Benedetto XVI: Non è di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensì di una Chiesa più divina; solo allora essa sarà anche veramente umana.

Una compagnia in cammino. La Chiesa e il suo ininterrotto rinnovamento.*

Lo scontento verso la Chiesa

Non c’è bisogno di molta immaginazione per indovinare che la compagnia di cui qui voglio parlare è la Chiesa. Forse si è evitato di menzionare nel titolo il termine “Chiesa” solo perché esso provoca spontaneamente, nella maggior parte degli uomini di oggi, reazioni di difesa. Essi pensano: “di Chiesa abbiamo già sentito parlare fin troppo e per lo più non si è trattato di niente di piacevole”. La parola e la realtà della Chiesa sono cadute in discredito. E perciò anche una simile riforma permanente non sembra poter cambiare qualcosa. O forse il problema è solamente che finora non è stato scoperto il tipo di riforma che potrebbe fare della Chiesa una compagnia che valga davvero la pena di essere vissuta?

Ma chiediamoci innanzitutto: perché la Chiesa riesce sgradita a così tante persone, e addirittura anche a credenti, anche a persone che fino a ieri potevano essere annoverate tra le più fedeli o che, pur tra [336] sofferenze, lo sono in qualche modo ancora oggi? I motivi sono tra loro molto diversi, anzi opposti, a seconda delle posizioni.

Alcuni soffrono perché la Chiesa si è troppo adeguata ai parametri del mondo d’oggi; altri sono infastiditi perché ne resta ancora troppo estranea. Per la maggior parte della gente, la scontentezza nei confronti della Chiesa comincia col fatto che essa è un’istituzione come tante altre, e che come tale limita la mia libertà. La sete di libertà è la forma in cui oggi si esprimono il desiderio di liberazione e la percezione di non essere liberi, di essere alienati. L’invocazione di libertà aspira ad un’esistenza che non sia limitata da ciò che è già dato e che mi ostacola nel mio pieno sviluppo, presentandomi dal di fuori la strada che io dovrei percorrere. Ma dappertutto andiamo a sbattere contro barriere e blocchi stradali di questo genere, che ci fermano impedendoci di andare oltre. Gli sbarramenti che la Chiesa innalza si presentano quindi come doppiamente pesanti, poiché penetrano fin nella sfera più personale e più intima. Le norme di vita della Chiesa sono infatti ben di più che una specie di regole del traffico, affinché la convivenza umana eviti il più possibile gli scontri. Esse riguardano il mio cammino interiore, e mi dicono come devo comprendere e configurare la mia libertà. Esse esigono da me decisioni, che non si possono prendere senza il dolore della rinuncia. Non si vuole forse negarci i frutti più belli del giardino della vita? Non è forse vero che con la ristrettezza di così tanti comandi e divieti ci viene sbarrata la strada di un orizzonte aperto? E il pensiero, non viene forse ostacolato nella sua grandezza, come pure la volontà? Non deve forse la liberazione essere necessariamente l’uscita da una simile tutela spirituale? E l’unica vera riforma, non sarebbe forse quella di respingere tutto ciò? Ma allora cosa rimane ancora di questa compagnia?

L’amarezza contro la Chiesa ha però anche un motivo specifico. Infatti, in mezzo ad un mondo governato da dura disciplina e da inesorabili costrizioni, si leva verso la Chiesa ancora e sempre una silenziosa speranza: essa potrebbe rappresentare in tutto ciò come una piccola isola di vita migliore, una piccola oasi di libertà, in cui di tanto in tanto ci si può ritirare. L’ira contro la Chiesa o la delusione nei suoi confronti hanno perciò un carattere particolare, poiché silenziosamente ci si attende da essa di più che da altre istituzioni mondane. In essa si dovrebbe realizzare il sogno di un mondo migliore. Quanto meno, si vorrebbe assaporare in essa il gusto della libertà, dell’essere liberati: quell’uscir fuori dalla caverna, di cui parla Gregorio Magno ricollegandosi a Platone. [337]

Tuttavia, dal momento che la Chiesa nel suo aspetto concreto si è talmente allontanata da simili sogni, assumendo anch’essa il sapore di una istituzione e di tutto ciò che è umano, contro di essa sale una collera particolarmente amara. E questa collera non può venir meno, proprio poiché non si può estinguere quel sogno che ci aveva rivolti con speranza verso di essa. Siccome la Chiesa non è così come appare nei sogni, si cerca disperatamente di renderla come la si desidererebbe: un luogo in cui si possano esprimere tutte le libertà, uno spazio dove siano abbattuti i nostri limiti, dove si sperimenti quell’utopia che ci dovrà pur essere da qualche parte. Come nel campo dell’azione politica si vorrebbe finalmente costruire il mondo migliore, così si pensa, si dovrebbe finalmente (magari come prima tappa sulla via verso di esso) metter su anche la Chiesa migliore: una Chiesa di piena umanità, piena di senso fraterno, di generosa creatività, una dimora di riconciliazione di tutto e per tutti.

Riforma inutile

Ma in che modo dovrebbe accadere questo? Come può riuscire una simile riforma? Orbene; dobbiamo pur cominciare, si dice. Lo si dice spesso con l’ingenua presunzione dell’illuminato, il quale è convinto che le generazioni fino ad ora non abbiano ben compreso la questione, oppure che siano state troppo timorose e poco illuminate; noi però abbiamo ora finalmente nello stesso tempo sia il coraggio che l’intelligenza. Per quanta resistenza possano opporre i reazionari e i “fondamentalisti” a questa nobile impresa, essa deve venir posta in opera. Almeno c’è una ricetta oltremodo illuminante per il primo passo.

La Chiesa non è una democrazia. Da quanto appare, essa non ha ancora integrato nella sua costituzione interna quel patrimonio di diritti della libertà che l’Illuminismo ha elaborato e che da allora è stato riconosciuto come regola fondamentale delle formazioni sociali e politiche. Così sembra la cosa più normale del mondo recuperare una buona volta quanto era stato trascurato e cominciare coll’erigere questo patrimonio fondamentale di strutture di libertà. Il cammino conduce – come si suol dire – da una Chiesa paternalistica e distributrice di beni ad una Chiesa-comunità. Si dice che nessuno più dovrebbe rimanere passivo ricevitore dei doni che fanno esser cristiano. Tutti devono invece diventare attivi operatori della vita cristiana. La Chiesa non deve più venir calata giù dall’alto. No! Siamo noi che “facciamo” la Chiesa, e la facciamo sempre nuova. Così essa diverrà finalmente la “nostra” Chiesa, e noi i suoi attivi soggetti responsabili. L’aspetto passivo cede a quello attivo. La Chiesa sorge attraverso discussioni, accordi e decisioni. Nel dibatti[338]to emerge ciò che ancora oggi può esser richiesto, ciò che oggi può ancora essere riconosciuto da tutti come appartenente alla fede o come linea morale direttiva. Vengono coniate nuove “formule di fede” abbreviate.

In Germania, a un livello abbastanza elevato, è stato detto che anche la Liturgia non deve più corrispondere ad uno schema previo, già dato, ma deve sorgere invece sul posto, in una data situazione ad opera della comunità per cui viene celebrata. Anche essa non deve più essere niente di già precostituito, ma invece qualcosa di fatto da sé, qualcosa che sia espressione di se stessi. Su questa via si rivela essere un po’ di ostacolo, per lo più, la parola della Scrittura, alla quale però non si può rinunciare del tutto. Si deve allora affrontarla con molta libertà di scelta. Non sono molti però i testi che si lasciano impiegare in modo tale da adattarsi senza disturbi a quell’auto-realizzazione, alla quale la liturgia ora sembra essere destinata.

In quest’opera di riforma, in cui ora finalmente anche nella Chiesa l’“autogestione” deve sostituire l’esser guidati da altri, sorgono però presto delle domande. Chi ha qui propriamente il diritto di prendere le decisioni? Su quale base ciò avviene? Nella democrazia politica, a questa domanda si risponde con il sistema della rappresentanza: nelle elezioni i singoli scelgono i loro rappresentanti, i quali prendono le decisioni per loro. Questo incarico è limitato nel tempo; è circoscritto anche contenutisticamente in grandi linee dal sistema partitico, e comprende solo quegli ambiti dell’azione politica che dalla Costituzione sono assegnati alle entità statali rappresentative. Anche a questo proposito rimangono delle questioni: la minoranza deve chinarsi alla maggioranza, e questa minoranza può essere molto grande. Inoltre, non è sempre garantito che il rappresentante che ho eletto agisca e parli davvero nel senso da me desiderato, cosicché anche la maggioranza vittoriosa, osservando le cose più da vicino, ancora una [339] volta non può considerarsi affatto interamente come soggetto attivo dell’evento politico. Al contrario, essa deve accettare anche “decisioni prese da altri”, onde perlomeno non mettere in pericolo il sistema nella sua interezza.

Più importante per la nostra questione è però un problema generale.

Tutto quello che gli uomini fanno, può anche essere annullato da altri. Tutto ciò che proviene da un gusto umano può non piacere ad altri. Tutto ciò che una maggioranza decide può venire abrogato da un’altra maggioranza. Una Chiesa che riposi sulle decisioni di una maggioranza diventa una Chiesa puramente umana. Essa è ridotta al livello di ciò che è plausibile, di quanto è frutto della propria azione e delle proprie intuizioni ed opinioni. L’opinione sostituisce la fede. Ed effettivamente, nelle formule di fede coniate da sé che io conosco, il significato dell’espressione “credo” non va mai al di là del significato “noi pensiamo”. La Chiesa fatta da sé ha alla fine il sapore del “se stessi”, che agli altri “se stessi” non è mai gradito e ben presto rivela la propria piccolezza. Essa si è ritirata nell’ambito dell’empirico, e così si è dissolta anche come ideale sognato.

L’essenza della vera riforma

L’attivista, colui che vuole costruire tutto da sé, è il contrario di colui che ammira (l’“ammiratore”). Egli restringe l’ambito della propria ragione e perde così di vista il Mistero. Quanto più nella Chiesa si estende l’ambito delle cose decise da sé e fatte da sé, tanto più angusta essa diventa per noi tutti. In essa la dimensione grande, liberante, non è costituita da ciò che noi stessi facciamo, ma da quello che a noi tutti è donato. Quello che non proviene dal nostro volere e inventare, bensì è un precederci, un venire a noi di ciò che è inimmaginabile, di ciò che “è più grande del nostro cuore”. La reformatio, quella che è necessaria in ogni tempo, non consiste nel fatto che noi possiamo rimodellarci sempre di nuovo la “nostra” Chiesa come più ci piace, che noi possiamo inventarla, bensì nel fatto che noi spazziamo via sempre nuovamente le nostre proprie costruzioni di sostegno, in favore della luce purissima che viene dall’alto e che è nello stesso tempo l’irruzione della pura libertà.

Lasciatemi dire con un’immagine ciò che io intendo, un’immagine che ho trovato in Michelangelo, il quale riprende in questo da parte sua antiche concezioni della mistica e della filosofia cristiane. Con lo sguardo dell’artista, Michelangelo vedeva già nella pietra che gli stava davanti l’immagine-guida che nascostamente attendeva di venir liberata e messa in luce. Il compito dell’artista – secondo lui – era solo quello di toglier [340] via ciò che ancora ricopriva l’immagine. Michelangelo concepiva l’autentica azione artistica come un riportare alla luce, un rimettere in libertà, non come un fare.

La stessa idea applicata però all’ambito antropologico, si trovava già in San Bonaventura, il quale spiega il cammino attraverso cui l’uomo diviene autenticamente se stesso, prendendo lo spunto dal paragone con l’intagliatore di immagini, cioè con lo scultore. Lo scultore non fa qualcosa, dice il grande teologo francescano. La sua opera è invece una ablatio: essa consiste nell’eliminare, nel togliere via ciò che è inautentico. In questa maniera, attraverso la ablatio, emerge la nobilis forma, cioè la figura preziosa. Così anche l’uomo, affinché risplenda in lui l’immagine di Dio, deve soprattutto e prima di tutto accogliere quella purificazione, attraverso la quale lo scultore, cioè Dio, lo libera da tutte quelle scorie che oscurano l’aspetto autentico del suo essere, facendolo apparire solo come un blocco di pietra grossolano, mentre invece inabita in lui la forma divina.

Se la intendiamo giustamente, possiamo trovare in questa immagine anche il modello guida per la riforma ecclesiale. Certo, la Chiesa avrà sempre bisogno di nuove strutture umane di sostegno, per poter parlare e operare ad ogni epoca storica. Tali istituzioni ecclesiastiche, con le loro configurazioni giuridiche, lungi dall’essere qualcosa di cattivo, sono al contrario, in un certo grado, semplicemente necessarie e indispensabili. Ma esse invecchiano, rischiano di presentarsi come la cosa più essenziale, e distolgono così lo sguardo da quanto è veramente essenziale. Per questo esse devono sempre di nuovo venir portate via, come impalcature divenute superflue. Riforma è sempre nuovamente una ablatio: un toglier via, affinché divenga visibile la nobilis forma, il volto della Sposa e insieme con esso anche il volto dello Sposo stesso, il Signore vivente.

