L’altare verso il popolo

DODICE DOMANDE E DODICI RISPOSTE

di Mons. Klaus Gamber

“Poi venne un altro angelo e si fermò all’altare, reggendo un incensiere d’oro. Gli furono dati molti profumi perché li offrisse insieme con le preghiere di tutti i santi bruciandoli sull’altare d’oro, posto davanti al trono” (Apocalisse 8, 3).

Secondo la concezione dell’epistola agli Ebrei, il tempio terreno di Gerusalemme e il suo altare erano l’immagine del santuario che è in cielo ed in cui il Cristo, eterno sacerdote, è entrato (9, 24). La liturgia celeste e la liturgia terrestre sono una cosa sola. Così, secondo il passo dell’Apocalisse citato in epigrafe, un angelo è fermo davanti all’altare d’oro del cielo, con un incensiere d’oro in mano, allo scopo di offrire le preghiere dei fedeli al cospetto di Dio. Anche la nostra offerta terrena non diventa totalmente valida davanti a Dio se non è “condotta dalla mano di un angelo sull’altare celeste”, come è detto nel canone della messa romana.

La concezione secondo la quale l’altare di quaggiù è un immagine dell’archetipo celeste che si trova davanti al trono di Dio, ha sempre determinato sia la sistemazione dell’altare, sia la posizione del sacerdote nei confronti di esso: e noi abbiamo visto che l’angelo che regge l’incensiere d’oro è fermo davanti all’altare. D’altra parte, le prescrizioni che Dio ha dato a Mosè (cfr. Esodo 30, 1-8) hanno certamente svolto un ruolo anch’esse.

Queste osservazioni preliminari erano necessarie per far comprendere a che punto siano cambiate le concezioni attuali circa l’altare. Questo cambiamento non è stato effettuato brutalmente, ma poco la volta; si è cominciato diversi anni fa, prima del Concilio Vaticano II.

Nella Richtlinien für die Gestaltung des Gotteshauses aus dem Geist der römischen Liturgie (Istruzioni per la sistemazione delle chiese nello spirito della liturgia romana), del 1949, Theodor Klauser sostiene che: “Certi segni fanno intravedere che, nella Chiesa futura, il prete si terrà come un tempo dietro l’altare e celebrerà col viso volto verso il popolo, come si fa ancora oggi in certe basiliche romane; l’augurio, che si solleva dappertutto, di veder più chiaramente espressa la comunione al tavolo eucaristico, sembra esigere questa soluzione” (n° 8).

Ciò che Klauser presentava allora come augurabile, come si sa, nel frattempo è divenuto quasi dappertutto la norma. Si pensa di aver fatto rivivere così un uso della cristianità delle origini. Ora, come dimostreranno chiaramente le spiegazioni che seguono, si può provare con certezza che non si è mai avuta, né nella Chiesa d’Oriente né in quella d’Occidente, alcuna celebrazione versus populum (verso il popolo), ma che, al contrario, per pregare tutti si volgevano sempre ad Oriente, ad Dominum (verso il Signore).

L’idea di un “faccia a faccia” tra il sacerdote e l’assemblea, nel corso della messa, risale piuttosto a Martin Lutero, il quale, nel suo piccolo libro Deutsche Messe und Ordnung des Gottesdienstes (La messa tedesca e l’ordinazione del culto divino), del 1526, all’inizio del capitolo Della domenica per i laici, così scrive: “Noi conserveremo gli ornamenti sacerdotali, l’altare, le luci fino all’esaurimento o fino a quando non riterremo di cambiarle. Lasceremo, tuttavia, che altri possano fare diversamente; ma nella vera messa, fra veri cristiani, occorrerebbe che l’altare non restasse com’è adesso e che il prete si volgesse sempre verso il popolo, come senza alcun dubbio Cristo ha fatto al momento della Cena. Ma questo può attendere.” Ed ecco che il momento atteso è arrivato…

Per giustificare il cambiamento di posizione del celebrante in rapporto all’altare, il Riformatore si riferiva al comportamento di Cristo all’Ultima Cena. In effetti egli aveva davanti agli occhi le abituali raffigurazioni dei suoi tempi: Gesù in piedi o seduto a metà di una gran tavola, con gli Apostoli alla sua destra ed alla sua sinistra.

