primi secoli, in genere, le Sacre Specie erano tutte consumate dai presenti durante la celebrazione eucaristica.
In seguito, le Chiese locali divennero territorialmente molto vaste. Dopo la Messa restavano ancora delle Specie Eucaristiche. Si decise, ovviamente, di tutelarle in ambienti adatti ad assicurare una protezione da profanazioni.
In seguito, intorno al XII secolo, cominciarono ad essere costruiti dei tabernacoli. Non vennero mai considerati dei contenitori, ma dei “troni” eucaristici. Cioè, dei punti centrali di tutto l’edificio di culto.
Tale dato è confermato anche da un fatto storico. Quando cominciò l’uso delle “Quarantore”, l’adorazione dei fedeli era in direzione del tabernacolo perché non esisteva ancora un’esposizione solenne (come avvenne, poi, in seguito).

Quindi, nel tabernacolo, Cristo-Eucaristia dimora…
Ovviamente il Signore Gesù è presente in ogni angolo dell’universo. È nel cuore di ogni persona. Però, certamente, nel tabernacolo esiste la Sua reale Presenza. Non la memoria, il ricordo, il segno, l’emblema, ma la Presenza.
Per tale motivo, tutte le chiese vennero edificate con un disegno che direttamente e indirettamente riconduceva alla centralità del tabernacolo. Cioè alla Presenza di Dio. È vero che per un lungo periodo fu possibile celebrare Messe negli altari laterali, ma ciò non mutò mai la centralità dell’altare maggiore e del tabernacolo…

Si può quindi parlare di uno strettissimo collegamento tra l’altare e il tabernacolo…
Sì. Certamente. L’altare richiama alla Passio Christi. E la tovaglia che vi si stende si collega alla Sacra Sindone.
Il tabernacolo riconduce al Christus risorto, trionfatore del peccato e della morte.
Ciò lo si comprende bene se si tiene conto che l’intero Evento Pasquale è costituito dalla Passio-Mors-Resurrectio del Signore Gesù.

Sul piano storico, sono avvenuti dei cambiamenti?
Sì. In talune comunità evangeliche si sono sviluppate delle prassi conseguenti ad alcuni enunciati dottrinali.

Quali?
Partendo dall’idea della “Cena”, alcuni evangelici hanno ritenuto che l’altare doveva essere curato secondo i normali criteri famigliari. Quando si cena si apparecchia la tavola. Quando si è terminato di mangiare, la tavola viene sparecchiata. Da qui la conseguenza: molti altari di comunità evangeliche rimangono spogli in assenza di riti.
C’è poi un secondo aspetto. In vari evangelici non viene riconosciuta la transustanziazione, cioè la trasformazione del pane e del vino in Corpo e Sangue di Cristo. Da qui la conseguenza: terminata la “Cena” non c’è bisogno di conservare il pane con il quale si comunicano i fedeli. Non c’è quindi tabernacolo.

La prassi che Lei ha ricordato ha riversato effetti anche nel mondo cattolico?
Lei comprende che i discorsi generalizzanti rimangono sempre deboli. Però, si può cautamente affermare che in molte chiese cattoliche l’altare maggiore, al di fuori della celebrazione eucaristica, tende a rimanere una struttura disadorna, simile più a una qualsiasi tavola famigliare che alla mensa ove viene celebrato il Sacrificio Eucaristico.

E con riferimento al tabernacolo?
Per secoli si è insistito giustamente su una esposizione velata. E anche in canti eucaristici torna questa linea. Attualmente, si ha l’impressione che emerga un linguaggio che accentua principalmente il concetto di custodia, di mera conservazione delle particole consacrate, di “riserva eucaristica”.

Ci sono delle conseguenze?
Beh, tenga conto che il fedele – quando entra in una chiesa moderna – sovente neanche si accorge dove sta il Santissimo Sacramento. E, nella migliore delle ipotesi, va alla ricerca del lumicino rosso che avverte della Presenza del Signore. Quando, poi, questi lumicini, sono tenui (o la chiesa non è illuminata), non è facile individuare il tabernacolo. A questo punto salta un percorso ascetico.