Una simile ablatio, una simile “teologia negativa”, è una via verso un traguardo del tutto positivo. Solo così il Divino penetra, e solo così sorge una congregatio, un’assemblea, un raduno, una purificazione, quella comunità pura a cui aneliamo: una comunità in cui un “io” non sta più contro un altro “io”, un “sé” contro un altro “sé”. Piuttosto quel do[341]narsi, quell’affidarsi con fiducia, che fa parte dell’amore, diventa il reciproco ricevere tutto il bene e tutto ciò che è puro. E così per ciascuno vale la parola del Padre generoso, il quale al figlio maggiore invidioso richiama alla memoria quanto costituisce il contenuto di ogni libertà e di ogni utopia realizzata: “Tutto ciò che è mio è tuo…” (Lc 15,31; cfr. Gv 17,1).

La vera riforma è dunque una ablatio, che come tale diviene congregatio. Cerchiamo di afferrare in modo un po’ più concreto quest’idea di fondo. In un primo approccio avevamo contrapposto all’attivista l’ammiratore, e ci eravamo espressi in favore di quest’ultimo. Ma che cosa esprime questa contrapposizione? L’attivista, colui che vuol sempre fare, pone la sua propria attività al di sopra di tutto. Ciò limita il suo orizzonte all’ambito del fattibile, di ciò che può diventare oggetto del suo fare. Propriamente parlando egli vede soltanto degli oggetti. Non è affatto in grado di percepire ciò che è più grande di lui, poiché ciò porrebbe un limite alla sua attività. Egli restringe il mondo a ciò che è empirico. L’uomo viene amputato. L’attivista si costruisce da solo una prigione, contro la quale poi egli stesso protesta ad alta voce.

Invece l’autentico stupore è un “No” alla limitazione dentro ciò che è empirico, dentro ciò che è solamente l’al di qua. Esso prepara l’uomo all’atto della fede, che gli spalanca d’innanzi l’orizzonte dell’Eterno, dell’Infinito. E solamente ciò che non ha limiti è sufficientemente ampio per la nostra natura, solamente l’illimitato è adeguato alla vocazione del nostro essere. Dove questo orizzonte scompare, ogni residuo di libertà diventa troppo piccolo e tutte le liberazioni, che di conseguenza possono venir proposte, sono un insipido surrogato, che non basta mai.

La prima, fondamentale ablatio, che è necessaria per la Chiesa, è sempre nuovamente l’atto della fede stessa. Quell’atto di fede che lacera le barriere del finito e apre così lo spazio per giungere sino allo sconfinato. La fede ci conduce “lontano, in terre sconfinate”, come dicono i Salmi.

Il moderno pensiero scientifico ci ha sempre più rinchiusi nel carcere del positivismo, condannandoci così al pragmatismo. Per merito suo si possono raggiungere molte cose; si può viaggiare fin sulla luna e ancora più lontano, nell’illimitatezza del cosmo. Tuttavia, nonostante questo, si rimane sempre allo stesso punto, perché la vera e propria frontiera, la frontiera del quantitativo e del fattibile, non viene oltrepassata. Albert Camus ha descritto l’assurdità di questa forma di libertà nella figura dell’imperatore Caligola: tutto è a sua disposizione, ma ogni cosa gli è troppo stretta. Nella sua folle bramosia di avere sempre di più, e cose sempre più grandi, egli grida: Voglio avere la luna, datemi la luna! [342]

 Ora, nel frattempo, è divenuto per noi possibile avere in qualche modo anche la luna. Ma finché non si apre la vera e propria frontiera, la frontiera fra terra e cielo, tra Dio e il mondo, anche la luna è solamente un ulteriore pezzetto di terra, e il raggiungerla non ci porta neanche di un passo più vicini alla libertà e alla pienezza che desideriamo.

La fondamentale liberazione che la Chiesa può darci è lo stare nell’orizzonte dell’Eterno, è l’uscir fuori dai limiti del nostro sapere e del nostro potere. La fede stessa, in tutta la sua grandezza e ampiezza, è perciò sempre nuovamente la riforma essenziale di cui noi abbiamo bisogno; a partire da essa noi dobbiamo sempre di nuovo mettere alla prova quelle istituzioni che nella Chiesa noi stessi abbiamo fatto. Ciò significa che la Chiesa deve essere il ponte della fede, e che essa – specialmente nella sua vita associazionistica intramondana – non può divenire fine a se stessa.

È diffusa oggi qua e là, anche in ambienti ecclesiastici elevati, l’idea che una persona sia tanto più cristiana quanto più è impegnata in attività ecclesiali. Si spinge ad una specie di terapia ecclesiastica dell’attività, del darsi da fare; a ciascuno si cerca di assegnare un comitato o, in ogni caso, almeno un qualche impegno all’interno della Chiesa. In un qualche modo, così si pensa, ci deve sempre essere un’attività ecclesiale, si deve parlare della Chiesa o si deve fare qualcosa per essa o in essa. Ma uno specchio che riflette solamente se stesso non è più uno specchio; una finestra che invece di consentire uno sguardo libero verso il lontano orizzonte, si frappone come uno schermo fra l’osservatore ed il mondo, ha perso il suo senso.

Può capitare che qualcuno eserciti ininterrottamente attività associazionistiche ecclesiali e tuttavia non sia affatto un cristiano. Può capitare invece che qualcun altro viva solo semplicemente della Parola e del Sacramento e pratichi l’amore che proviene dalla fede, senza essere mai comparso in comitati ecclesiastici, senza essersi mai occupato delle novità di politica ecclesiastica, senza aver fatto parte di sinodi e senza aver votato in essi, e tuttavia egli è un vero cristiano.

Non è di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensì di una Chiesa più divina; solo allora essa sarà anche veramente umana. E per questo tutto ciò che è fatto dall’uomo, all’interno della Chiesa, deve riconoscersi nel suo puro carattere di servizio e ritrarsi davanti a ciò che più conta e che è l’essenziale.

La libertà, che noi ci aspettiamo con ragione dalla Chiesa e nella Chiesa non si realizza per il fatto che noi introduciamo in essa il principio della maggioranza. Essa non dipende dal fatto che la maggioranza più ampia possibile prevalga sulla minoranza più esigua possibile. Essa dipende invece dal fatto che nessuno può imporre il suo proprio volere agli altri, bensì tutti si riconoscono legati alla parola e alla volontà dell’Unico, che è il nostro Signore e la nostra libertà. Nella Chiesa l’atmosfera diventa angusta e soffocante se i portatori del ministero dimenticano che il Sacramento non è una spar[343]tizione di potere, ma è invece espropriazione di me stesso in favore di Colui, nella persona del quale io devo parlare ed agire. Dove alla sempre maggiore responsabilità corrisponde la sempre maggiore autoespropriazione, lì nessuno è schiavo dell’altro; lì domina il Signore e perciò vale il principio che: «Il Signore è lo Spirito. Dove però c’è lo Spirito del Signore ivi c’è la libertà» (2Cor 3, 17).

Quanti più apparati noi costruiamo, siano anche i più moderni, tanto meno c’è spazio per lo Spirito, tanto meno c’è spazio per il Signore, e tanto meno c’è libertà. lo penso che noi dovremmo, sotto questo punto di vista, iniziare nella Chiesa a tutti i livelli un esame di coscienza senza riserve. A tutti i livelli questo esame di coscienza dovrebbe avere conseguenze assai concrete, e recare con sé una ablatio che lasci di nuovo trasparire il volto autentico della Chiesa. Esso potrebbe ridare a noi tutti il senso della libertà e del trovarsi a casa propria in maniera completamente nuova.

Morale, perdono ed espiazione: il centro personale della riforma

Guardiamo un attimo, prima di andare avanti, a quanto fin qui abbiamo messo in luce. Abbiamo parlato di un doppio “toglimento”, di un atto di liberazione, che è un duplice atto: di purificazione e di rinnovamento.Da prima il discorso ha toccato la fede, che infrange le mura del finito e libera lo sguardo verso le dimensioni dell’Eterno, e non solo lo sguardo, ma anche la strada. La fede è infatti non soltanto riconoscere ma operare; non soltanto una frattura nel muro, ma una mano che salva, che tira fuori dalla caverna. Da ciò abbiamo tratto la conseguenza, per le istituzioni, che l’essenziale ordinamento di fondo della Chiesa ha sì bisogno sempre di nuovi sviluppi concreti e di concrete configurazioni – affinché la sua vita si possa sviluppare in un tempo determinato – ma che però queste configurazioni non possono diventare la cosa essenziale. La Chiesa infatti non esiste allo scopo di tenerci occupati come una qualsiasi associazione intramondana e di conservarsi in vita essa stessa, ma esiste invece per divenire in noi tutti accesso alla vita eterna.

Ora dobbiamo compiere un passo ulteriore, e applicare tutto questo non più al livello generale e oggettivo quale era finora, ma all’ambito personale. Infatti anche qui, nella sfera personale, è necessario un “toglimento” che ci liberi. Sul piano personale non è sempre e senz’altro la “forma preziosa”, cioè l’immagine di Dio inscritta in noi, a balzare all’occhio.

Come prima cosa noi vediamo invece soltanto l’immagine di Adamo, l’immagine dell’uomo non del tutto distrutto, ma pur sempre decaduto. Vediamo le incrostazioni di polvere e sporcizia, che si sono [344] posate sopra l’immagine.Noi tutti abbiamo bisogno del vero Scultore, il quale toglie via ciò che deturpa l’immagine, abbiamo bisogno del perdono, che costituisce il nucleo di ogni vera riforma. Non è certamente un caso che nelle tre tappe decisive del formarsi della Chiesa, raccontate dai Vangeli, la remissione dei peccati giochi un ruolo essenziale. C’è in primo luogo la consegna delle chiavi a Pietro. La potestà a lui conferita di legare e sciogliere, di aprire e chiudere, di cui qui si parla, è, nel suo nucleo, incarico di lasciar entrare, di accogliere in casa, di perdonare (Mt 16,19). La stessa cosa si trova di nuovo nell’Ultima Cena, che inaugura la nuova comunità a partire dal corpo di Cristo e nel corpo di Cristo. Essa diviene possibile per il fatto che il  Signore versa il suo sangue “per i molti, in remissione dei peccati” (Mt 26,28). Infine il Risorto, nella sua prima apparizione agli Undici, fonda la comunione della sua pace nel fatto che egli dona loro la potestà di perdonare (Gv 20,19-23). La Chiesa non è una comunità di coloro che “non hanno bisogno del medico”, bensì una comunità di peccatori convertiti, che vivono della grazia del perdono, trasmettendola a loro volta ad altri.

Se leggiamo con attenzione il Nuovo Testamento, scopriamo che il perdono non ha in sé niente di magico; esso però non è nemmeno un far finta di dimenticare, non è “un fare come se non”, ma invece un processo di cambiamento del tutto reale, quale lo Scultore lo compie.

Il toglier via la colpa rimuove davvero qualcosa; l’avvento del perdono in noi si mostra nel sopraggiungere della penitenza. Il perdono è in tal senso un processo attivo e passivo: la potente parola creatrice di Dio su di noi opera il dolore del cambiamento e diventa così un attivo trasformarsi. Perdono e penitenza, grazia e propria personale conversione non sono in contraddizione, ma sono invece due facce dell’unico e medesimo evento. Questa fusione di attività e passività esprime la forma essenziale dell’esistenza umana. Infatti tutto il nostro creare comincia con l’essere creati, con il nostro partecipare all’attività creatrice di Dio.

Qui siamo giunti ad un punto veramente centrale: credo infatti che il nucleo della crisi spirituale del nostro tempo abbia le sue radici nell’oscurarsi della grazia del perdono. Notiamo però dapprima l’aspetto positivo del presente: la dimensione morale comincia nuovamente a poco a poco a venir tenuta in onore. Si riconosce, anzi è divenuto evidente, che ogni progresso tecnico è discutibile e ultimamente distruttivo, se ad esso non corrisponde una crescita morale. Si ricono[345]sce che non c’è riforma dell’uomo e dell’umanità senza un rinnovamento morale. Ma l’invocazione di moralità rimane alla fine senza energia, poiché i parametri si nascondono in una fitta nebbia di discussioni. In effetti l’uomo non può sopportare la pura e semplice morale, non può vivere di essa: essa diviene per lui una “legge”, che provoca il desiderio di contraddirla e genera il peccato.

Perciò là dove il perdono, il vero perdono pieno di efficacia, non viene riconosciuto o non vi si crede, la morale deve venir tratteggiata in modo tale che le condizioni del peccare per il singolo uomo non possano mai propriamente verificarsi. A grandi linee si può dire che l’odierna discussione morale tende a liberare gli uomini dalla colpa, facendo sì che non subentrino mai le condizioni della sua possibilità. Viene in mente la mordace frase di Pascal: Ecce patres, qui tollunt peccata mundi!. Ecco i padri, che tolgono i peccati del mondo. Secondo questi “moralisti”, non c’è semplicemente più alcuna colpa.

Naturalmente, tuttavia, questa maniera di liberare il mondo dalla colpa è troppo a buon mercato. Dentro di loro, gli uomini così liberati sanno assai bene che tutto questo non è vero, che il peccato c’è, che essi stessi sono peccatori e che deve pur esserci una maniera effettiva di superare il peccato. AncheGesù stesso non chiama infatti coloro che si sono già liberati da sé e che perciò – come essi ritengono – non hanno bisogno di Lui, ma chiama invece coloro che si sanno peccatori e che perciò hanno bisogno di Lui.