Ma Gesù, ha effettivamente occupato tale posto?

Certamente non avvenne così, poiché sarebbe stato contrario agli usi domestici dell’epoca. Al tempo di Gesù, e ancora secoli dopo, si utilizzava sia una tavola rotonda sia una tavola a forma di sigma (a semicerchio). Il davanti di essa veniva lasciato libero, per permettere il servizio. I convitati erano seduti o allungati dietro il semicerchio. Per far ciò utilizzavano dei divani o un banco, anch’esso a forma di sigma. Il posto d’onore non si trovava, come si potrebbe credere, in mezzo, ma a destra (in cornu dextro). Il secondo posto d’onore stava di fronte al primo. Questa disposizione dei posti la ritroviamo, in maniera costante, nelle raffigurazioni più antiche della Cena di Gesù, fino a metà del Medio Evo. Il Signore è sempre allungato o seduto dalla parte destra della tavola (fig. 4). È solo verso il XIII sec. che si incomincia ad imporre un nuovo tipo di raffigurazione: ed allora Gesù è posto dietro la tavola, in mezzo agli Apostoli che lo circondano. È questa l’immagine che Lutero aveva davanti agli occhi. In effetti, essa ha l’apparenza di una celebrazione versus populum. Tuttavia, in realtà non si tratta di niente di simile, poiché il “popolo” verso cui il Signore avrebbe dovuto volgersi, si sa che era assente nella sala della Cena. Cosa questa, che toglie ogni valore all’argomentazione di Lutero. D’altronde, per quanto ne sappiamo, anch’egli non ha mai preteso che si celebrasse volti verso l’assemblea, come in seguito hanno preso l’abitudine di fare i Riformati, soli fra le comunità protestanti.

Prima domanda: È possibile. Ma qual era la situazione nella Chiesa delle origini? I fedeli, non erano dunque seduti con il presidente alla “tavola del Signore”?

Qui è opportuno distinguere tra celebrazione dell’àgape – il pasto fraterno – e celebrazione dell’eucaristia, che all’inizio seguiva l’àgape e più tardi la precedette. Io ho già trattato a fondo la questione nel mio studio: Beracha. Nei primi secoli, quando il numero dei membri della comunità era ancora ristretto, si era conservata la stessa disposizione dei posti, a fedele imitazione dell’Ultima Cena, tanto più che essa corrispondeva agli usi dell’epoca. Diverse chiese domestiche della Chiesa delle origini, di cui si sono ritrovate le fondamenta nelle regioni alpine, lo provano chiaramente. Al centro di un locale relativamente piccolo (circa 5 metri per 12,5), si trova un banco in pietra semicircolare, capiente da quindici a venti posti (9). Nelle città, ove il numero dei fedeli era più elevato, si era obbligati ad aggiungere delle tavole supplementari. Il vescovo e i presbiteri stavano seduti ad una di queste, i fedeli nelle altre, le donne separate dagli uomini. Nell’epistola ai Gàlati (2, 11-12), l’apostolo Paolo rimprovera all’apostolo Pietro di aver preso cibo con i giudei convertiti, evitando i pagani convertiti. Ora, mentre per i pasti in comune, le àgapi, si stava seduti a delle tavole, per la celebrazione dell’eucaristia ci si alzava e ci si andava a porre dietro il celebrante, che stava all’altare, come prescrive espressamente la Didascalia degli Apostoli, una istruzione del II-III sec., che esigeva che ci si volgesse esattamente verso Oriente (10).Con gli sviluppi successivi, una volta soppressi i pasti fraterni (verso il IV sec.), le tavole sparirono. I fedeli ormai stavano seduti su dei banchi disposti lungo i muri della chiesa. La tavola d’altare, già in legno, divenne un altare in pietra.

Seconda domanda: Come ci si può opporre agli altari moderni, rivolti verso il popolo, quando essi sono stati prescritti dal Concilio e praticamente sono stati introdotti nel mondo intero?