In che senso?
Vede, le nostre chiese – sul piano storico – sono sempre state costruite avendo alla base un itinerario spirituale. Il percorso è simboleggiato dalla navata centrale. Il rosone richiama la Perfezione, la Sapienza di Dio “Luce del mondo”, il battistero è il luogo dal quale inizia un itinerario ecclesiale, le immagini laterali (statue, dipinti, ecc.) richiamano il sostegno della Vergine Maria e dei santi, le finestre laterali sono simbolo dei Sacramenti (la Luce della Grazia), e – alla fine – si arriva all’altare maggiore, alla Presenza di Dio.

Ciò viene accompagnato anche da manifestazioni di fede…
Certo. La prima è quella di inginocchiarsi. Atto di adorazione.
La seconda è quella di segnarsi con l’acqua benedetta. Perché nella Chiesa e nella vita quotidiana tutto avviene “nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo”.
Inoltre, alcune esclamazioni richiamano la gioia dei pellegrini che si avvicinano al santuario di Dio finalmente raggiunto: “Sia lodato e ringraziato ogni momento il Santissimo e Divinissimo Sacramento”.

Prof. Guiducci, qualcuno ha scritto che le moderne chiese sono grandi, sono dispersive, sono fredde, non aiutano la concentrazione. Meglio una cappella dell’adorazione…
Vede, qui bisogna essere chiari. Intanto, molte chiese moderne (che ben conosco) sono inadatte alla loro funzione perché “brutte”, incapaci di comunicare la sacralità del luogo. Alcune sembrano casermoni. Altre rimangono vicine a dettami estetici poco liturgici. Altre potrebbero tranquillamente ospitare un incontro di boxe, in considerazione del disegno geometrico…
Ora, noi stiamo parlando di chiese cattoliche. Non di aule assembleari. Non di ambienti per manifestazioni culturali.
Allora, se parliamo di chiese, dobbiamo tornare al perché storico della chiesa. La chiesa è la Casa di Dio, ove i fedeli adorano, lodano, ringraziano e invocano singolarmente e comunitariamente il Signore Risorto, Dio della Vita e della Storia.
La conclusione è semplice. Se la chiesa è la Casa di Dio, allora è tutta la struttura che è al servizio dell’adorazione divina e non l’incontrario. Non è la liturgia che in qualche modo si deve adeguare all’astrattismo di alcuni architetti, ma è la creatività umana che deve essere capace di ricondurre sempre a un punto centrale. Ove è collocato l’altare del Sacrificio e il tabernacolo con il Cristo Risorto.

Prof. Guiducci, alcuni fedeli comunicano che nelle loro chiese si vanno togliendo i Crocifissi, sostituendoli con immagini di Gesù Risorto. La spiritualità della Croce sta mutando?
C’è qui un aspetto che trae origine, probabilmente , da aspetti (non ben compresi) della spiritualità ortodossa.

In che senso?
Nella spiritualità della Chiesa Latina ha progressivamente trovato spazio una contemplazione del Christus patiens, grazie anche alla predicazione dei Francescani e a quella di altri Ordini.
Secondo alcuni, questo insistere sui Dolori di Gesù, sull’agonìa, ha favorito degli itinerari di santificazione segnati fortemente da sofferenze personali, da discipline, dall’insistenza sulla corruzione della natura umana, da pessimismo con riferimento all’uomo redento, da ambienti tetri, da decorazioni macabre (con ossa umane), da mancanza di gioia, di letizia interiore…
Nella Chiesa d’Oriente, ha prevalso nel tempo una visione spirituale più legata alla divinizzazione originaria della natura umana, alla partecipazione di quest’ultima alla vita trinitaria, da cui deriva il suo carattere “dialogale” con il cielo…
A questo punto, qualcuno – forse – ha ritenuto utile una minore esposizione di Crocifissi e una migliore ostensione del Gesù Risorto.
La conseguenza, in alcune chiese, è stata evidente. Dall’altare è stato tolto il Crocifisso. In alcuni casi, l’immagine dell’Uomo dei dolori è stata collocata a un lato dell’altare, creando una situazione che lascia un po’ perplessi.
In altre situazioni, il Crocifisso è stato tolto del tutto, e si fatica un poco a ritrovarlo (in alto… in qualche parete… sotto l’altare…appoggiato a una colonna…).