La morale conserva la sua serietà solamente se c’è il perdono, un perdono reale, efficace; altrimenti essa ricade nel puro e vuoto condizionale. Ma il vero perdono c’è solo se c’è il “prezzo d’acquisto”, l'”equivalente nello scambio”, se la colpa è stata espiata, se esiste l’espiazione. La circolarità che esiste tra «morale – perdono –espiazione» non può essere spezzata; se manca un elemento cade anche tutto il resto. Dall’indivisa esistenza di questo circolo dipende se per l’uomo c’è redenzione oppure no. Nella Torah, nei cinque libri di Mosé, questi tre elementi sono indivisibilmente annodati l’uno all’altro e non è possibile perciò da questo centro compatto appartenente al Canone dell’An[346]tico Testamento scorporare, alla maniera illuminista, una legge morale sempre valida, abbandonando tutto il resto alla storia passata. Questa modalità moralistica di attualizzazione dell’Antico Testamento finisce necessariamente in un fallimento; in questo punto preciso stava già l’errore di Pelagio, il quale ha oggi molti più seguaci di quanto non sembri a prima vista. Gesù ha invece adempiuto a tutta la Legge, non solamente ad una parte di essa e così l’ha rinnovata dalla base. Egli stesso, che ha patito espiando ogni colpa, è espiazione e perdono contemporaneamente, e perciò è anche l’unica sicura e sempre valida base della nostra morale.

Non si può disgiungere la morale dalla cristologia, poiché non la si può separare dall’espiazione e dal perdono. In Cristo tutta quanta la Legge è adempiuta, e quindi la morale è diventata una vera, adempibile esigenza rivolta nei nostri confronti. A partire dal nucleo della fede, si apre così sempre di nuovo la via del rinnovamento per il singolo, per la Chiesa nel suo insieme e per l’umanità.

La sofferenza, il martirio e la gioia della Redenzione

Su questo ci sarebbe ora molto da dire. Cercherò però solo, molto brevemente, di accennare come conclusione, ancora a ciò che nel nostro contesto mi appare come la cosa più importante. Il perdono e la sua realizzazione in me, attraverso la via della penitenza e della sequela, è in primo luogo il centro del tutto personale di ogni rinnovamento. Ma proprio perché il perdono concerne la persona nel suo nucleo più intimo, esso è in grado di raccogliere in unità, ed è anche il centro del rinnovamento della comunità.

Se infatti vengono tolte via da me la polvere e la sporcizia, che rendono irriconoscibile in me l’immagine di Dio, allora in tal modo io divengo davvero anche simile all’altro, il quale è anche lui immagine di Dio, e soprattutto io divengo simile a Cristo, che è l’immagine di Dio senza limite alcuno, il modello secondo il quale noi tutti siamo stati creati. Paolo esprime questo processo in termini assai drastici: «La vecchia immagine è passata, ecco ne è sorta una nuova; non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Si tratta di un processo di morte e di nascita. Io sono strappato al mio isolamento e sono accolto in una nuova comunità-soggetto; il mio “io” è inserito nell`io” di Cristo e così è unito a quello di tutti i miei fratelli. Solamente a partire da questa profondità di rinnovamento del singolo nasce la Chiesa, nasce la comunità che unisce e sostiene in vita e in morte. Solamente quando prendiamo in considerazione tutto ciò, vediamo la Chiesa nel suo giusto ordine di grandezza.

La Chiesa: essa non è soltanto il piccolo gruppo degli attivisti che si [347] trovano insieme in un certo luogo per dare avvio ad una vita comunitaria. La Chiesa non è nemmeno semplicemente la grande schiera di coloro che alla domenica si radunano insieme per celebrare l’Eucarestia. E infine, la Chiesa è anche di più che Papa, vescovi e preti, di coloro che sono investiti del ministero sacramentale. Tutti costoro che abbiamo nominato fanno parte della Chiesa, ma il raggio della compagnia in cui entriamo mediante la fede, va più in là, va persino al di là della morte.

Di essa fanno parte tutti i Santi, a partire da Abele e da Abramo e da tutti i testimoni della speranza di cui racconta l’Antico Testamento, passando attraverso Maria, la Madre del Signore, e i suoi apostoli, attraverso Thomas Becket e Tommaso Moro, per giungere fino a Massimiliano Kolbe, a Edith Stein, a Piergiorgio Frassati. Di essa fanno parte tutti gli sconosciuti e i non nominati, la cui fede nessuno conobbe tranne Dio; di essa fanno parte gli uomini di tutti i luoghi e tutti i tempi, il cui cuore si protende sperando e amando verso Cristo, “l’autore e perfezionatore della fede”, come lo chiama la lettera agli Ebrei (12,2).

Non sono le maggioranze occasionali che si formano qui o là nella Chiesa a decidere il suo e il nostro cammino. Essi, i Santi, sono la vera, determinante maggioranza secondo la quale noi ci orientiamo. Ad essa noi ci atteniamo! Essi traducono il divino nell’umano, l’eterno nel tempo. Essi sono i nostri maestri di umanità, che non ci abbandonano nemmeno nel dolore e nella solitudine, anzi anche nell’ora della morte camminano al nostro fianco.

Qui noi tocchiamo qualcosa di molto importante. Una visione del mondo che non può dare un senso anche al dolore e renderlo prezioso non serve a niente. Essa fallisce proprio là dove fa la sua comparsa la questione decisiva dell’esistenza. Coloro che sul dolore non hanno nient’altro da dire se non che si deve combatterlo, ci ingannano. Certamente bisogna fare di tutto per alleviare il dolore di tanti innocenti e per limitare la sofferenza. Ma una vita umana senza dolore non c’è, e chi non è capace di accettare il dolore, si sottrae a quelle purificazioni che sole ci fanno diventar maturi. Nella comunione con Cristo il dolore diventa pieno di significato, non solo per me stesso, come processo di ablatio, in cui Dio toglie da me le scorie che oscurano la sua immagine, ma anche al di là di me stesso esso è utile per il tutto, cosicché noi tutti possiamo dire con San Pao[348]lo: «Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo Corpo che è la Chiesa» (Col 1,24).

Thomas Becket, che insieme con l’Ammiratore e con Einstein ci ha guidato nelle riflessioni di questi giorni, ci incoraggia ancora ad un ultimo passo. La vita va più in là della nostra esistenza biologica. Dove non c’è più motivo per cui vale la pena morire, là anche la vita non val più la pena. Dove la fede ci ha aperto lo sguardo e ci ha reso il cuore più grande, ecco che qui acquista tutta la sua forza di illuminazione anche quest’altra frase di San Paolo: «Nessuno di noi vive per se stesso, e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore» (Rom 14,7-8).

Quanto più noi siamo radicati nella compagnia con Gesù Cristo e con tutti coloro che a Lui appartengono, tanto più la nostra vita sarà sostenuta da quella irradiante fiducia cui ancora una volta San Paolo ha dato espressione: «Di questo io sono certo: né morte né vita, né angeli né potestà, né presente né futuro, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù nostro Signore» (Rom 8,38-39).

Cari amici, da simile fede noi dobbiamo lasciarci riempire! Allora la Chiesa cresce come comunione nel cammino verso e dentro la vera vita, e allora essa si rinnova di giorno in giorno. Allora essa diventa la grande casa con tante dimore; allora la molteplicità dei doni dello Spirito può operare in essa. Allora noi vedremo «com’è buono e bello che i fratelli vivano insieme. E’ come rugiada dell’Ermon, che scende sul monte di Sion; là il Signore dona benedizione e vita in eterno» (-Sal 133,1-3) [349].

* Il presente intervento è stato tenuto dal Cardinal Joseph Ratzinger il 1° settembre 1990, in occasione del IX Meeting per l’amicizia fra i popoli a Rimini (25 agosto – 1° settembre 1990), sul tema «L’ammiratore. Einstein. Thomas Becket».

Benedetto XVI: Chi impara a credere impara ad inginocchiarsi

Atteggiamenti

Inginocchiarsi (Prostratio)

Vi sono ambienti, che esercitano notevole influenza, che cercano di convincerci che non bisogna inginocchiarsi. Dicono che questo gesto non si adatta alla nostra cultura (ma a quale, allora?); non è conveniente per l’uomo maturo, che va incontro a Dio stando diritto, o, quanto meno, non si addice all’uomo redento, che mediante Cristo è divenuto una persona libera e che, proprio per questo, non ha più bisogno di inginocchiarsi.

Se guardiamo alla storia possiamo osservare che Greci e Romani rifiutavano il gesto di inginocchiarsi. Di fronte agli dei faziosi e divisi che venivano presentati dal mito, questo atteggiamento era senz’altro giustificato: era troppo chiaro che questi dei non erano Dio, anche se si dipendeva dalla loro lunatica potenza e per quanto possibile ci si doveva comunque procacciare il loro favore. Si diceva che inginocchiarsi era cosa indegna di un uomo libero, non in linea con la cultura della Grecia; era una posizione che si confaceva piuttosto ai barbari. Plutarco e Teofrasto definiscono l’atto di inginocchiarsi come un’espressione di superstizione; Aristotele ne parla come di un atteggiamento barbarico (Retorica, 1361 a 36). Agostino gli dà per un certo verso ragione: i falsi dei non sarebbero infatti altro che maschere di demoni, che sottomettono l’uomo all’adorazione del denaro e del proprio egoismo, che in questo modo li avrebbero resi «servili» e superstiziosi. L’umiltà di Cristo e il suo amore che è giunto sino alla croce, ci hanno liberato – continua Agostino – da queste potenze ed è davanti a questa umiltà che noi ci inginocchiamo.

In effetti, l’atto di inginocchiarsi proprio dei cristiani non si pone come una forma di inculturazione in costumi[181] preesistenti, ma, al contrario, è espressione della cultura cristiana che trasforma la cultura esistente a partire da una nuova e più profonda conoscenza ed esperienza di Dio.

L’atto di inginocchiarsi non proviene da una cultura qualunque, ma dalla Bibbia e dalla sua esperienza di Dio.L’importanza centrale che l’inginocchiarsi ha nella Bibbia la si può desumere dal fatto che solo nel Nuovo Testamento la parolaproskynein compare 59 volte, di cui 24 nell’Apocalisse, il libro della liturgia celeste, che viene presentato alla Chiesa come modello e criterio per la sua liturgia.

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Osservando più attentamente possiamo distinguere tre atteggiamenti strettamente imparentati tra di loro. Il primo di essi è la prostratio: il distendersi fino a terra davanti alla predominante potenza di Dio; soprattutto nel Nuovo Testamento c’è, poi, il cadere ai piedi e, infine, il mettersi in ginocchio. I tre atteggiamenti non sono sempre facili da distinguere, anche sul piano linguistico. Essi possono legarsi tra di loro, sovrapporsi l’uno all’altro.

Per ragioni di brevità vorrei citare, a proposito della prostratio, due testi, uno tratto dall’Antico Testamento, l’altro dal Nuovo.

Quello tratto dall’Antico Testamento è la teofania a Giosuè prima della conquista di Gerico, che dallo scrittore biblico è posta in stretto parallelo con la teofania a Mosè presso il roveto ardente. Giosuè vede «il capo dell’esercito del Signore» e, dopo aver riconosciuto la sua identità, si getta a terra davanti a lui. In quel momento ode le parole che, in precedenza, erano già state rivolte a Mosè: «Togli i calzari dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è santo» (Gs 5,14s). Nella figura misteriosa del «capo dell’esercito del Signore» il Dio nascosto parla a Giosuè e davanti a Lui questi si getta a terra. È bella l’in[182]terpretazione di questo testo data da Origene: «C’è un altro capo delle potenze del Signore oltre al nostro Signore Gesù Cristo?». Giosuè adora dunque Colui che doveva venire, il Cristo veniente.

Per quanto riguarda, invece il Nuovo Testamento, a cominciare dai Padri è divenuta particolarmente importante la preghiera di Gesù al monte degli Ulivi. Secondo Matteo (26,39) e Marco (14,35) Gesù si prostra a terra, anzi, cade a terra (Mt); Luca, invece, che in tutta la sua opera – Vangelo e Atti degli Apostoli – è in maniera particolare il teologo del pregare in ginocchio, ci racconta che Gesù pregava in ginocchio.

Questa preghiera, come preghiera introduttiva alla Passione, è esemplare, sia per quanto riguarda il gesto che per i suoi contenuti. I gesti: Gesù fa sua la caduta dell’uomo, si lascia cadere nella sua caducità, prega il Padre dal più profondo abisso della solitudine e del bisogno umani. Ripone la sua volontà nella volontà del Padre: Non la mia volontà sia fatta, ma la Tua. Ripone la volontà umana nella volontà divina. Fa sua ogni negazione della volontà dell’uomo e la soffre con il suo dolore; proprio l’uniformare la volontà umana alla volontà divina è il cuore stesso della redenzione.

Difatti la caduta dell’uomo si poggia sulla contraddizione delle volontà, sulla contrapposizione della volontà umana alla volontà divina, che il tentatore dell’uomo fa ingannevolmente passare come condizione della sua libertà. Solo la volontà autonoma, che non si sottomette ad alcuna altra volontà, sarebbe, secondo lui, libertà. Non la mia volontà, ma la tua – è questa la parola della verità, poiché la volontà di Dio non è il contrario della nostra libertà, ma il suo fondamento e la sua condizione di possibilità. Solo rimanendo nella volontà di Dio la nostra volontà diventa vera volontà ed è realmente libera. La sofferenza e la lotta del monte degli Ulivi è la lotta per questa verità liberante, per l’unità di ciò che [183] è diviso, per una unione che è la comunione di Dio.