 Nella Costituzione conciliare sulla sacra liturgia, promulgata dal Concilio Vaticano II, si cercherà invano una prescrizione che imponga di celebrare la santa messa volti verso il popolo. Ancora nel 1947, papa Pio XII, nella su enciclica Mediator Dei (n° 49), sottolineava come si sbagliassero coloro che volessero ridare all’altare la sua antica forma di mensa (tavola). Fino al Concilio la celebrazione verso il popolo non era autorizzata *, tuttavia essa era tacitamente tollerata da numerosi vescovi, soprattutto per le messe dei giovani. Da noi, in Germania, la nuova posizione del sacerdote fece la sua apparizione con la Jugendbewegung (movimento della giovinezza), negli anni venti, allorché si incominciò a celebrare l’eucaristia per dei piccoli gruppi; a questo proposito, Romano Guardini aveva svolto il ruolo di precursore, con le sue messe al castello di Rothenfels. Il movimento liturgico diffuse quest’uso, soprattutto Pius Parsch, che sistemò in questo senso, per la sua “parrocchia liturgica”, una piccola chiesa romana (Santa Gertrude) a Klosterneuburg, vicino Vienna. Infine, questi sforzi vennero approvati dall’istruzione della Congregazione dei Riti Inter œcumenici, del 1964, che ha ispirato in seguito il nuovo messale. Per le nuove costruzioni è qui prescritto che “È bene costruire l’altar maggiore separato dal muro, perché si possa facilmente girarvi attorno e vi si possa celebrare verso il popolo; esso sarà posto nell’edificio sacro in modo da essere veramente il centro verso il quale si volge spontaneamente l’attenzione dell’assemblea dei fedeli” (n° 91). Sfortunatamente, è esatto che i nuovi altari verso il popolo siano stati installati dovunque nel mondo – almeno per quanto riguarda l’area di diffusione della Chiesa cattolica. Ma, a rigore, essi non sono prescritti. Nelle chiese ortodosse d’Oriente – ove, dopo tutto, vi sono alcune centinaia di milioni di cristiani – si continua a rispettare l’uso della Chiesa delle origini, secondo cui il sacerdote che celebra il Santo Sacrificio è girato, insieme con i fedeli, verso l’àbside. Questo vale sia per le Chiese di rito bizantino (greca, russa, bulgara, serba, ecc.) sia per le Chiese dette di rito orientale antico (armena, siriana, copta). Che l’altare debba essere scostato dal muro “perché si possa facilmente girarvi attorno”, è un’altra questione. Questa esigenza della Congregazione dei Riti si accorda perfettamente con la tradizione ** . Per più di dieci secoli, come fino ad oggi nelle chiese ortodosse d’Oriente, l’altare è rimasto privo di sovrastrutture. Un cambiamento si produsse all’epoca gotica, con l’apparizione delle pale. Queste svolgevano in parte il ruolo dei dipinti dell’àbside e dei muri, raffigurando le diverse tappe della salvezza: dall’Annunciazione all’Ascensione del Signore. Mentre nelle piccole chiese gli altari erano spesso addossati al muro dell’àbside, nelle grandi chiese, come abbiamo visto, erano posti, fino