Una situazione che disorienta…
Sì. È un qualcosa che genera confusione. Che rende perplessi. Per vari motivi. Esiste un rapporto inscindibile tra il Crocifisso e l’altare. Non sono realtà diverse. Che si possono separare. Sono un’unica realtà. Su “quell’altare” è posta la Croce. Su “quell’altare” Cristo si immola. Su “quell’altare” è mostrato ai fedeli il Corpo e il Sangue del Crocifisso. Tutto proviene da “quella” Croce.

Questo è un dato-chiave…
Sì, è fondamentale. Perché la Redenzione è passata attraverso la Croce. Certo, non si è fermata al Venerdì Santo. Ma ha comunque affrontato l’Ora profetizzata nei secoli, e ricordata dallo stesso Gesù ai suoi discepoli.

Quindi non esiste “squilibrio” nell’insegnamento cattolico…
Non c’è alcun squilibrio perché l’Evento Pasquale include la Sofferenza del Figlio di Dio, l’Oblazione totale, la Deposizione, la Risurrezione. A questo punto, insistere sulla “tristezza” permanente nella Chiesa è un fatto debole per un motivo…

Quale?
Perché è proprio guardando al tabernacolo che ci si rende conto di essere in presenza del Risorto.
In tal senso, tutto il Mistero Pasquale è segnato da un percorso che si conclude con un Evento di vittoria: l’altare (Passio), la tovaglia dell’altare (deposizione), il tabernacolo (Cristo trionfante).
Evidentemente, la vittoria del Signore Gesù si colloca nel grande Mistero della nostra Redenzione. Quindi, la gioia cristiana è una letizia interiore. Nasce dalla consapevolezza che siamo dei redenti. Delle persone nuove in Cristo.

Possiamo trarre qualche conclusione?
Non è semplice. Comunque si può affermare, da una parte, che il fedele deve rimanere attento alle indicazioni che riceve dall’autorità ecclesiastica. Dall’altra, si può forse accennare al fatto che in taluni luoghi di culto si osserva una minore attenzione alla Presenza reale di Gesù-Eucaristia.
Lo si denota in tante piccole situazioni. Osservando, ad esempio, alcune celebrazioni dell’Eucaristia emergono, in alcuni casi, realtà deboli. Ad esempio: rito della Consacrazione divenuto “celere” perché l’omelia è andata per le lunghe, o una genuflessione (gesto di adorazione) affrettata, o un distribuire l’ostia consacrata con un comportamento poco liturgico.
Altri esempi: persone che entrano in chiesa senza inginocchiarsi (tanto non c’è il Santissimo), senza fare il segno della croce, parlando tra loro stile salotto. Si potrebbe continuare ma si lascerebbe in tal modo il sentiero della cronaca bianca.
È meglio, quindi, evidenziare solo un’idea. Inginocchiarsi davanti alla sedia del celebrante non ha senso. Ricollocare al centro dell’abside il tabernacolo, e spostare ai lati le sedie dei celebranti, sarebbe meglio. Si tornerebbe a contemplare Gesù Vivo che nell’Ultima Cena dona Sé stesso.