Comprendiamo così che in questo passo si trova anche l’invocazione d’amore del Figlio Padre: Abbà (Mc 14,36). Paolo vede in questo grido la preghiera che lo Spirito Santo pone sulle nostre labbra (Rm 8,15; Gal 4,6) e àncora così la nostra preghiera spirituale alla preghiera del Signore sul monte degli Ulivi.

Nella liturgia della Chiesa la prostratio appare oggi in due occasioni: il venerdì santo e nelle consacrazioni.

Il venerdì santo, giorno della crocifissione, essa è espressione adeguata del nostro sconvolgimento per il fatto di essere, con i nostri peccati, corresponsabili della morte in croce di Cristo. Ci gettiamo a terra e prendiamo parte alla sua angoscia, alla sua discesa nell’abisso del bisogno. Ci gettiamo a terra e riconosciamo così dove siamo e chi siamo: caduti, che solo Lui può sollevare. Ci gettiamo a terra come Gesù davanti al mistero della presenza potente di Dio, sapendo che la croce è il vero roveto ardente, il luogo della fiamma dell’amore di Dio, che brucia, ma non distrugge.

In occasione delle consacrazioni questo gesto esprime la consapevolezza della nostra assoluta incapacità di accogliere con le sole nostre forze il compito sacerdotale di Gesù Cristo, di parlare con il suo Io. Mentre i candidati all’ordinazione giacciono a terra, l’intera comunità radunata canta le litanie dei santi. Resta per me indimenticabile questo gesto compiuto in occasione della mia ordinazione sacerdotale ed episcopale. Quando venni consacrato vescovo la percezione bruciante della mia insufficienza, dell’inadeguatezza davanti alla grandezza del compito fu forse ancora più grande che in occasione della mia ordinazione sacerdotale. Fu per me meravigliosamente consolante sentire la Chiesa orante invocare tutti i santi, sentire che la preghiera della Chiesa mi avvol[184]geva e mi abbracciava fisicamente. Nella propria incapacità, che doveva esprimersi corporeamente in questo stare prostrati, questa preghiera, questa presenza di tutti i santi, dei vivi e dei morti, era una forza meravigliosa, e solo essa poteva sollevarmi, solo lo stare in essa poteva rendere possibile la strada che mi stava davanti.

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In secondo luogo bisogna ricordare il gesto del cadere ai piedi, che nei Vangeli è indicato quattro volte (Mc 1,40; 10,17; Mt 17,14; 27,29) con il termine gonypetein. Partiamo da Mc 1,40. Un lebbroso va da Gesù e gli chiede aiuto; si getta ai suoi piedi e gli dice: «Se tu vuoi, puoi guarirmi». Qui è difficile valutare la portata di questo gesto. Non si tratta sicuramente di un vero atto di adorazione, ma di una preghiera espressa con fervore, anche con il corpo, in cui le parole manifestano una fiducia nella potenza di Gesù che va al di là della dimensione puramente umana. È diverso il caso dell’espressione classica dell’adorazione in ginocchio – proskynein.

Scelgo ancora una volta due esempi per chiarire la questione che si pone al traduttore. Anzitutto la storia di Gesù che, dopo la moltiplicazione dei pani, sosta sulla montagna, in colloquio con il Padre, mentre i discepoli lottano invano sul mare con il vento e le onde. Gesù va verso di loro sulle acque; Pietro gli si affretta incontro, ma impaurito, sprofonda nelle acque e viene salvato dal Signore. Gesù, allora, sale sulla barca e il vento si placa. Il testo, poi, prosegue: ma i discepoli sulla barca «gli si prostrarono davanti» e dissero: «veramente tu sei il Figlio di Dio!» (Mt 14,33). Precedenti traduzioni scrivevano: i discepoli adorarono Gesù sulla barca e dissero… Ambedue le traduzioni sono giuste, ambedue mettono in rilievo un aspetto di ciò che accade: quelle recenti l’espressione corporale, quelle più antiche l’avveni[185]mento interiore. Difatti, dalla struttura del racconto si desume con estrema chiarezza che il gesto di riconoscimento di Gesù come Figlio di Dio è adorazione.

Anche nel Vangelo di Giovanni incontriamo una simile problematica, nel racconto della guarigione del cieco nato. Questa storia, costruita teo-drammaticamente, si conclude in un dialogo tra Gesù e la persona sanata, che può essere considerato il prototipo del dialogo di conversione; inoltre, l’intera storia deve essere intesa come una spiegazione interiore dell’importanza esistenziale e teologica del battesimo. In questo dialogo Gesù aveva chiesto all’uomo se credeva nel figlio dell’Uomo. Alla domanda del cieco nato: «Chi è, Signore?» e alla risposta di Gesù: «Colui che ti parla», segue la professione di fede: «Io credo, Signore! Ed egli si prostrò davanti a lui» (Gv 9,35-38). Traduzioni precedenti avevano scritto: «ed egli lo adorò».Di fatto, tutta la scena mira all’atto di fede e di adorazione di Gesù, che ne segue: ora non sono aperti solo gli occhi dell’amore, ma anche quelli del cuore. L’uomo è diventato davvero vedente. Per l’interpretazione del testo è importante osservare che nel Vangelo di Giovanni la parola proskynein ricorre undici volte, di cui nove nel dialogo di Gesù con la Samaritana, presso il pozzo di Giacobbe (Gv 4,19-24). Questa conversazione è tutta dedicata al tema dell’adorazione ed è fuori discussione che qui, come del resto in tutto il Vangelo di Giovanni, la parola ha sempre il significato di «adorare». Anche questo dialogo si conclude comunque – come quello con il cieco sanato – con l’autorivelazione di Gesù: «Sono io, che ti parlo».

Mi sono trattenuto a lungo su questo testo perché in esso compare qualcosa di importante. Nei due passi qui approfonditi il significato spirituale e quello corporeo della parola proskynein non sono affatto separa[186]bili.

II gesto corporale è, come tale, portatore di un senso spirituale – quello, appunto, dell’adorazione, senza del quale esso resterebbe privo di significato – mentre, a sua volta, il gesto spirituale, per sua stessa natura, in forza dell’unità fisico-spirituale della persona umana, deve esprimersi necessariamente nel gesto corporale. Ambedue gli aspetti sono integrati in una sola parola perché si richiamano intimamente l’un l’altro.

Quando l’inginocchiarsi diventa pura esteriorità, semplice atto corporeo, diventa privo di senso; ma anche quando si riduce l’adorazione alla sola dimensione spirituale senza incarnazione, l’atto dell’adorazione svanisce, perché la pura spiritualità non esprime l’essenza dell’uomo. L’adorazione è uno di quegli atti fondamentali che riguardano l’uomo tutto intero. Per questo il piegare le ginocchia alla presenza del Dio vivo è irrinunciabile.

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Con ciò siamo già arrivati al tipico atteggiamento dell’inginocchiarsi su uno o su ambedue i ginocchi. Nell’Antico Testamento ebraico alla parola berek (ginocchio) corrisponde il verbo barak, inginocchiarsi.

Le ginocchia erano per gli ebrei un simbolo di forza; il piegarsi delle ginocchia è quindi il piegarsi della nostra forza davanti al Dio vivente, riconoscimento che tutto ciò che noi siamo, lo abbiamo da Lui. Questo gesto appare in importanti passi dell’Antico Testamento come espressione di adorazione. In occasione della consacrazione del tempio, Salomone «si inginocchiò davanti a tutta l’assemblea di Israele» (2Cr 6,3). Dopo l’esilio, nella situazione di bisogno in cui venne a trovarsi Israele dopo il ritorno in patria, Esdra ripete lo stesso gesto all’ora del sacrificio della sera: «Poi caddi in ginocchio e stesi le mani al mio Signore e pregai il Signore, mio Dio» (Esdra 9,5). Il grande salmo della Passione («Mio Dio, mio Dio perché mi hai abban[187]donato») si conclude con la promessa: «Davanti a Lui si piegheranno tutti i potenti della terra, davanti a Lui si prostreranno quanti dormono sotto terra» (Sal 22,30). Rifletteremo sul passo affine di Is 45,23 in contesto neotestamentario. Gli Atti degli Apostoli ci raccontano della preghiera in ginocchio di san Pietro (9,40), di san Paolo (20,36) e di tutta la comunità cristiana (21,5).

Particolarmente importante per la nostra questione è il racconto del martirio di santo Stefano. Il primo martire cristiano viene presentato nella sua sofferenza come perfetta imitazione di Cristo, la cui passione si ripete nel martirio del testimone fin nei particolari. Stefano, in ginocchio, fa così sua la preghiera del Cristo crocifisso: «Signore non imputare loro questo peccato» (At 7,60). Ricordiamo in proposito che Luca, a differenza di Matteo e di Marco, aveva parlato della preghiera in ginocchio del Signore sul monte degli Ulivi e osserviamo, quindi, che Luca vuole che l’inginocchiarsi del protomartire sia inteso come un entrare nella preghiera di Gesù.

L’inginocchiarsi non è solo un gesto cristiano, è un gesto cristologico. Il passo più importante sulla teologia dell’inginocchiarsi è e resta per me il grande inno cristologico di Fil 2,6-11. In questo inno prepaolino ascoltiamo e vediamo la preghiera della Chiesa apostolica e riconosciamo la sua professione di fede; ma sentiamo anche la voce dell’Apostolo, che è entrato in questa preghiera e ce l’ha tramandata; torniamo ancora una volta a percepire la profonda unità interiore di Antico e Nuovo Testamento, così come l’ampiezza cosmica della fede cristiana.

L’inno ci presenta Cristo in contrapposizione al primo Adamo: mentre questi cerca di arrivare alla divinità con le sole sue forze, Cristo non considera come un «tesoro geloso» la divinità, che pure gli è propria, ma si abbassa fino alla morte di croce. Proprio questa umiltà, che viene dall’amore, è il propriamente [188] divino e gli procura il «nome che è al di sopra di tutti i nomi», «perché tutti, in cielo e sulla terra e sotto terra, pieghino le loro ginocchia davanti al nome di Gesù…». L’inno della Chiesa apostolica riprende qui la parola profetica di Isaia 45,23: «Lo giuro su me stesso dalla mia bocca esce la verità, una parola irrevocabile: davanti a me si piegherà ogni ginocchio…».

Nella compenetrazione di Antico e Nuovo Testamento è chiaro che Gesù, proprio in quanto è il Crocifisso, porta il «nome che è al di sopra di tutti i nomi» – il nome dell’Altissimo – ed è Egli stesso di natura divina. Per mezzo di Lui, il Crocifisso, si compie la profezia dell’Antico Testamento: tutti si pongono in ginocchio davanti a Gesù, Colui che è asceso, e si piegano così davanti all’unico vero Dio, al di sopra di tutti gli dei.

La croce è divenuta il segno universale della presenza di Dio, e tutto ciò che noi abbiamo finora udito sulla croce storica e cosmica, deve trovare qui il suo vero senso. La liturgia cristiana è proprio per questo liturgia cosmica, per il fatto che essa piega le ginocchia davanti al Signore crocifisso e innalzato. È questo il centro della vera «cultura» – la cultura della verità. Il gesto umile con cui noi cadiamo ai piedi del Signore, ci colloca sulla vera via della vita, in armonia con tutto il cosmo.

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Si potrebbe aggiungere ancora molto, come, per esempio, la commovente storia che ci racconta Eusebio di Cesarea nella sua storia ecclesiastica, riprendendo una tradizione che risale a Egesippo (II secolo), secondo cui Giacomo, il «fratello del Signore», primo vescovo di Gerusalemme e «capo» della Chiesa giudeo-cristiana, aveva sulle ginocchia una sorta di pelle di cammello per il fatto che stava sempre in ginocchio, adorava Dio e implorava perdono per il suo popolo (II, 23, 6). Oppure il racconto tratto dalle senten[189]ze dei Padri del deserto, secondo cui il diavolo fu costretto da Dio a mostrarsi a un certo abate Apollo, e il suo aspetto era nero, orribile a vedersi, con delle membra spaventosamente magre e, soprattutto, non aveva le ginocchia. L’incapacità a inginocchiarsi appare addirittura come l’essenza stessa del diabolico.

Ma non voglio andare troppo in là. Vorrei aggiungere solo un’osservazione: l’espressione con cui Luca descrive l’atto di inginocchiarsi dei cristiani (theis ta gonata) è sconosciuta al greco classico. Si tratta di una parola specificamente cristiana. Con questa osservazione il cerchio si chiude là dove avevamo cominciato le nostre riflessioni. Può forse essere vero che l’inginocchiarsi è estraneo alla cultura moderna – appunto nella misura in cui si tratta di una cultura che si è allontanata dalla fede e che non conosce più colui di fronte al quale inginocchiarsi è il gesto giusto, anzi quello interiormente necessario.

Chi impara a credere, impara a inginocchiarsi; una fede o una liturgia che non conoscano più l’atto di inginocchiarsi, sono ammalate in un punto centrale. Dove questo gesto è andato perduto, dobbiamo nuovamente apprenderlo, così da rimanere con la nostra preghiera nella comunione degli apostoli e dei martiri, nella comunione di tutto il cosmo, nell’unità con Gesù Cristo stesso.[190]

tratto da Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, parte IV – Forma liturgica, cap. II – Il corpo e la liturgia, n. 3 – Atteggiamenti, pp. 181-190.