all’epoca gotica, in mezzo al santuario. Ed allora era possibile girarvi intorno al momento dell’incensamento, com’è detto nel salmo 25: “…giro intorno al tuo altare, Signore, per far risuonare voci di lode e per narrare tutte le tue meraviglie”. Per sottolineare la santità dell’altare, questo – almeno nelle grandi chiese – era generalmente sormontato da un baldacchino in materiale prezioso, poggiante su quattro colonne. Ai quattro lati erano fissate delle cortine; certo in riferimento alla tenda del Tempio di Gerusalemme, che separava il Santo dei Santi (Sancta Sanctorum) dal santuario, come Dio aveva prescritto a Mosè: “Farai il velo di porpora viola, di porpora rossa, di scarlatto… Lo appenderai a quattro colonne di acacia, rivestite d’oro… Collocherai il velo sotto le fibbie e là, nell’interno oltre il velo, introdurrai l’arca della Testimonianza. Il velo sarà per voi la separazione tra il Santo e il Santo dei santi” (Esodo 26, 31-33). Come abbiamo già detto, nel rito bizantino è l’iconostàsi che attua la separazione, ma, secondo la concezione ortodossa, essa rappresenta anche, insieme alle icone, l’Ecclesia cœlestis (la Chiesa del Cielo) che celebra di concerto con i fedeli, tanto che essa dev’essere considerata, da quelli che partecipano alla celebrazione, non solo come una separazione, ma anche come un oggetto di contemplazione. In altri riti orientali non bizantini, l’iconostàsi manca; al suo posto vi sono, come presso gli Armeni, due tende: una piccola davanti all’altare e una grande che, in certi momenti della liturgia della messa, nasconde tutto il coro agli occhi dei fedeli. E a questo proposito san Giovanni Crisostomo dice: “Quando vedi chiudere le tende, pensa che in quel momento il cielo si apre lassù in alto e ne discendono gli angeli” (11). Secondo la testimonianza di Guillaume Durand, queste tende furono anche usate in Occidente, fino a metà del Medio Evo. Egli parla di tre vela: uno che ricopre le offerte del sacrificio, il secondo intorno all’altare e il terzo sospeso davanti al coro (12). Mentre la Chiesa delle origini dissimulava l’altare come poteva, ornandolo con tessuti preziosi e con pendoni, ecco che oggigiorno questo stesso altare si trova posto, nudo, in mezzo alla chiesa, esposto a tutti gli sguardi. La sua santità, in quanto luogo delle offerte del sacrificio, si ritrova così meglio evidenziata? Certamente no. A meno che non si voglia prendere in considerazione – contro tutte le tradizioni – la sua funzione di tavola da pasto e la si voglia rendere manifesta in tal modo. Allora, certamente, non mi resta che inchinarmi… Ma, in questo caso, non si tratta più di rendere presente quaggiù il mondo di lassù: si tratta solo dell’uomo e del suo universo. L’universo di Dio, degli angeli, dei santi, diventa marginale: ci sfiora appena. Forse, malgrado tutto, ci si interesserà ancora a un uomo chiamato Gesù e a qualche passo accuratamente selezionato del suo Vangelo!