fonte: CarloMafera.wordpress.com

IV Pellegrinaggio Summorum Pontificum con mons. Negri e mons. Laise

di Federico Catani

IMG_9581

Tutto è pronto per il IV Pellegrinaggio a Roma del Popolo Summorum Pontificum, ovvero di tutti quei fedeli che sono legati alla liturgia tradizionale della Chiesa, in vigore sino alla riforma del Messale Romano avvenuta nel 1969 e pienamente “riabilitata” da Papa Benedetto XVI con il motu proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007. A chi pensasse che la questione riguardi un manipolo di anziani nostalgici, di nobili decaduti con manie estetizzanti o di estremisti “catto-nazisti”, bisogna subito fugare ogni dubbio: il “popolo Summorum Pontficum” è fatto da cattolici normali, provenienti da tutto il mondo, da uomini, donne, famiglie e giovani – tanti giovani, perché la cosiddetta “messa in latino” riscuote molto successo tra le nuove generazioni – che vivono in questo mondo e nella Chiesa guidata da Papa Francesco. E che, come tanti cattolici appartenenti a gruppi e movimenti ecclesiali, decidono, una volta l’anno, di andare a pregare sulla tomba dell’apostolo Pietro.
Dal 22 al 25 ottobre la Città Eterna vedrà tanta gente riunirsi attorno alla stessa liturgia dei nostri padri, dei nostri nonni e di tutte quelle immense schiere di santi che ad essa hanno attinto per santificarsi e costruire un mondo fondato sui principi del Vangelo. Gli organizzatori hanno annunciato che le preghiere dei partecipanti quest’anno si eleveranno in particolare verso la Santa Famiglia di Nazareth per il successo del Sinodo sulla famiglia, che si chiuderà proprio in concomitanza con il pellegrinaggio.
In questa edizione è da segnalare in particolare la presenza dell’arcivescovo di Ferrara-Comacchio mons. Luigi Negri, uno dei vescovi attualmente più combattivi nel difendere la verità cattolica integrale, anche sulla famiglia, tanto messa in discussione da certi pastori d’anime. Mons. Negri interverrà in quello che è l’evento centrale di tutto il pellegrinaggio: infatti terrà l’omelia durante la Messa pontificale – celebrata dal vescovo emerito di San Luis (Argentina) Juan Rodolfo Laise – sabato 24 nella Basilica di San Pietro. Mons. Laise è un altro vescovo coraggioso. Nel 1996, la Conferenza Episcopale argentina decise di introdurre la prassi della Comunione in mano. Mons. Laise si oppose e volle mantenere la prassi tradizionale nella sua diocesi. Accusato di rompere la collegialità episcopale, in realtà ottenne da Roma la conferma che la sua fedeltà alla norma vigente (ovvero la comunione in ginocchio e sulla lingua) prevaleva sull’allineamento alle direttive dei suoi confratelli vescovi. A tal proposito, nel pomeriggio del 24 ottobre presso l’auditorium dell’Augustinianum, il Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum (la sezione italiana del pellegrinaggio), presenterà il suo nuovo libro sulla Comunione in mano, in uscita presso le edizioni Cantagalli.
A prestare servizio liturgico in gran parte delle funzioni sarà la Schola Sainte Cécile, coro dei fedeli della parrocchia Saint-Eugène di Parigi, dove dal 1985 la Messa tradizionale si è affiancata a quella moderna. In un’intervista a Paix Liturgique il direttore del coro Henri Adam de Villiers ha detto che nelle celebrazioni darà un «posto d’onore al canto gregoriano». Per quanto riguarda la polifonia, invece, si approfitterà delle tribune presenti nelle chiese romane «per cantare a più cori, secondo l’antica tecnica