Card. Ranjith: Abbiamo spogliato e ridotto le nostre liturgie ad “azione”: ecco perchè la gente le trova noiose

Così dice e il cardinale e arcivescovo di Colombo Malcolm Ranjith (intervistato dal Timone nel numero di novembre): «Dopo le riforme del Concilio, non a causa dei padri riformatori ma di singoli individui che hanno deciso di prendere in mano la questione e hanno fatto cose piuttosto superficialmente, la Chiesa ha gradualmente perso l’elemento mistico, che riguarda ciò che è nascosto. Ed è questo il motivo per cui oggi la gente trova le nostre liturgie noiose, perché le abbiamo private di simbolismo, per ridurle ad azioni. Ma l’azione non è la cosa più importante. La cosa più importante è l’essere. Non l’azione, il fare, ma l’essere. La liturgia è essere alla presenza di Dio, aperti a Lui e alla lingua non scritta con cui ci parla, una forza che ci trasforma in profondità, anche se non comprendiamo tutto quello che stiamo facendo».

fonte: iltimone.it

Populus Summorum Pontificum: l’omelia del card. Burke

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MISSA DE SANCTA MARIA IN SABBATO, SALVE SANCTA PARENS COETUS INTERNATIONALIS PRO “SUMMORUM PONTIFICUM” BASILICA SANCTI PETRI IN VATICANO XXV OCTOBRIS MMXIV

Sia lodato Gesù Cristo!

Siete partiti dalle vostre case e dalla vostra attività ordinaria per venire in pellegrinaggio ad un luogo straordinario, la Sede di Pietro, ispirati dalla gratitudine al Signore per il dono più bello che ci dà nella Chiesa, qual è la Sacra Liturgia. È il Successore di San Pietro che ha la responsabilità di salvaguardare e promuovere questo dono per il gregge del Signore disperso in tutto il mondo. Ringraziate il Signore, in modo particolare, per la bellezza perenne della tradizionale forma dei riti liturgici della Chiesa latina, della “ricchezza della Liturgia Romana” che Papa Benedetto XVI, con la Lettera Apostolica “Summorum Pontificum”, data motu proprio il 7 luglio 2007, “ha reso più accessibile alla Chiesa universale” (1). Con la Messa Pontificale, secondo la Forma Straordinaria del Rito Romano, celebrata in questa magnifica basilica eretta sopra la tomba di San Pietro, il vostro pellegrinaggio raggiunge il suo culmine. Facendo memoria di San Pietro e implorando la sua intercessione, onoriamo la particolare cura animarum dei suoi Successori, espressa nel modo più alto e pieno nella custodia e nella promozione della Sacra Liturgia. Così Papa Benedetto XVI nella Lettera Apostolica Summorum Pontificum ci ha ricordato: “I Sommi Pontifici fino ai nostri giorni ebbero costantemente cura che la Chiesa di Cristo offrisse alla Divina Maestà un culto degno, ‘a lode e gloria del suo nome’ ed ‘ad utilità di tutta la sua Santa Chiesa’.” (2) Nella stessa Lettera Apostolica Papa Benedetto XVI ha sottolineato, in modo particolare, l’eccezionale cura della Sacra Liturgia da parte dei Papi San Gregorio Magno, San Pio V e San Giovanni Paolo II. Per parte nostra, ricordiamo oggi il contributo, in continuità con questi grandi Pontefici, di Papa Benedetto XVI nella salvaguardia e nella promozione della Sacra Liturgia quale espressione più perfetta e più alta della nostra vita in Cristo nella Sua Santa Chiesa. Celebriamo la Messa votiva di Santa Maria in sabbato, consci che la Madre di Dio sempre ci accompagna nel nostro pellegrinaggio. Con tanto amore materno la Madonna ci ha accompagnato fino a questo tempio sacro per mostrarci la natura straordinaria della nostra vita ordinaria perché è vissuta in Cristo per l’inabitazione dello Spirito Santo nelle nostre anime. Con amore materno ha voluto rispondere alla nostra devozione, conducendoci all’incontro del tutto straordinario con il Suo Figlio divino nella comunione con il Suo Corpo, Sangue, Anima e Divinità. La Santa Comunione è il vero e insostituibile cibo del nostro pellegrinaggio terreno fino alla mèta della vita eterna alla presenza di Dio – Padre, Figlio e Spirito Santo – , in comunione con gli angeli e tutti i santi. In ogni sacro pellegrinaggio scopriamo la nostra profonda identità quali pellegrini e anticipiamo il compimento del nostro pellegrinaggio al Banchetto Nuziale dell’Agnello. (3) Il Signore ha concesso che Sua Madre, come la Divina Sapienza lodata nel Libro del Siracide, dimori in ogni luogo sacro, unito a Gerusalemme, la “città che [il Signore] ama” (4), per servire “davanti a lui” dispensando le Sue molteplici grazie di verità e luce ai pellegrini (5). In questo luogo santo, seguendo l’esempio della Madre di Dio e implorando la Sua intercessione, scopriamo di nuovo che la nostra vera “porzione” e “eredità” è il Signore vivo per noi nella Chiesa e che la nostra dimora permanente è “in mezzo a un popolo santo”, la dimora della piena assemblea dei santi. (6) In pellegrinaggio per celebrare il grande dono della Sacra Liturgia, comprendiamo sempre meglio il senso profondo delle parole del Signore nel Vangelo. Quando “una donna dalla folla” ascoltando il Suo insegnamento “alzò la voce” per lodare la Sua Madre, “il grembo che [Lo] ha portato e il seno che [Lo] ha allattato”, il Signore segnalava la vera fonte della beatitudine della Sua Madre, cioè, la Sua perfetta obbedienza alla Legge di Dio, per la quale era preparata ad essere la Sua Madre. Il Signore dichiarò: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano” (7). In questo nostro pellegrinaggio, la Madre di Dio ci invita ad imitare la Sua obbedienza, cosicché il Signore possa purificare i nostri cuori da ogni affetto disordinato che ci condurrebbe al peccato e alla morte e, allo stesso tempo, infiammare i nostri cuori con l’amore della Sua Legge che ci conduce alla vita virtuosa e alla vita eterna. Pellegrini in compagnia della gran Madre di Dio, preghiamo, per la Sua intercessione, di ottenere la grazia di imitarLa, offrendo i nostri cuori totalmente a Cristo, specialmente con la nostra fedele partecipazione nella Sacra Liturgia, fonte della sapienza e della forza divina delle quali abbiamo bisogno per seguire Cristo con tutto il cuore. Ponendo il nostro cuore, unito al Cuore Immacolato di Maria, nel Sacratissimo Cuore di Gesù tramite il nostro culto a Dio Padre, offriamo a Dio l’amore puro e disinteressato con il quale Egli per primo ci ha amato. Riconosciamo la nostra vera “eredità” nel Cuore di Gesù e rimaniamo saldi lungo la via che ci conduce alla nostra dimora eterna “in mezzo a un popolo glorioso” (8), nella piena assemblea dei santi al Banchetto Nuziale dell’Agnello. Leviamo adesso i nostri cuori, con il Cuore Immacolato di Maria, al glorioso trapassato Cuore di Gesù. Uniti nel Cuore di Gesù, uniamoci con Lui nel Sacrificio Eucaristico che ora Egli offre. Istruiti alla Scuola di Maria, nostra Madre, offriamo con Cristo la nostra vita totalmente a Dio Padre con amore puro e disinteressato. Preghiamo che, tramite il nostro odierno pellegrinaggio, la Madonna ci aiuti a rispondere ogni giorno di nuovo all’invito di Gesù di dare sempre a Lui il nostro cuore e di arrivare, con Lui, alla nostra eterna dimora in Cielo. Cuore di Gesù, casa di Dio e porta del cielo, abbi pietà di noi. O Maria Immacolata, Madre della Grazia Divina, prega per noi. San Pietro, Principe degli Apostoli, prega per noi.

Raymond Leo Card. BURKE

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1) “Universae Ecclesiae … Romanae Liturgiae divitias reddiderunt propiores”. Pontificia Commissio Ecclesia Dei, Instructio Universae Ecclesiae, “Ad exsequendas Litteras Apostolicas Summorum Pontificum a S.S. Benedicto PP. XVI Motu Proprio datas”, 30 Aprilis 2011, Acta Apostolicae Sedis 103 (2011), 413, n. 1. Versione italiana: Pontificia Commissione Ecclesia Dei, Istruzione sull’applicazione della Lettera Apostolica motu proprio data Summorum Pontificum di S.S. Benedetto PP. XVI (Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 2011), p. 3, n. 1.
2) “Summorum Pontificum cura ad hoc tempus usque semper fuit, ut Christi Ecclesia Divinae Maiestati cultum dignum offerret, «ad laudem et gloriam nominis Sui» et «ad utilitatem totius Ecclesiae Suae sanctae». Benedictus PP. XVI, Epistula Summorum Pontificum, “De usu extraordinario antiquae formae Ritus Romani”, 7 Iulii 2007, Acta Apostolicae Sedis 99 (2007), 777. Versione italiana: Benedetto XVI, Lettera Apostolica «Motu Proprio data» Summorum Pontificum sull’uso della Liturgia Romana anteriore alla Riforma del 1970 (Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 2007), p. 3.
3) Cf. Ap 19, 7. 4) Sir 24, 11. 5) Sir 24, 14-15. 6) Sir 24, 16. 7) Lc 11, 27-28. 8) Sir 24, 16.

La Messa non è finita. Deo gratias

di Rino Camilleri

Premetto che in quel che dirò non c’è alcuna vocazione polemica, perché le dispute intraecclesiali non mi appassionano. Anzi, mi infastidiscono. Sono cose di preti, nelle quali i laici, a mio avviso, meno mettono bocca e meglio è. Troppo spesso i preti si comportano come se la Chiesa fosse «cosa loro» e rispondono piccati quando li si critica. É da cinquant’anni, cioè dai tempi del Concilio, che il clero si riempie le gote del famoso «ruolo dei laici», ma poi, a conti fatti, il ruolo dei laici lo vorrebbe così: sempre in ginocchio, obbedienti e col portafogli aperto.

Ho ormai una certa età e confesso che, quando sento parlare o leggo di dispute sul Concilio cambio canale o pagina o clicco qualcos’altro. Lo stesso dicasi per la Messa, nuovo rito, vecchio rito, rito straordinario, progressismi e tradizionalismi. Saranno gli anni, ma sono stufo da un pezzo. Quando mio nonno aveva l’età che ho io adesso e io ero un ragazzino, lui mi diceva sempre: sta’ lontano dai preti; onorali, riveriscili e salutali per strada, bacia loro la mano (allora usava) e va’ a Messa, ma non ti ci mischiare. Con sorpresa, diventato scrittore, mi accorsi che Padre Pio era dello stesso parere. Non sopportava i laici che ronzavano attorno alle tonache: allora si chiamavano «baciapile», oggi «impegnati nella pastorale». Il Santo diceva, col suo solito modo ruvido: «O dentro o fuori». Cioè: se ti piace l’ambiente entra nel clero, sennò esci di sacrestia e fai davvero il laico.

L’esperienza è quella cosa che quando l’hai fatta è troppo tardi. Infatti, oggi so –per esperienza- che sia mio nonno (uomo religiosissimo) che Padre Pio (santo, asceta e mistico) avevano ragione. Entrambi passarono i guai loro per colpa del clero: le vicissitudini di Padre Pio sono note (rileggersi il mio libro Vita di Padre Pio, Piemme, più volte ristampato), mio nonno (che era imprenditore) uscì mezzo rovinato economicamente per essersi fidato di preti in un affare. Premesso tutto questo, vengo al dunque.

Sono tanti anni ormai che nella mia mente la Messa domenicale è associata a un’ora di martirio di cui farei volentieri a meno. Tedio. Noia. Omelie banali e interminabili. Canzonette pop dal testo cretino. Estenuanti e retorici assilli al Padreterno terminanti con «…ascoltaci Signore». Segni di pace sudaticci. Ridicola miniprocessione per portare i «doni» all’altare. Chilometrici avvisi parrocchiali da ascoltare in piedi prima di avere la benedizione finale (dunque, abusivamente inglobati nella liturgia). Un «rendiamo grazie a Dio» che è un (mio) urlo di sollievo prima di uscire –finalmente!- a riveder le stelle. Ripeto: nessuna polemica. Trattasi solo di mie personali sensazioni.

Ora, però, ho scoperto che nella cittadina sul Lago Maggiore in cui passo di solito l’estate c’è un prete che dice l’antica Messa. Una sola, il sabato pomeriggio. Ci sono andato, per curiosità. Già, perché quando vigeva il vecchio rito io a Messa non ci andavo proprio, perciò per me era una vera novità. Stupore: il celebrante faceva quasi tutto lui, gli astanti dovevano «rispondere» di rado. Silenzio. Il centro del tutto era il tabernacolo, non lo show del prete. Uno, in un angolo, intonava gli antichi inni in latino e –sorpresa- qualcosa mi si scioglieva dentro. Non mi accorgevo del tempo che passava, mi ritrovavo attento e concentrato come non mai, «partecipavo» davvero. Uscii ancora pervaso da un senso del sacro quale mai avevo provato prima. C’erano a disposizione dei libri per seguire la Messa, di quelli coi nastrini segnapagine rossi. Io non ci capivo granché, ma –altra sorpresa- una bengalese seduta accanto a me, colta la mia difficoltà, prese a indicarmi i passi giusti.