Terza domanda: Tuttavia, non vi era già nel Medio Evo un altare destinato al popolo, per di più un altar maggiore, come lo abbiamo oggi?

Ciò è esatto nella misura in cui, nelle chiese cattedrali e nei monasteri, vi era in genere, da dopo la fine dell’epoca romana, un altare destinato al popolo, posto davanti al jubé; quest’ultimo era una specie di chiusura del coro, un po’ più alta di quella delle chiese antiche, con due entrate che davano sul coro dei canonici o dei monaci, i quali, in tal modo, si trovavano separati dal resto della chiesa. A causa della croce posta al di sopra di quest’altare, o più esattamente sul jubé, l’altare stesso veniva chiamato “altare della croce”. È su questo altare che, in queste chiese, si celebrava la messa per il “popolo” ***, come ogni altra messa destinata ad avere numerosi assistenti: la messa solenne per i funerali, quella per l’incoronazione di un sovrano (fig. 5). Per di più si predicava dall’alto del jubé e solo le messe conventuali (solenni) venivano celebrate all’altar maggiore, nel coro. Dunque, in primo luogo la funzione del jubé non era di elevare una barriera fra il clero e il popolo – e per questo non può essere paragonato all’iconostàsi bizantina – piuttosto esso era destinato a creare, per i canonici e per i monaci, uno spazio apposito, ove si potessero svolgere le funzioni liturgiche del coro (liturgia delle ore, messa conventuale) senza essere disturbati. Per delle ragioni sia liturgiche che architettoniche è stato del tutto irragionevole far sparire il jubé e l’altare della croce, come è accaduto quasi dappertutto in Germania all’epoca dei Lumi, su ordine delle autorità secolari (13). Come allora si procedette a delle importanti modifiche architettoniche all’interno delle chiese – per far sì che i fedeli potessero guardare direttamente l’altar maggiore – così oggi, in seguito al Concilio, quasi tutte le chiese antiche sono state ritoccate con dei lavori di “aggiornamento”. Chi giri adesso il mondo e visiti le chiese, scopre, per la sistemazione del santuario, le soluzioni più singolari. Soprattutto in Italia, dove è stato possibile, gli altari barocchi sono stati privati della loro tavola d’altare che è stata rimpiazzata dai seggi del celebrante e dei suoi assistenti. Si può pensare che sia la meno felice delle soluzioni, visto che la pala perde così la sua antica funzione di riferimento al sacrificio eucaristico per vedersi “degradata” a semplice schienale dei preti. Se non fosse che, nella maggior parte dei casi, l’antico altar maggiore, col suo tabernacolo, serve solo a conservare la santa comunione, così che occorre rassegnarsi al fatto che il sacerdote, in piedi davanti all’altare verso il popolo, gira costantemente le spalle al tabernacolo, lo stesso su cui fino a ieri si fissavano gli occhi dei fedeli in preghiera. Quando occorre, è la corale parrocchiale che si installa sui gradini dell’altar maggiore, con i cantori che volgono anch’essi le spalle al tabernacolo e si servono della tavola d’altare per poggiarvi i loro diversi accessori. Allorché le considerazioni artistiche lo hanno permesso, l’altar maggiore è stato totalmente soppresso, e l’eucaristia viene conservata in un tabernacolo murale laterale; ed allora sorge subito il problema di come occupare lo spazio così liberato dell’àbside. Le soluzioni adottate sono le più diverse. Spesso vi si è installato l’organo, con la sua cassa decorativa, oppure, per la maggior parte del tempo, la corale parrocchiale, oppure si è semplicemente appeso al muro dell’àbside l’antica pala d’altare o un pendone di valore, come fossero degli ornamenti. In definitiva, ognuna di queste soluzioni non è soddisfacente, poiché, installando un nuovo altare, per di più dall’apparenza molto modesta, si è fatto sparire il centro di gravità spaziale costituito dall’altar maggiore, così come era stato concepito dall’architetto che aveva costruito la chiesa. Senza alcun dubbio, A. Lorenzer ha ragione allorché scrive: “Il significato dell’altare, a questo punto, fa parte integrante della chiesa… che lo spostamento di questo “centro di gravità spaziale” dovrebbe indurre ad elaborare un piano interamente nuovo” (14). La cosa assume un’evidenza impressionante nelle grandi chiese, come per esempio nella cattedrale di Spira, ove lo sguardo di coloro che vi entrano si posa subito sull’antico altar maggiore sormontato dal suo baldacchino. Oggi quest’altare sembra fluttuare nel vuoto: la tavola d’altare installata nel coro, malgrado le sue dimensioni, si nota appena in questo spazio tutto volto in altezza, mentre l’altare verso il popolo, alcuni gradini più in basso, non costituisce affatto un “centro di gravità spaziale”.

Quarta domanda: Nell’Handbuch der Liturgie für Kanzel, Schule und Haus (Manuale di liturgia per la cattedra, la scuola e la casa), del P. Alfons Neugart (1926), si legge: “Nella basilica della Chiesa delle origini, l’altare era posto in mezzo all’àbside del coro e il prete celebrante si metteva dietro di esso, rivolto verso il popolo. Sull’altare non vi erano né croce né luci. I seggi del vescovo e degli ecclesiastici erano disposti tutt’intorno, lungo il muro. È solo più tardi che l’altare venne posto contro il muro, come oggi”. È esatto?