detta “dei cori spezzati”. I coristi sono disposti in varie tribune e si rispondono, a volte in modo molto dinamico, dando vita a degli effetti acustici meravigliosi. Questo uso dei “cori spezzati” era molto diffuso a Roma dal Rinascimento alla fine del XVIII secolo». «Noi abbiamo la gioia di riproporre le opere del grande repertorio occidentale di musica sacra nel quadro esatto per il quale esse vennero composte, in chiesa e per la liturgia, mentre in genere esse non vengono quasi più eseguite che in occasione di concerti – ha dichiarato -. Riportate al loro scopo originario, la gloria di Dio, esse riacquistano tutto il loro significato, che invece viene loro tragicamente amputato in occasione delle esecuzioni in quadri lontani da quello liturgico». E sulla liturgia tradizionale ha aggiunto che «è esigente: la strada da seguire è piuttosto precisa e la soggettività personale passa senz’altro in secondo piano, perché è necessario rispettare i dettami di una tradizione multisecolare di musica sacra. La liturgia tradizionale è esigente, ma alla fine diventa essa stessa una scuola di eccellenza che ci trascina verso l’alto e che ci fa dare il meglio di noi stessi. Ecco perché questa liturgia ha generato nel corso della Storia tante meraviglie in campo artistico, nella musica, certamente, ma anche negli altri campi e in particolare in architettura con le bellissime testimonianze di cui la città di Roma è così ricca». D’altra parte, ha concluso il direttore, «Dio è il Sommo Bene e la Bellezza Somma e la liturgia non è che un assaggio della sua gloria, un’epifania, il Cielo sulla terra! Di fronte a questo, non si può dunque offrire la mediocrità».
Il programma dettagliato dell’intero pellegrinaggio è consultabile sul sito www.unacumpapanostro.com. In sintesi, si inizierà giovedì 22 nella Chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini (che è la parrocchia romana dedicata esclusivamente al rito cattolico tradizionale), con i Vespri pontificali celebrati da Mons. Laise. Il giorno seguente, al mattino, presso la Chiesa Nuova (Santa Maria in Vallicella) si reciterà il Rosario e si pregherà San Filippo Neri. Poi, all’Angelicum, vi sarà un incontro per sacerdoti sull’attualità del tomismo nella formazione sacerdotale, con il padre domenicano Serge-Marie Bonino. Nel pomeriggio, invece, al Palatino si terrà la Via Crucis. A seguire, nella chiesa di Santa Maria in Campitelli, la Messa pontificale celebrata da Monsignor Guido Pozzo, arcivescovo titolare di Bagnoregio, segretario della Commissione Ecclesia Dei. Il 24 ottobre, al mattino, nella basilica di San Lorenzo in Damaso vi sarà l’Adorazione eucaristica presieduta da don Marino Neri, segretario dell’Amicizia Sacerdotale Summorum Pontificum. A seguire, la Processione solenne verso la Basilica di San Pietro, dove, come già detto, vi sarà la Messa pontificale. Domenica 25, infine, nella Chiesa della Santissima Trinità dei Pellegrini, Messa celebrata dal benedettino dom Jean Pateau, abate di Fontgombault. Nell’occasione, la musica sarà affidata al coro Cantus Magnus.
Tra le realtà che prenderanno parte al pellegrinaggio vi saranno la Federazione Internazionale Una Voce e l’associazione Madonna di Fatima, che porterà la statua della Beata Vergine apparsa ai tre pastorelli quasi cento anni fa. Gesto importante, perché i buoni cattolici confidano in quella fatidica promessa: “Alla fine, il mio Cuore immacolato trionferà”.
(La Croce quotidiano, 20 ottobre 2015)