Una bengalese! Il 5 agosto una lettrice romana mi ha scritto, raccontandomi della Messa a cui aveva assistito al mattino nella basilica di Santa Maria Maggiore. Ogni anno, per la ricorrenza della festa, vi si celebra solennemente in latino. Scrive la lettrice: «Mi sono trovata a cantare e a rispondere accanto a una coppia di giovani tedeschi e a due nere americane che conoscevano alla perfezione le parti della Messa in latino sia recitate che cantate; lo stesso mi capitò anni fa con dei giapponesi; è questo un modo davvero commovente di sentire e di vivere la cattolicità della Chiesa». Eggià: per «aggiornarsi» con gli anni Sessanta -del secolo scorso- la Chiesa rinunciò alla sua lingua sacra (mentre ebraismo e islamismo mantengono rigorosamente le loro). Il risultato di quello che Vittorio Messori definì in un’intervista «un golpe clericale» è che se percorro, che so, la Spagna devo assistere a Messe in catalano, castigliano, basco e via dicendo.

Nel turista cattolico, con difficoltà avverto un fratello e la «cattolicità» di cui parlava la lettrice diventa teoria, non una sensazione palpabile. Scusate, ma siamo fatti anche di corpo. In quella chiesina sul Lago Maggiore ho visto un sacerdote che portava a Dio le preghiere del popolo che gli stava alle spalle in religioso (è il caso di dirlo) raccoglimento. Naturalmente –mi ha raccontato poi- si è inimicato il vescovo e tutti i colleghi della diocesi per via della sua ostinazione –qualificata di «lefebvriana»- a voler celebrare una (una!) Messa alla settimana secondo il motu proprio di Benedetto XVI. Tranquilli, quando finirà l’estate e tornerò in città non ho alcuna intenzione di macinare chilometri per andare a cercare una Messa di rito «straordinario» (sic!). Offrirò, come sempre, la mia pena domenicale al Signore nella solita parrocchia, a sconto dei miei peccati.

Fonte: lanuovabq.it

“Alla Sua presenza”

di don Nicola Bux

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Gian Arturo Ferrari, firma del Corriere della Sera, ha osservato: “C’è una concezione del mondo religioso che di religioso non ha nulla. Penso a qualche funzione religiosa a cui ho partecipato di recente. Il modello era la tv”. E’ una verità amara, ogni qualvolta si assiste ad una liturgia che invece di essere “azione sacra per eccellenza”, come la Costituzione liturgica la definisce (SC 7), è trasformata in show; sta ricordarlo l’uso di un verbo tipico delle feste dei villaggi turistici: animare. Si osservi quel che accade, in occasione delle prime comunioni.

Alcuni sacerdoti collocano in chiesa, al posto dei banchi, più tavolini apparecchiati, oppure un grande tavolo, di quelli comunemente usati per le feste nelle sale parrocchiali, in modo da dare l’idea della ‘tavolata’. I bambini vengono fatti sedere attorno, e davanti a ciascuno è posta una patena con un’ostia da consacrare. Su un altro tavolino, all’angolo, sta il calice col vino. Alla consacrazione, ciascun fanciullo toglie il velo dalla patena. Il sacerdote consacra, poi passa dai bambini e ciascuno di essi, in piedi, self-service, prende la sua ostia dalla sua patena, la intinge nel calice che gli porge il sacerdote e si comunica. Poi si siede. Una variante è che l’ostia, non si trovi nella patena davanti al bimbo, ma gliela passi, poi, il sacerdote, ed il bambino la intinga nel calice e si comunichi. Un sintomo di quella che è stata definita la “nuova religione dell’autodeterminazione”? Il Messale Romano, promulgato da Paolo VI, ammonisce: «Non è consentito ai fedeli di ” prendere da sé e tanto meno passarsi tra loro di mano in mano” (Institutio Generalis del Messale Romano, 118) la sacra ostia o il sacro calice. In merito,inoltre, va rimosso l’abuso che gli sposi si distribuiscano in modo reciproco la santa Comunione» (Istruzione Redemptionis Sacramentum 94). Ancora «Non si permetta al comunicando di intingere da sé l’ostia nel calice, né di ricevere in mano l’ostia intinta» (Ivi, 104). Un altro abuso frequente è la distribuzione della Comunione da parte di accoliti e ministri straordinari, – anche se vi sono sacerdoti e diaconi, ministri a ciò deputati – cosa prevista solo in caso di una grande folla, cioè, almeno cinquecento fedeli, che si accostassero tutti al sacramento! Eppure, nell’Istruzione Redemptionis Sacramentum, richiesta da Giovanni Paolo II nell’Enciclica sull’Eucaristia, si ammonisce: «E’ riprovevole la prassi di quei Sacerdoti che, benché presenti alla celebrazione, si astengono comunque dal distribuire la Comunione, incaricando di tale compito i laici» (RS157) e poi: «Il ministro straordinario della santa Comunione, infatti, potrà amministrare la santa Comunione soltanto quando mancano il Sacerdote o il Diacono, quando il Sacerdote è impedito da malattia, vecchiaia o altro serio motivo o quando il numero dei fedeli che accedono alla Comunione è tanto grande che la celebrazione stessa si protrarrebbe troppo a lungo. Tuttavia ciò si ritenga nel senso che andrà considerata motivazione del tutto insufficiente un breve prolungamento, secondo le abitudini e la cultura del luogo» (RS 158; cfr 88 e 154).

Alcune considerazioni:

1. La ‘tavolata’ è un grave errore teologico-sacramentale, causato dall’idea che la Messa sia la riproposizione dell’ultima cena. Non pochi studi hanno cercato di chiarirlo, non ultimi quelli di Joseph Ratzinger. La cena celebrata da Gesù alla vigilia della pasqua ebraica non è ancora una liturgia cristiana, come prova il fatto che solo le due benedizioni sul pane che diventa corpo dato per noi e sul vino che diventa sangue versato per noi, sono state conservate dalla tradizione apostolica e inserite in un grande “preghiera di benedizione” o supplica di ringraziamento, in greco eucaristia, a Dio Padre nello Spirito Santo, fatta in nome di Gesù Cristo il Figlio, incarnato e sacrificato per noi. Quanto ha fatto il Signore nel contesto dell’ultima cena è una novità, per questo: «l’ultima cena fonda il contenuto dogmatico dell’eucaristia cristiana, ma non la sua forma liturgica». In altri termini: «Quella cena per noi cristiani non è più necessario ripeterla…Il memoriale del suo dono perfetto, infatti, non consiste nella semplice ripetizione dell’ultima cena, ma propriamente nell’eucaristia, ossia nella novità radicale del culto cristiano […] La conversione sostanziale del pane e del vino nel suo corpo e nel suo sangue pone dentro la creazione il principio di un cambiamento, come una sorta di “fissione nucleare”, per usare un’immagine a noi oggi ben nota, portata nel più intimo dell’essere, un cambiamento destinato a suscitare un processo di trasformazione della realtà, il cui termine ultimo sarà la trasfigurazione del mondo intero, fino a quella condizione in cui Dio sarà tutto in tutti (cfr 1 Cor 15,28)» (SCa, 11). Nell’eucaristia «Gesù ha anticipato il suo sacrificio, un sacrificio non rituale, ma personale». Nello stesso tempo l’eucaristia è attesa della cena che il Signore appresterà al suo ritorno alla fine del mondo. Dunque, prefigurata nel sacrificio del tempio, nel “servo sofferente” di Isaia, nella cena pasquale degli ebrei, la forma originale della messa è l’eucaristia, cioè la preghiera di ringraziamento che trasforma la mia esistenza; è l’obbedienza di Gesù Cristo al Padre, perciò è sacrificio e pasto dei riconciliati. In relazione alla passione di Cristo, in cui il sangue era separato dal corpo, il concilio di Trento definisce la santa messa “vero e proprio sacrificio” di Gesù Cristo. Egli si rende presente sull’altare – alta-res, luogo alto per il sacrificio – in obbedienza alle parole consacratorie del sacerdote, e, a causa della separazione del corpo dal sangue, è nella condizione di vittima immolata (immolatitius modus: cfr Pio XII,Enciclica Mediator Dei, 70). Per questo, l’altare è anche mensa dell’Agnello immolato (cfr Ap 5,6), per ricevere il pane, separatamente, come sacramento del corpo e il vino come sacramento del sangue (cfr san Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae III q 74 a.1 sc). Tutto questo è riaffermato dal Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC 1365). Sebbene l’espressione “cena del Signore” sia uno dei modi di chiamare l’eucaristia, in realtà si riferisce alla cena escatologica dell’Agnello, come esclama il sacerdote alla Comunione: Beati qui ad coenam Agni vocati sunt. La dimenticanza o l’ignoranza di tutto questo, finisce per separare la Messa dal sacrificio della croce e ridurre l’eucaristia ad un banchetto fraterno. Non si dimentichi, poi il divieto di Paolo di unire la frazione del pane all’agape, cena di carattere religioso-sociale, tanto forte era ancora l’influsso pagano di fraintendere l’eucaristia come un banchetto dal quale inevitabilmente poi scaturivano abusi e licenze. Nelle due forme della messa bizantina, la “divina liturgia di San Giovanni Crisostomo” e quella “di San Basilio”, il concetto di cena o di banchetto è chiaramente subordinato a quello di sacrificio, proprio come nel nostro canone romano.

2. La ‘tavolata’ è anche un deplorevole abuso liturgico: sostituisce l’altare, al quale il popolo di Dio è chiamato a partecipare (cfr Institutio Generalis del Messale Romano, Ed.typ. III, 296). Cos’è l’altare e perché si usa? Nella tradizione giudaica v’era l’altare dei sacrifici – la parte superiore per l’immolazione delle vittime – e la tavola dei pani da offrire. Col cristianesimo, l’altare dei sacrifici nel cortile del tempio e la tavola delle offerte all’interno, vengono resi, nelle chiese, con una composizione sintetica: l’altare rappresenta Cristo, la croce e ad un tempo il suo sepolcro (cfr CCC 1182); è anche la mensa del Signore (cfr Eb 13,10) dalla quale scaturiscono i sacramenti del mistero pasquale. E’ la parte più santa del tempio ed è elevato, alta res, posto in alto per indicare l’opera di Dio che è superiore a tutte le opere dell’uomo. Non deve essere poggiato sul piano del pavimento, ma almeno elevato su un gradino, affinché ricordi il Golgota dovendosi su di esso rinnovare il sacrificio che Gesù compì sulla croce. Per questo è sempre rivestito di tovaglie, che indicano la purezza necessaria per accogliere Dio; in quella bizantina l’altare è coperto con un velo, quasi una dalmatica diaconale annodata sui quattro lati, ad indicare Cristo fattosi servo. Per la liturgia orientale, l’altare non deve essere grande, come nella tradizione latina più antica, perché è sufficiente che si possa accostare il celebrante per il sacrificio; poi su di esso ardono lampade e in specie ha al centro la croce, l’artoforio (tabernacolo) e l’evangelario. In occidente si ritiene superato tutto questo, nonostante i propositi ecumenici di “respirare con due polmoni”. Nel post-concilio ha prevalso la tendenza ad avvicinare l’altare al popolo. In realtà, non è l’altare che si deve avvicinare al popolo, ma il popolo all’altare: i movimenti processionali di introito, di offertorio e di Comunione, come dicono i salmi, significano l’andare alla presenza del Signore, per offrire i santi doni e comunicarsi a lui.

3. Il rapporto tra sacrificio eucaristico, “festa”, “comunità”, elemento umano e divino nella Messa. Una prima questione, riguarda le caratteristiche del sacramento eucaristico: è una cena o un sacrificio? Così risponde il Catechismo: “La Messa è ad un tempo e inseparabilmente il memoriale del sacrificio nel quale si perpetua il sacrificio della croce,e il sacro banchetto della Comunione al corpo e al sangue del Signore”. Non è solo un accostamento, poiché vi è un nesso intimo tra cena e sacrificio. Infatti: “La celebrazione del sacrificio eucaristico è totalmente orientata all’unione intima dei fedeli con Cristo attraverso la Comunione. Comunicarsi è ricevere Cristo stesso che si è offerto per noi” (CCC 1382). Certo, il termine memoriale può essere inteso come ricordo di un fatto passato. Non è così, grazie allo Spirito Santo che ci ricorda ogni cosa (cfr Gv 14,26); l’eucaristia fatta dalla Chiesa rende presente e attuale la pasqua di Cristo e il suo sacrificio offerto una volta per tutte (cfr CCC 1364). Rende presente anche la risurrezione? Col battesimo e soprattutto con l’eucaristia, il cristiano soffre e muore con Cristo, mentre della risurrezione riceve il germe che si svilupperà in pienezza alla fine dei tempi, secondo la parola del Signore: “io lo risusciterò nell’ultimo giorno”(Gv 6,40). Ma finché siamo “nella carne”, noi partecipiamo alla sua passione e attendiamo, nella fede e nella speranza, il giorno della glorificazione. Inoltre, si tratta di sacro banchetto, o convito, nel quale si riceve Gesù Cristo,si fa memoria della sua passione, il cuore si riempie di grazia: viene dato l’anticipo della gloria futura. Sacro significa che c’è la sua presenza divina e quindi bisogna avvicinarsi con quel timore di Dio, che è uno dei sette doni dello Spirito Santo. Il sacrificio sacramentale è definito eucaristia, termine greco che vuol dire azione di grazie o benedizione, memoriale e presenza di lui, operata dalla potenza della sua parola e dallo Spirito Santo; il tutto culmina nella Comunione. E’ festa in senso spirituale, non mondano: non vive di trovate accattivanti, non deve esprimere l’attualità effimera, non è un intrattenimento che deve aver successo, ma ravvivare la coscienza che il mistero è presente tra noi. E’ festa della fede, in cui deporre, come dice la liturgia bizantina, ogni mondana attitudine, perché “misticamente rappresentiamo i cherubini”(tropario d’offertorio). Il dramma giunge al suo culmine: l’altare su cui s’innalza la croce diventa ora la mensa dell’Agnello immolato ma vivo. Il sacrificio del corpo e del sangue misticamente anticipato nella cena e compiuto sul Golgota, ora è approntato come cibo e bevanda per i fedeli perché entrino in intima unione con la vittima divina. Come gli apostoli la domenica di Pasqua siamo nel cenacolo col Signore ormai risorto che mostra le piaghe gloriose e ci invita al convito. La familiarità con lui provoca stupore e gioia, ma non consente banalità come il trasformare l’altare in tavola da pranzo a cui far accedere i fedeli. Egli è il Signore, e il convito «resta pur sempre un convito sacrificale, segnato dal sangue versato sul Golgota. Il convito eucaristico è davvero un convito “sacro”, in cui la semplicità dei segni nasconde l’abisso della santità di Dio: O Sacrum convivium, in quo Christus sumitur!» (Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, 48). Trasformare l’altare in una ‘tavolata’, significa favorire nei piccoli un’idea distorta della Comunione, la quale discende dall’alto della Trinità e non dal basso del nostro stare insieme.