La cosa esatta è che nei primi secoli, i seggi dei vescovi e dei sacerdoti erano posti lungo il muro dell’àbside e non ai lati dell’altare; in ambito greco essi erano spesso nettamente rialzati su diversi scalini, di modo che il vescovo, assiso sul trono, potesse esser visto da tutti e meglio ascoltato al momento del suo sermone, che un tempo pronunciava dal suo seggio. Il seggio centrale era sempre riservato al vescovo, come accade ancora oggi in Oriente. È anche esatto che a quel tempo sull’altare non vi fosse né croce, né luci, né leggio per il messale, ma solo il calice e la patena con le offerte; lo si può constatare nelle raffigurazioni medievali della messa; e se fino ad un’epoca recente si usava decorare con dei fiori il pavimento della chiesa, l’altare non veniva mai decorato. Ecco perché in genere gli altari erano piccoli, con una tavola che raramente raggiungeva un metro quadrato. Nel chiostro della cattedrale di Ratisbona vi è, per esempio, un piccolo altare massiccio in pietra, che risale ad un’epoca molto antica, mentre vi si trova anche, nella “cattedrale antica”, un grandissimo altare di due metri e dieci per un metro e quaranta, che risale probabilmente al V secolo e che rappresenta una “confessione”, vale a dire che faceva parte della tomba di un martire. Ecco spiegata la sua taglia (15)! La limitata superficie della maggior parte degli altari lasciava posto solo per le offerte del pane e del vino: questa particolarità sottolineava significativamente il carattere sacrificale della messa, come accadeva per i sacrifici dei Giudei e dei pagani, per i quali solo le offerte propriamente dette trovavano posto sull’altare. Gli altari di grande dimensione erano rari nei tempi antichi, eppure, al pari degli altri che abbiamo citato, anch’essi erano riccamente ornati di stoffe preziose che cadevano dai quattro lati fino a terra, di modo che le tavole che ricoprivano non si presentavano come tali. Più tardi, in molti posti, si dispose sul lato anteriore degli altari un pendone di stoffa, di legno e di metallo riccamente ornato. Così che non si può affermare che il carattere di pasto della messa sia stato sottolineato dagli altari a forma di tavola. Parleremo dopo più a fondo della posizione del sacerdote all’altare ai tempi della Chiesa delle origini. Qui ricordiamo solo quanto scriveva sulla rivista Der Seelsorger, nel 1967, quindi poco dopo il Concilio, il P. Josef A. Jungmann, autore di un lavoro celebre, Missarum sollemnia: “L’affermazione spesso ripetuta che l’altare della Chiesa delle origini supponesse sempre che il prete fosse rivolto verso il popolo, si rivela essere una leggenda”. Inoltre, Jungmann mette in guardia contro il pericolo che, auspicando l’adozione dell’altare verso il popolo, “se ne faccia un’esigenza assoluta e, alla fine, una moda alla quale ci si sottometta senza riflettere”. Secondo lui, la ragione principale di questa raccomandazione di celebrare rivolti verso il popolo è la seguente: “Vi è qui, innanzi tutto, l’accento esclusivo che oggigiorno si ama tanto mettere sul carattere di pasto dell’eucaristia”. Da parte sua, il cardinale Joseph Ratzinger ha sempre più messo in guardia, in questi ultimi anni, contro il rischio di considerare la liturgia sotto il solo aspetto di “pasto fraterno” (16).

Quinta domanda: Il papa non celebra da tempo immemorabile rivolto verso il popolo, e non v’è in San Pietro, a Roma, un altare isolato su un podio, come nella maggior parte delle chiese moderne?

Sembrerebbe esatto che l’idea di un altare centrale isolato su un podio sia, in qualche modo, già prefigurata nella chiesa barocca di San Pietro (certo non nella chiesa costantiniana che l’ha preceduta): l’altare papale, leggermente sopraelevato, si trova isolato nel mezzo della chiesa, proprio al di sotto della cupola centrale, posta esattamente sopra la confessione con la tomba del Principe degli Apostoli; esso è facilmente visibile da ogni parte, sia dalla navata sia dai due bracci del transetto. Chi una volta partecipava alle messe papali notava che il papa non era posto, come nel resto della cristianità, davanti all’altare, bensì dietro. Alcuni liturgisti ne deducevano, avventatamente, che in tal modo si fosse conservata la posizione “verso il popolo”, posizione risalente alla Chiesa delle origini. In realtà si tratta, come abbiamo visto, dell’orientamento nella preghiera: la chiesa di San Pietro, a differenza delle chiese antiche, non ha l’àbside ad Est, bensì ad Ovest. Tuttavia, come dimostrano le foto scattate prima dell’elevazione al Soglio di Paolo VI, che intraprese la trasformazione dell’altare papale, i fedeli presenti potevano appena intravedere il papa, a causa dell’enorme dimensione dei candelieri e della croce, posti sull’altare. Non è dunque possibile, a stretto rigore, parlare di celebrazione versus populum. Non si trattava di un privilegio papale, come talvolta è stato affermato. Infatti vi sono a Roma delle altre chiese il cui àbside è posto ad Occidente e non ad Oriente e in cui il celebrante è ugualmente posto dietro l’altare. Nelle chiese moderne, costruite dopo il Concilio, si trova spesso, come a San Pietro, un altare isolato su un podio, ma ad esso manca il coronamento del primo: il baldacchino. Siccome si tratta di un podio isolato in mezzo alla chiesa, e dunque sprovvisto di ogni orientamento – e circondato dalle fila di sedie dei fedeli – è difficile trovare un posto adeguato per la croce dell’altare, di cui abbiamo esposto prima la funzione di punto di riferimento, croce che tuttavia continua ad essere richiesta dalle nuove regole liturgiche. Nell’Institutio generalis del nuovo messale, si prescrive: “Del pari, sull’altare o in prossimità di esso, vi sarà una croce, ben visibile dall’assemblea” (n° 270). Era questo il caso dell’”altare della croce” medievale ****, ma non lo è più adesso quando si verifica che, per soddisfare in una maniera o in un’altra questa prescrizione, si finisce con l’usare una piccola croce o a fianco dell’altare o poggiata su di esso.