La liturgia è la Tradizione stessa nel suo più alto grado di potenza e di solennità

11889698_1490981047861240_4769728474844391988_n

di Dom Gérard Calvet O.S.B.

Sapete di quali tesori siete depositari? Alla fine del secolo VI, nel momento in cui l’Impero romano in piena decadenza passa il testimone della cultura al mondo cristiano, la Chiesa è in possesso dei più bei gioielli del suo tesoro liturgico, tra i quali bisogna contare le preghiere del Messale e specialmente le ammirevoli collette che precedono la lettura dell’Epistola. Charles Péguy scopriva con stupore che c’è un santo per ogni giorno; dovete inoltre sapere che ogni giorno c’è una preghiera destinata a guidare i vostri passi sulla via stretta. Queste preghiere, cesellate da anni di fede da mani fini e sapienti, dovete saperle a memoria, studiarle e meditarle, perché vi si trova lo spirito incorrotto del cristianesimo contenuto sotto forma di massime scolpite nel bronzo, e non c’è niente di più adatto da mettere in pratica come le alte certezza dell’anima: queste preghiere sono regole di vita. Il nome di colletta è stato dato alla preghiera che introduce le letture della Messa e che ritroviamo a conclusione di tutte le ore canoniche, poiché era recitata davanti ai fedeli, riuniti all’inizio della Messa. La secreta (preghiera sulle offerte) e il postcommunio devono il loro nome al posto che occupano nel dramma del sacrificio eucaristico. La colletta, come il prefazio, era un tempo improvvisata dal celebrante, quando sant’Ambrogio e sant’Agostino — in un’estasi comune — alternavano per la prima volta ut fertur, i versetti del mirabile Te Deum. Poi lo Spirito santo fissò divinamente la giovane preghiera della Chiesa come l’età matura fissa i tratti dell’infanzia. In alcune raccolte di orazioni erano conservati i brani meglio riusciti, e vi si possono riconoscere le preghiere dovute a san Leone Magno grazie alla perfezione del ritmo e al rigore del pensiero: la regola salvò l’ispirazione fissandone l’eccellenza. Ai nostalgici della Chiesa delle origini, in preda al creativismo, messa da parte la loro incredibile pretesa, rispondiamo che si può essere bambini solo una volta nella vita. Per fortuna, oggi, grazie alla pietà delle generazioni passate che ci hanno trasmesso questi gioielli della nostra liturgia, se un giovane barbaro entrasse in una chiesa per ascoltare una Messa, sarebbe messo direttamente in comunicazione con il pensiero di un Padre della Chiesa del secolo IV. Secondo un’usanza molto antica, il celebrante invita la comunità al raccoglimento con l’avvertimento solenne del Dominus vobiscum. «Il Signore sia con voi!», dopo di che i fedeli rispondono: «E con il tuo spirito». Il Signore dev’essere con il sacerdote per renderlo degno di esprimere i voti della comunità. Dev’essere con i fedeli per renderli attenti alla preghiera. Il sacerdote prega allora ad alta voce, o canta, la colletta con un tono recitante nel quale solo due note sposano la forma letteraria propria delle orazioni del Messale che si chiama cursus. Parleremo più avanti di questa forma letteraria destinata a sottolineare lo svilupparsi del pensiero. Molto presto, senza dubbio sin dal secolo IV, si fecero delle raccolte di preghiere che costituiscono la ricchezza del nostro patrimonio liturgico. Alla fine del Messale troverete delle collette che si possono aggiungere, secondo i bisogni, alla preghiera del giorno. Sono le orazioni per casi particolari: per domandare la pioggia, per allontanare la tempesta, per difendersi dal demonio, per domandare la pazienza, la castità, nonché quella meravigliosa orazione per domandare la grazia del dono delle lacrime: pro petitione lacrymarum. «O Dio onnipotente e mitissimo, che hai fatto scaturire dalla roccia una fonte d’acqua viva per il popolo assetato, strappa dalla durezza del nostro cuore lacrime di compunzione: affinché possiamo piangere i nostri peccati e meritare, per la tua misericordia, la loro remissione». Verrà un giorno nel quale alla Sorbona saranno difese tesi di laurea sulla bellezza letteraria delle preghiere della Chiesa? Il Breviario, il Messale, il Processionale contengono una quantità di orazioni straordinarie per eleganza di stile, penetranti e profonde per pensiero. Le nostre collette sono tra le testimonianze più antiche della pietà della Chiesa primitiva; esse sono sopravvissute a lente trasformazioni della liturgia e risultano di considerevole interesse. Due caratteristiche meritano di essere sottolineate: la ricchezza dottrinale e il valore pedagogico. Ricchezza dottrinale Il campo della liturgia costituisce in sé un «luogo teologico» di una ricchezza inesauribile, una specie di rete di verità dottrinali sparse, non ordinate sistematicamente. Péguy diceva bene quando affermava che la liturgia è una «teologia distesa». Quando il canto dell’Exsultet, sgorgante di poesia, si eleva nella notte pasquale, il dogma della Redenzione illumina le menti di un bagliore proprio che non è altro