4. Come accostarsi alla Comunione, a cominciare dalla ‘prima’. Proprio ai nostri giorni, che vedono i piccoli particolarmente precoci e attenti, alle lingue come al web, li immergiamo nella banalità; gli impediamo di partecipare a liturgie solenni con il pretesto di peculiari esigenze psicologiche, pensando che non capiscano e invece li si priva dell’incontro col mistero divino attraverso lo stupore, il silenzio, l’ascolto, la musica sacra, la preghiera e il ringraziamento, come è avvenuto per noi da piccoli, e siamo cresciuti nella fede attraverso la partecipazione alla liturgia cattolica della Chiesa, col suo respiro universale. I piccoli non desiderano diventare grandi e stare con i grandi? La prima Comunione significa che è da lui, dal Signore, che, a conclusione dell’iniziazione, noi riceviamo un posto alla sua mensa, per la prima Comunione con lui, qui e per l’eternità. Gesù l’ha promesso: “Io vi preparo un posto”: questo comincia, quaggiù, con l’essere divenuti capaci, mediante il battesimo e la cresima, di riconoscerci figli in lui Figlio e quindi rendere grazie a Dio Padre. Nel rito romano antico, i fedeli si accostano alla balaustra, in ginocchio, dove spesso è distesa una tovaglia che rappresenta la mensa, il banchetto, e ognuno ha un posto: si inginocchia e attende in raccoglimento di ricevere la Comunione. Un gesto significativo è l’uso di nascondere le mani sotto la tovaglia – l’ho visto fare in Francia dai bambini e dagli adulti, dopo essersi inginocchiati – indica l’esigenza di essere puri per toccare il Signore, che ci ha scelti e chiamati con la fede alla mensa del suo regno, di cui la Comunione è l’anticipo, la caparra, l’anticipo della gloria futura. La prassi ordinaria – secondo la tradizione condivisa d’oriente e d’occidente – è che si riceva nella bocca, dopo un atto di riverenza, un inchino profondo o in ginocchio. Ma non di rado, i fedeli che vogliano riceverla, così, sono oggetto di bruschi dinieghi, anche scandalosi, da parte di sacerdoti noncuranti d’avere nelle mani le sacre specie. Eppure, il modo di riceverla, in piedi e sulla mano, è solo un indulto, ossia un permesso a tempo. Pertanto, non poteva non suscitare reazioni l”innovazione’ di Benedetto XVI di amministrare la Comunione ai fedeli, in ginocchio e in bocca: ‘innovazione’, rispetto appunto all’indulto, che in diverse nazioni consente di riceverla sulla mano. Infatti, si ritiene da non pochi, che solo nella tarda antichità e nell’alto medioevo, la chiesa d’oriente e quella d’occidente abbiano preferito amministrarla in tal modo.

Ma, Gesù ha dato la Comunione agli apostoli sulla mano o ha chiesto loro di prenderla con le proprie mani? Visitando una mostra del Tintoretto a Roma, ho osservato alcune ‘Ultime Cene’ in cui Gesù dà la Comunione in bocca agli apostoli: si potrebbe pensare che si tratti di una interpretazione del pittore ex post, un po’ come la postura di Gesù e degli apostoli, a tavola, nel cenacolo di Leonardo, che ‘aggiorna’, alla maniera occidentale, l’uso giudaico dello stare invece reclinati a mensa.

Ora, riflettendo ulteriormente, l’uso di dare la Comunione direttamente in bocca al fedele può essere ritenuto non solo di tradizione giudaica e quindi apostolica, ma anche risalente al Signore Gesù. Gli ebrei e gli orientali in genere avevano e hanno ancor oggi l’usanza di prendere il cibo con le mani e di metterlo direttamente in bocca all’amata o all’amico. Anche in occidente lo si fa tra innamorati e da parte della mamma verso il piccolo, ancora inesperto. Si capisce così il testo di Giovanni: “Gesù allora gli (a Giovanni) rispose: ‘E’ quello a cui darò un pezzetto di pane intinto’. Poi, intinto un pezzetto di pane, lo diede a Giuda di Simone Iscariota. E appena preso il boccone, Satana entrò da lui” (13,26-27). Che dire però dell’invito di Gesù: “Prendete e mangiate”… “Prendete e bevete”? Prendete (in greco: labete; in latino: accipite), significa anche “ricevete”. Se il boccone è intinto, non lo si può prendere con le mani, ma ricevere direttamente in bocca. Vero è che Gesù ha consacrato separatamente pane e vino. Ma, se durante il ‘mistico convito’ – come lo chiama l’oriente, ossia l’ultima cena – i due gesti consacratori avvennero – come sembra – in tempi diversi della cena pasquale, dopo la pentecoste – allorché gli apostoli, aiutati dai sacerdoti giudaici che si erano convertiti (Atti 6,7), quali esperti diremmo così nel culto – li unirono all’interno della grande preghiera eucaristica, la distribuzione del pane e del vino consacrati fu collocata dopo l’anafora, dando origine al rito di Comunione. Tutto ciò rende più comprensibile la sentenza di sant’Agostino: “nessuno mangia quella carne, se prima non ha adorato” (Enarrationes in Psalmos 98,9). Benedetto XVI l’ha richiamata, significativamente, proprio nel noto discorso sull’interpretazione del Vaticano II (cfr anche Esortazione apostolica Sacramentum Caritatis, 67). Ancora più esplicito Cirillo invita a “non stendere le mani, ma in un gesto di adorazione e venerazione (tropo proskyniseos ke sevasmatos) accostati al calice del sangue di Cristo” (cfr Catechesi Mistagogica 5,22). Di modo che, chi riceve la Comunione fa proskinesis, la prostrazione o inchino fino a terra – simile alla nostra genuflessione – protendendo allo stesso tempo le mani come un trono, mentre dalla mano del Signore riceve, in bocca, la Comunione. Così sembra efficacemente raffigurato dal Codice purpureo di Rossano, datato tra la fine del V e l’inizio del VI secolo d.C., un evangelario greco miniato, composto sicuramente in ambiente siriaco. Dunque, non deve meravigliare il fatto che la tradizione pittorica orientale e occidentale,dal V al XVI secolo abbia raffigurato Cristo che fa la Comunione agli apostoli direttamente nella bocca. Benedetto XVI, in continuità con la tradizione universale della Chiesa, ha ripreso il gesto: perché non imitarlo? Ne guadagnerà la fede e la devozione di molti verso il sacramento della Presenza, specialmente in un tempo dissacratorio, come quello odierno. Al di là della discussione storico-teologica, circa il modo in cui in antico si riceveva la Comunione, mettersi in ginocchio per ricevere il sacramento non è in contrasto con la processione prevista nel rito ordinario.

L’uso della Comunione sulla mano porta anche a riflettere sui frammenti che spesso cadono, senza essere raccolti in un vassoio sottostante. In molte parrocchie, i corporali, restano aperti da una Messa all’altra, da un giorno all’altro, con i frammenti eucaristici, perché alcuni sacerdoti sostengono che siano “cellule morte” (qualcuno arriva a dire, all’atto della consacrazione, “lui non consacra i frammenti”: non l’avevo mai sentita, ma è un’eresia). Non siamo pronti a dare ad un ammalato che non può deglutire un piccolo frammento di particola? La daremmo se non fosse corpo di Cristo? Forse che una briciola di pane è di sostanza differente dal pane intero? I sacerdoti sanno che la validità della Messa, oltre che dalla materia e dalla forma, dipende dall’intenzione che essi mettono, di fare quello che fa la Chiesa. Il corporale è molto importante, come attesta Orvieto, sia perché si consacrano solo le ostie e il vino che si trovano all’interno del corporale, non sulla tovaglia, sia per raccogliere i frammenti. Non prevalgano l’ignoranza e la presunzione, ma si attinga alla Scrittura e ai Padri, come Ambrogio e Crisostomo! Il Signore è presente (cfr CCC 1377) – come dice san Tommaso – nel sacramento dell’eucaristia, non secondo il modo della quantità, ma secondo il modo della sostanza: in una goccia di sangue, in una goccia di vino, o in un frammento di ostia c’è tutta la presenza del Signore; non c’è bisogno di molto vino perché il Signore sia presente, proprio come in una goccia di sangue c’è tutta la sostanza del sangue. L’ignoranza della dottrina eucaristica cattolica, porta a ritenere che i frammenti siano insignificanti e, di conseguenza, non si purificano i vasi sacri. Eppure, in extremis, quando il sacerdote si accorge che le particole sono insufficienti per la Comunione, usa spezzarle ulteriormente per dare la Comunione, pur con un frammento! Nell’attuale crisi di fede, anche la questione dei frammenti va chiarita e riaffermata, condannando gli abusi, in quanto non c’è differenza tra particole, particelle e frammenti di ostia. Lo scoglio da superare, resta il dissenso sulla natura della liturgia.

«La crisi della liturgia, e quindi della Chiesa, in cui continuiamo a trovarci – afferma Ratzinger – è dovuta solo in minima parte alla differenza tra vecchi e nuovi libri liturgici. Si rende sempre più chiaro che sullo sfondo di tutte le controversie è emerso un profondo dissenso circa l’essenza della celebrazione liturgica, la sua derivazione, il suo rappresentante e la sua forma corretta. Si tratta della questione circa la struttura fondamentale della liturgia in genere; più o meno consciamente si scontrano qui due concezioni diverse. I concetti dominanti della nuova visione della liturgia si possono riassumere nelle parole-chiave “creatività”, “libertà”, “festa”, “comunità”. Da un tale punto di vista, “rito”, ”obbligo”, “interiorità”, “ordinamento della Chiesa universale” appaiono come i concetti negativi, che descrivono la situazione da superare della “vecchia” liturgia».

Klaus Gamber, studioso della liturgia romana e delle liturgie orientali di Ratisbona, «percepiva che abbiamo nuovamente bisogno di un inizio dall’interiorità, come lo intendeva il Movimento liturgico nella sua parte più nobile». Ratzinger ne condivide l’analisi: «La riforma liturgica, nella sua concreta esecuzione, si è sempre più allontanata da questa origine. Il risultato non è rianimazione ma devastazione. […] una liturgia degenerata in spettacolo, in cui si cerca di rendere interessante la religione con trucchi alla moda e con moralismi spigliati, che registrano successi momentanei nel gruppo dei promotori e un allontanamento ben più vasto da parte di tutti coloro che nella liturgia non cercano il loro show master spirituale, bensì l’incontro con il Dio vivente davanti al quale il nostro affaccendarsi diventa irrilevante, e che può dischiudere a tutti la vera ricchezza dell’essere».

fonte http://lavocediferrara.it/default.asp?id=416.

San Giovanni XXIII: un Papa con la Tiara

Giovanni XXIII 3

di Federico Catani  

A poco più di cinquant’anni dalla morte, Papa Giovanni XXIII (1958-1963) è diventato santo. 