Sesta domanda: Andava dunque bene che il sacerdote pregasse, come accaduto finora, in direzione del muro? Molto meglio vederlo girato verso l’assemblea!

Allorché si pone davanti all’altare, il sacerdote non prega in direzione di un muro, ma, insieme a tutti coloro che sono presenti, prega in direzione del Signore. Tanto più che fino ad adesso la cosa che più importava non era tanto di realizzare una qualche comunione, bensì di rendere il culto a Dio, tramite la mediazione del sacerdote, che rappresentava i partecipanti ed era unito ad essi. Parlando della direzione della preghiera, sant’Agostino, vescovo di Ippona, scrive: “Quando ci alziamo per pregare, ci volgiamo verso l’Oriente (ad orientem convertimur), da dove si alza il cielo. Non perché Dio si troverebbe solo lì, non perché Egli avrebbe abbandonato le altre regioni della terra… ma perché lo spirito sia esortato a volgersi verso una natura superiore, e cioè verso Dio” (17). Questo spiega perché dopo il sermone, i fedeli si alzavano per la preghiera e si volgevano verso Oriente. Sant’Agostino li invitava spesso a farlo alla fine dei suoi sermoni, impiegando a mo’ di formula consacrata le seguenti parole: “Conversi ad Dominum… (Rivolti al Signore). Possiamo ricordare qui le parole di san Paolo. Conscio che “finché abitiamo nel corpo siamo in esilio lontano dal Signore, camminiamo nella fede e non ancora in visione” egli preferisce essere “in esilio dal corpo ed abitare presso il Signore” (ad Dominum) (2 Corinti 5, 6-8). Così, volgersi verso il Signore e guardare ad Oriente era, per la Chiesa delle origini, una sola e medesima cosa. Nella sua opera fondamentale, Sol salutis (1920), Joseph Dölger si dice convinto che la risposta del popolo: “Habemus ad Dominum” (Sono rivolti al Signore), al richiamo del sacerdote: “Sursum corda” (In alto i nostri cuori!), significasse anche che ci si volgeva verso Oriente, verso il Signore (p. 256). A questo proposito, Dölger fa osservare che certe liturgie orientali prevedono espressamente questo invito, con un appello espresso dal diacono prima della preghiera eucaristica (anaphora) (p. 251). È il caso dell’anàfora copta di san Basilio, che comincia: “Accostatevi, voi uomini, mantenetevi rispettosi e guardate ad Oriente!”, ed anche dell’anàfora di san Marco, in cui lo stesso appello (Guardate ad Oriente!) viene espresso nel mezzo della preghiera eucaristica, prima del passaggio che conduce al Sanctus. La breve descrizione liturgica del secondo libro delle Costituzioni apostoliche (un’istruzione del IV secolo), dice anch’essa che ci si alza per pregare e ci si volge verso Oriente (18) . L’ottavo libro ci riporta l’appello corrispondente lanciato dal diacono: “Tenetevi in piedi verso il Signore!” (19). Come si può vedere, anche qui vi è il parallelismo fra il guardare ad Oriente e il volgersi verso il Signore. L’uso della preghiera in direzione del sol levante è da tempo immemorabile, come ha dimostrato anche Dölger; lo si ritrova presso i Giudei e presso i Romani. Vitruvio, nel suo lavoro sull’architettura, scrive: “I templi degli dei devono essere posizionati in modo tale che… l’immagine che è nel tempio guardi verso ponente, affinché coloro che andranno a sacrificare siano rivolti verso Oriente e verso l’immagine, di modo che, nel pregare, guardino sia il tempio sia la parte del cielo che è a levante, mentre le statue sembrano levarsi insieme al sole per guardare coloro che le pregano nei sacrifici” (20). Per Tertulliano (200 ca.) la preghiera verso Oriente è cosa scontata. Nel suo piccolo libro, Apologeticum, egli ricorda che i cristiani “pregano in direzione del sol levante” (cap. 16). Questo orientamento nella preghiera è stato evidenziato molto presto nelle case, con una croce sul muro. Se ne trova una in un locale di un piano superiore di una casa di Ercolano, seppellita dall’eruzione del Vesuvio del 79 (21).