se non lo splendore del vero: l’Exsultet, il Lauda Sion, il Dies Irae sono dogmi cantati che infondono direttamente nell’anima luce e amore. Dom Guéranger diceva che «la liturgia è la Tradizione stessa nel suo più alto grado di potenza e di solennità»; un’affermazione che all’epoca suscitò qualche stupore. I materiali che servono agli artigiani della teologia speculativa sono contenuti nella Preghiera della Chiesa, come quelli nelle cave di pietra che servono per la costruzione del Tempio: è in questo tesoro che attingono i teologi di tutti i tempi per illustrare e affermare il dogma. Padre Emmanuel André, abate di Notre-Dame de la Sainte-Espérance, trovava la dottrina della grazia nelle orazioni del Messale. Queste preghiere risentono delle lotte dottrinali del secolo IV, minacciato dall’eresia pelagiana; Pelagio minimizzava le conseguenze del peccato originale e ignorava la necessità della gratia sanans, ossia la grazia che guarisce. L’eresia pelagiana è una delle forme correnti di naturalismo che si ripresenta in ogni epoca. Padre Emmanuel non voleva contrapporre tesi a tesi; costruiva la sua teologia della grazia nel solco della preghiera della Chiesa. Le orazioni lo aiutavano a mettere in luce l’assoluta necessità della grazia divina nell’ordine della salvezza. È una perfetta spiegazione della lex orandi che stabilisce e fissa la lex credendi. Ricorderete che recentemente abbiamo ricevuto un esponente dei pentecostali: non abbiamo avuto difficoltà a provargli la novità inquietante di una preghiera che s’indirizza esclusivamente alla terza Persona, sottolineando il carattere trinitario delle nostre collette, che si elevano al Padre, mediante il Figlio, nello Spirito. La stessa orazione della festa di Pentecoste espone questo modo di preghiera: la sequenza della Messa — una specie di effusione libera che s’indirizza al solo Spirito santo — dev’essere considerata come una glossa del versetto alleluiatico; la colletta resta trinitaria. «Nihil inovetur nisi quod traditum est». Ecco ciò che insegnano le preghiere liturgiche. Ci istruiscono sulla Maestà di Dio, sull’abisso della nostra miseria, sul modo di comportarci davanti a Dio e di come indirizzare a Lui le nostre richieste per essere esauditi. Valore pedagogico La liturgia è anche — e soprattutto, come ideale — una norma di preghiera. Possiamo affermare che essa ci offre il più antico e il più onorato dei metodi di preghiera. A partire dal secolo XVI si è molto parlato di orazione e di metodi di orazione. Santa Teresa d’Avila dichiarava che avrebbe voluto stare sulla cima di una montagna per convincere, se fosse stato possibile, tutto l’universo dell’importanza dell’orazione. Ma la preghiera, a partire dal secolo XVI, è stata fortemente segnata dall’umanesimo del Rinascimento e l’orazione si è trovata sottomessa a investigazioni e vaneggiamenti umani. Era fatale che lo sviluppo della psicologia inclinasse gli spiriti a forgiare metodi d’orazione nei quali dominava l’aspetto analitico e discorsivo. Durante i primi secoli della Chiesa la preghiera non aveva cessato d’irrigare i terreni dove si coltivava la vita spirituale. Dunque, come pregavano gli antichi? Usavano dei metodi? Sembra evidente di no. L’orazione scaturiva spontaneamente dall’intimo grazie all’ufficio divino. Il fiume dei misteri liturgici alimentava le prime generazioni di cristiani, come i quattro fiumi del Paradiso, senza che dovessero inventare altri metodi di accesso al santuario della vita interiore. La liturgia è stata, nelle età della fede, la grande educatrice dei figli di Dio. Gli inni, i salmi, il canto gregoriano, l’ordine sacramentale versavano nelle anime la luce delle verità della fede e spingevano l’uomo a guardare verso Dio piuttosto che a sé stesso; a cantare le «mirabilia Dei», in dissolvenza, come gli scultori dei capitelli di Chartres si eclissavano davanti al loro soggetto. Grazie alla liturgia, il primato era dato alla vita teologale e contemplativa. Le collette acquisiscono a tale proposito un considerevole valore pedagogico. Considerate l’importanza delle parole dell’orazione. Talvolta un’invocazione maestosa ci mette di fronte all’onnipotenza divina — «Omnipotens sempiterne Deus…» —, altrove la Chiesa è nominata per prima: «Ecclesiam tuam, Deus…», oppure «Familiam tuam». L’orazione si colora allora di affettuosa tenerezza. In altre occasioni l’uso di un verbo forte mette in rilievo l’azione divina: «Fac, Domine…», «Presta, quaesumus Domine…». In seguito il corpo dell’orazione esprime l’oggetto della richiesta, la quale è indicata con poche parole che indicano gioia, cosicché l’oggetto principale di una festa si trova perfettamente riassunto nella sua colletta. Ecco per esempio l’orazione della Messa di mezzanotte: «O Dio, che hai illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo, concedi a noi, che sulla terra lo contempliamo nei suoi misteri, di partecipare alla sua gloria nel cielo». Con arte, la liturgia ci fa passare da una