Di Angelo Giuseppe Roncalli si è arrivati a costruire un’immagine mitica, quasi abbia rappresentato l’inizio di una nuova Chiesa, più vera e più evangelica.
La figura di Papa Giovanni è diventata, grazie a storici “cattolici” ultra-progressisti come Alberto Melloni, il simbolo di un papato rivoluzionario, opposto a secoli e secoli di Tradizione.
Senza entrare nel merito della canonizzazione, che ormai è cosa fatta, in questa sede vogliamo svelare alcuni lati sottaciuti di Roncalli.
In tal modo, si avrà un ritratto più completo del nuovo santo.
Senza dubbio Giovanni XXIII ha inaugurato un nuovo modo di vivere e percepire il papato. Non si possono negare le sue aperture e il suo riformismo, sia nello stile, sia nel linguaggio, sia nell’atteggiamento da tenere nei confronti delle grandi questioni ecclesiali.
E, fermo restando il rispetto e la venerazione per un Papa santo, ci permettiamo di far notare che molte ingenuità  e molti romanticismi (se così li vogliamo considerare) di Roncalli non hanno per nulla giovato alla Chiesa.
L’ottimismo verso il futuro, il clima di dialogo inaugurato, l’apertura del Concilio Vaticano II, la predilezione per la “medicina della misericordia”non hanno prodotto gli effetti sperati.
Eppure non sembra fossero queste le intenzioni di Giovanni XXIII. Papa Roncalli, infatti, eccettuate aperture opinabili, si potrebbe classificare come un Pontefice che ha scelto la via della sana riforma.
La Chiesa infatti non è un fossile e non può fermarsi per ogni aspetto a un dato momento storico, altrimenti dovremmo stare ancora nelle catacombe.
Giovanni XXIII ha approvato documenti e compiuto gesti che Melloni e soci tentano in ogni modo di nascondere e che la gente comune ignora bellamente.
Innanzitutto “il Papa Buono” nutrì sempre stima e venerazione per il suo immediato predecessore Pio XII, il Papa più citato nei documenti del Vaticano II.  
Una vera e propria devozione, poi, Giovanni XXIII l’aveva per Pio IX, l’ultimo Papa Re, il simbolo della lotta al liberalismo e della difesa del potere temporale della Chiesa, di cui sperava di celebrare la solenne beatificazione a conclusione del Concilio Vaticano II, che peraltro nei suoi piani sarebbe dovuto durare qualche mese. Nell’allocuzioneGaudet Mater Ecclesia, tenuta l’11 ottobre 1962 ad apertura dei lavori conciliari, oltre a punti discutibili come l’attacco ai cosiddetti “profeti di sventura” e l’esortazione a usare la “medicina della misericordia” (data la situazione odierna, si può tranquillamente affermare che il Pontefice prese una cantonata colossale), Giovanni XXIII disse che “il ventunesimo Concilio Ecumenico (…) vuole trasmettere integra, non sminuita, non distorta, la dottrina cattolica. (…) 
Però noi non dobbiamo soltanto custodire questo prezioso tesoro, come se ci preoccupassimo della sola antichità, ma, alacri, senza timore, dobbiamo continuare nell’opera che la nostra epoca esige, proseguendo il cammino che la Chiesa ha percorso per quasi venti secoli”.
E poi, ancora: “Occorre che la stessa dottrina sia esaminata più largamente e più a fondo e gli animi ne siano più pienamente imbevuti e informati, come auspicano ardentemente tutti i sinceri fautori della verità cristiana, cattolica, apostolica; occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. 
Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione”.  
Si può e si deve discutere sulla validità e sull’efficacia della nuova stretegia pastorale adottata dalla Chiesa (i risultati sono magrissimi e spesso orribili), ma di certo Papa Giovanni non intendeva cambiare la dottrina cattolica.
Bisogna poi aggiungere che, vista la piega che stava prendendo l’assise conciliare, sul letto di morte Giovanni XXIII invitò a chiudere presto il Concilio, confidando nel card. Giuseppe Siri.
Lo hanno attestato l’arcivescovo di Londra Heenan e varie altre sicure testimonianze private, non viziate dall’ideologia “vaticanosecondista”.
Al contempo, nonostante un nuovo discutibile approccio, Giovanni XXIII non mutò la posizione della Chiesa nei confronti del comunismo.
Già da cardinale, Roncalli aveva annotato nel suo diario (28 ottobre 1947): “Fra Carlo Marx e Gesù Cristo l’accordo è impossibile”.
Inoltre, il 4 aprile 1959, il Sant’Uffizio, con approvazione del Papa, ebbe a precisare che non era lecito “ai cittadini cattolici dare il proprio voto durante le elezioni a quei partiti o candidati che, pur non professando princìpi contrari alla dottrina cattolica o anzi assumendo il nome cristiano, tuttavia nei fatti si associano ai comunisti e con il proprio comportamento li aiutano”.
A questa posizione, stemperata purtroppo da fattive e mediatiche aperture a sinistra, che destano serie perplessità, si deve aggiungere che Roncalli già da vescovo, lodò il Concordato del 1929 ed ebbe parole di elogio, seppur equilibrato, per il Duce, ribadendo che, nonostante tutto, “il gran bene da lui fatto all’Italia resta”.
Nel 1954, in pieno clima antifascista, ribadì la gratitudine verso Mussolini per aver portato a conclusione i Patti Lateranensi ed esortò ad affidare la sua anima “al mistero della misericordia del Signore, che nella realizzazione dei suoi disegni suole scegliere i vasi più acconci all’uopo, e a opera compiuta li spezza, come se non fossero stati preparati che per questo. (…) 
Rispettiamo anche i pezzi del vaso infranto e rendiamo utili per noi gli insegnamenti che di là ci provengono”.
Il 25 aprile 1955, poi, alla faccia di chi ancora oggi cavalca il mito della Resistenza, Roncalli, allora Patriarca di Venezia, invitò a pregare per tutte le vittime della guerra, “a propiziazione di tutte queste anime che si sono sacrificate da una parte e dall’altra della barricata”.
Oltre a ciò, il nuovo santo era un estimatore di Giovannino Guareschi, giornalista non certo progressista e il cui anti-comunismo era radicale: ebbene, non soltanto leggeva le sue opere, ma le regalava pure e addirittura gli propose di redigere un Catechismo.
Offerta che il padre di don Camillo respinse, non sentendosi all’altezza.
Infine, bisogna ricordare la posizione di Giovanni XXIII sullo Stato di Israele.

Nel 1943, rivolgendosi alla Segreteria di Stato, così scriveva: “Confesso che questo convogliare, proprio la Santa Sede, gli ebrei verso la Palestina, quasi alla ricostruzione del regno ebraico, incominciando dal farli uscire d’Italia, mi suscita qualche incertezza nello spirito. 
Che ciò facciano i loro connazionali ed i loro amici politici lo si comprende. 
Ma non mi pare di buon gusto che proprio l’esercizio semplice ed elevato della carità della Santa Sede possa offrire l’occasione o la parvenza a che si riconosca in esso una tal quale cooperazione, almeno iniziale e indiretta, alla realizzazione del sogno messianico. 
Tutto questo però non è forse che uno scrupolo mio personale che basta aver confessato perché sia disperso. 
Tanto e tanto è ben certo che la ricostruzione del regno di Giuda e di Israele non è che un’utopia”.
Queste le parole del santo Pontefice.

Venendo agli aspetti spirituali e di Magistero di s. Giovanni XXIII, egli firmò un’Enciclica che non viene mai menzionata (guarda caso!), la Grata Recordatio (26 settembre 1959), tutta dedicata al Santo Rosario, preghiera che il Papa amava molto e raccomandava, confidando che recitava le tre corone quotidianamente. Un vero e proprio colpo mortale per chi pensa che la preghiera del Rosario sia superata o adatta solo a vecchiette bigotte. Non bisogna poi dimenticare la Lettera apostolica Inde a primis (30 giugno 1960), con la quale Giovanni XXIII promuoveva e rilanciava il culto al Preziosissimo Sangue di Gesù (culto che nel giro di dieci anni praticamente scomparì, venendo meno anche la festa liturgica). C’è poi uno dei testi meno noti di Papa Roncalli, un documento scomodo, approvato pochi mesi prima dell’apertura del Concilio, il 22 febbraio 1962: la Costituzione apostolica Veterum SapientiaSi tratta del documento che riafferma con forza l’uso del latino come lingua immutabile della Chiesa, lingua da studiare nei seminari, da impiegare nei documenti e negli atti ecclesiastici e, soprattutto, nella liturgia. Anche in questo caso, in meno di dieci anni tutto fu stravolto e l’apertura alla lingua volgare nella Messa si trasformò, di fatto, in completa abolizione del latino. Ma tale non era la volontà di Papa Giovanni.
A tal proposito, circa lo stravolgimento che ha subìto la liturgia dopo il Concilio, occorre notare che è proprio di Giovanni XXIII l’ultima edizione del Messale Romano “tridentino” (1962), che ancora oggi, grazie al Motu proprio Summorum Pontificum, i fedeli e i sacerdoti legati alla Messa antica possono usare. Se Roncalli avesse avuto in mente di rivoluzionare la celebrazione della Messa, non avrebbe pubblicato quel Messale, in cui peraltro fece aggiungere il nome di San Giuseppe nel Canone (anche questa scelta fu senza dubbio di orientamento tradizionale).Con Giovanni XXIII, pertanto, non vi furono strappi liturgici e quel che fu modificato (già a partire dalla riforma della Settimana Santa di Pio XII) rientrava nell’ottica di una giusta riforma nella continuità: maggior spazio (peraltro già prima del Concilio) al vernacolo, incentivazione della Messa dialogata, soppressione di ottave  ridondanti, e così via. Si dovrebbe domandare a certi tradizionalisti che storcono il naso anche di fronte al Messale del 1962 a cosa vorrebbero ritornare. Al Messale di Pio IX? A quello di Innocenzo III? A quello di Gregorio Magno? Oppure direttamente a san Pietro? Un conto è avere riserve sul Novus Ordo, che effettivamente, pur valido, è stato uno stravolgimento della liturgia cattolica e che andrebbe corretto quanto prima, altro è non accontentarsi mai e sognare l’immobilismo liturgico, che nella storia della Chiesa non c’è mai stato. Ecco perché non sarebbe un sacrilegio proporre di tornare al Messale “provvisorio” del 1965, frutto del Concilio, accettato, fin quando non cadde nel dimenticatoio, persino da mons. Marcel Lefebvre. Altra nota da considerare è che sì, Papa Giovanni tolse l’aggettivo perfidisriferito ai Giudei nella preghiera del Venerdì Santo, ma continuò a pregare per la loro conversione a Cristo senza ambiguità e senza che nessuno né oggi né allora protestasse, sia tra gli ebrei sia tra i cattolici. Tra l’altro, in difesa di Papa Roncalli e per ribadire che la riforma del 1970 è andata oltre quanto egli stesso pensava, va detto che quando era nunzio apostolico a Parigi, guardando gli altari di alcune chiese francesi girati per permettere al sacerdote di celebrare rivolto ai fedeli, disse che si trattava di “innovazioni liturgiche che poco mi piacciono”, ideate da “teste ardenti e un po’ bislacche”. Nella IV Domenica di Quaresima del 1963, a Ostia, ebbe ad esclamare: “sono molto contento di essere arrivato fin qua ma se mi debbo esprimere con un desiderio, vorrei che in chiesa non ridiate, non battiate le mani e non salutiate neanche il Papa”. E ancora, in tempi, come i nostri, in cui si esalta la povertà e la semplicità (in realtà trattasi di misero pauperismo) specie nel culto (che è dovuto a Dio e dunque dovrebbe prevedere la massima cura), nessuno sembra voler rammentare che Giovanni XXIII ha sempre usato la sedia gestatoria, i flabelli, il baldacchino, mitrie e paramenti preziosi, ricche croci pettorali, le pantofole rosse papali, la mozzetta bordata di ermellino, la tiara e persino il camauro! Se fosse stato così avanguardista come sostengono Melloni e compagnia cantante, avrebbe gettato tutto via (come purtroppo avvenne in seguito). E invece no. Anzi, non abolì nemmeno la Guardia nobile!
Anche la visione giovannea del sacerdozio era pienamente tradizionale. Nel Sinodo romano che si tenne nel 1960 furono stabilite rigide norme per il clero. I preti erano obbligati a portare sempre non solo la talare, ma anche il soprabito o almeno il ferraiolo e il cappello, non dovevano mai comparire in pubblico alla guida di un’automobile con a bordo una donna, fosse pure una parente, né andare al teatro, al cinema o allo stadio. Norme, come ognuno può vedere, assai rigide, ma assai significative se si pensa all’immensa dignità del sacerdozio e alla sua sacralità. Non è un caso che modello di Giovanni XXIII fu sempre il santo Curato d’Ars. D’altronde, che Roncalli concepisse il sacerdozio in maniera cattolica (e non simil-protestante come avviene oggi) lo si evince anche da come affrontò alcune questioni spinose. Sui preti operai fu, è vero, troppo cauto, nonostante avesse approvato il 3 luglio 1959 un decreto del Sant’Uffizio in cui tale esperienza veniva considerata incompatibile con la visione tradizionale del sacerdozio, ordinandone una graduale conclusione. In effetti, Papa Roncalli non condivise mai del tutto simili iniziative. Da nunzio a Parigi, scrisse sulla sua agenda, il 24 marzo 1952, che questi fenomeni erano “segno evidente di un difetto di sollecitudine nei Seminari: manca l’applicazione agli antichi princìpi di disciplina ecclesiastica”.
Giovanni XXIII si occupò anche di don Lorenzo Milani, idolo ancora oggi di tutti i progressisti. Ebbene, nel 1958 il libro del sacerdote fiorentinoEsperienze pastorali venne censurato dal Sant’Uffizio. Del resto, Roncalli, da cardinale ebbe a scrivere, circa don Milani e il suo testo: “L’autore del libro deve essere un povero pazzerello scappato dal manicomio. Guai se si incontra con qualche confratello della sua specie! (…) Ab insidiis diaboli libera nos, Domine!”. Ci fu poi il casoTeilhard de Chardin. La condanna delle sue opere risale al 1962, sette anni dopo la sua morte. I motivi del monito del Sant’Uffizio andavano trovati nell’evoluzionismo filosofico e teologico di Teilhard de Chardin. Un altro duro colpo, quindi, al pensiero progressista e modernista.

Insomma, senza negare alcuni punti deboli, Giovanni XXIII è stato tutt’altro che il Papa rivoluzionario e progressista descritto dall’informazione mainstream. San Giovanni XXIII è stato sì il Papa del Concilio, ma con la tiara e la Messa tridentina.

da campariedemaistre.com