realtà creata alla sua analoga di livello superiore: dalla luce del Natale alla luce celeste, dal visibile all’invisibile. L’orazione della Messa dell’aurora invita a passare dal piano dell’essere al piano dell’agire; in poche parole ecco stabilito il fondamento della morale: «La luce che, per la fede, brilla nelle nostre anime, rifulga nelle nostre azioni» («In nostro resplendeat opere quod per fidem fulget in mente»). Così ogni festa ci fa domandare una grazia speciale con una dolcezza e una precisione che conduce l’anima direttamente al centro del mistero celebrato. Siamo illuminati su cosa domandare, sul come dobbiamo chiedere, sul perché è necessario interpellare. L’orazione dell’Immacolata Concezione sviluppa armoniosamente l’ordine delle quattro cause; quella della quarta domenica dopo Pasqua attira verso l’alto i nostri cuori con una soavità che solo il latino può rendere: «ut inter mundanas varietates ibi nostra fixa sint corda ubi vera sunt gaudia», «affinché nei cambiamenti di questo mondo i nostri cuori restino fissi là dove si trovano le vere gioie». Il latino delle orazioni ci fa pregare con tanto gusto ed esattezza, che la traduzione talvolta è impossibile. Come tradurre parole come: «ostia», «pietas» o «devotio»? A venti secoli di distanza, la parola calcata sul latino appare vuota della sua sostanza o ha cambiato significato. In latino hostia significava vittima di un sacrificio con spargimento di sangue e devotio consacrazione irrevocabile. La parola pietas, così sbiadita dall’uso continuo, avrebbe bisogno — onde non tradirne il vero significato — di una lunga perifrasi che le possa ridare la sua linfa antica e sacra. La pietas romana, virtù nazionale, carica di un senso carnale e religioso, significava sia l’attaccamento alla terra, la fedeltà, la gratitudine, sia il culto reso agli dèi, ai parenti, alla patria, e ancora alla famiglia, alla casa, ai penati. Si percepisce cosa la parola pietà, bagnata dall’acqua del battesimo, potesse significare per i primi cristiani. Alla tenerezza paterna di Dio l’anima illuminata dal Verbo rispondeva sicut naturaliter rifluendo verso il focolare beatificante della vita trinitaria. Alcuni tra voi si domanderanno come pregare con le orazioni del Messale. La prima condizione è di sapere leggere; scienza poco comune, contrariamente a quello che si crede, e che comporta due operazioni: scrutare e soppesare. Consiglio a chi tra voi vuole ispirarsi alla santa liturgia per alimentare la propria vita di preghiera, d’imitare il metodo dei cercatori d’oro. Il ciclo dell’anno liturgico è simile a un grande fiume carico di riti, canti e poemi. Vi si trovano anche brevi formule brillanti di un vivo splendore che si possono paragonare a pagliette d’oro. Leggere lentamente il proprio del Messale è un eccellente metodo di preghiera, setacciare per così dire giorno dopo giorno l’acqua di questo fiume e cogliere con cura ciò che risponde alle attese e al desiderio dell’anima. La colletta della domenica diventerà, sotto la guida della Chiesa, una gustosa meditazione e un’esortazione pratica per tutta la settimana. Potremo così portare, incise nella nostra mente, le formule delle preghiere preferite, arricchite da brillanti massime che illuminano la nostra strada. Ecco qualche esempio preso a caso: «Sic transeamus per bona temporalia, ut non amittamus aeterna» [1]. «Sacramentum vivendo teneant quod fide perceperunt» [2]. «Sine te nihil potest mortalis infirmitas» [3]. «Ad promissiones tuas, sine offensione curramus» [4]. «Da nobis fidei, spei et caritatis augmentum» [5]. «Discamus terrena despicere et amare caelestia» [6]. «Auctor ipse pietatis!…» [7]. In queste ultime parole — «Voi che siete l’autore stesso di ogni pietà» —, che arte di commuovere il cuore di Dio! C’è una grande dolcezza nel pregare con le stesse parole e accenti dei primi cristiani rinati dall’acqua battesimale, ascoltando le medesime letture, intonando uguali canti, attenti come loro alla misteriosa voce dello Spirito e della Sposa che dice: «Vieni, Signore Gesù!». Note: [1] «Affinché passiamo tra i beni temporali senza perdere quelli eterni» (colletta della terza domenica dopo Pentecoste). [2] «Concedi di conservare nella vita quel sacramento che ricevettero per la fede» (colletta del martedì di Pasqua). [3] «Senza di voi la debolezza della nostra natura mortale non può nulla» (colletta della I domenica dopo Pentecoste). [4] «Fai che corriamo senza ostacoli verso i beni da te promessi» (colletta della XII domenica dopo Pentecoste). [5] «Accresci in noi la fede, la speranza e la carità» (colletta della XIII domenica dopo Pentecoste). [6] «Impariamo a disprezzare le cose terrene e ad amare quelle del cielo» (postcommunio della Messa del Sacro Cuore). [7] «Voi che siete l’autore stesso di ogni pietà» (colletta della XXII domenica dopo Pentecoste). [Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), La santa liturgia, trad. it., Nova Millennium Romae, Roma 2011, pp. 59-70]