Settima domanda: Ma, se non altro, vi sono degli studi, come quello conosciuto del prof. Otto Nussbaum, nei quali si dimostra scientificamente che fin dai tempi più remoti si sono avute delle celebrazioni verso il popolo, e che queste fossero anche le più antiche.

Nel suo studio di grande respiro, Der Standort des Liturgen am christlichen Altar (Il posto del liturgo all’altare cristiano), apparso nel 1965, Nussbaum scrive: “Quando comparvero gli edifici cultuali propriamente detti, non vi erano delle regole precise che fissavano da che parte dell’altare dovesse mettersi il liturgo. Egli poteva rimanere sia davanti che dietro l’altare” (p. 408). Egli ritiene che la celebrazione versus populum sia stata preferita fino al VI secolo. Tuttavia Nussbaum non distingue a sufficienza tra le chiese con l’àbside ad Est e quelle con l’àbside ad Ovest e la cui entrata era dunque ad Est. Quest’ultimo orientamento è quasi esclusivo delle basiliche del IV secolo, specialmente di quelle fatte erigere dall’imperatore Costantino e da sua madre Elena, come per esempio la chiesa di San Pietro a Roma. Ma, dall’inizio del V secolo, san Paolino da Nola indica come abituale (usitatior) l’àbside ad Est (22). In effetti, le basiliche con l’entrata ad Est si trovano soprattutto a Roma e nell’Africa del Nord, mentre sono relativamente rare in Oriente (a Tiro e ad Antiochia). L’entrata ad Oriente (basiliche costantiniane) imitava la disposizione del Tempio di Gerusalemme (cfr. Ezechiele 8, 16), come di altri templi antichi, le cui porte aperte lasciavano entrare la luce del sol levante, che faceva scintillare all’interno la statua del dio. Nelle basiliche cristiane con l’entrata ad Est, il celebrante era obbligato normalmente a rimanere davanti al lato “posteriore” dell’altare, al fine di essere rivolto ad Oriente al momento dell’offerta del Santo Sacrificio, esattamente come nelle chiese con l’àbside ad Oriente, nelle quali egli rimaneva “davanti” all’altare (ante altare), quindi con le spalle all’assemblea. Per il fatto che in certe basiliche con l’àbside ad Est vi fosse posto dietro l’altare anche per il celebrante, si è dedotto a volte che quest’ultimo si ponesse da questo lato, volgendosi così verso il popolo; specialmente quando nell’àbside vi era anche un banco per i sacerdoti, con un trono per il vescovo. Ora, si tratta di una conclusione chiaramente errata – adottata peraltro da Nussbaum – come si dimostra, in maniera irrefutabile, con l’aiuto degli scavi archeologici (23). Se così non fosse, per quale motivo si sarebbero costruite queste chiese esattamente orientate ad Est?

Ottava domanda: Quando il sacerdote si trovava posto “dietro” l’altare, nelle chiese che avevano l’àbside ad Occidente, come San Pietro a Roma, non si finiva, malgrado tutto, col celebrare rivolti al popolo?

No! Infatti, durante la preghiera eucaristica (canon missæ), non solo il celebrante, ma anche i fedeli si volgevano ad Oriente. Come ha fatto osservare san Giovanni Crisostomo (24), nei tempi antichi i fedeli stendevano le mani nel corso della preghiera, al pari del sacerdote (cfr. fig. 9, p. 46), e tutti guardavano in direzione delle porte aperte della chiesa, da dove penetrava la luce del sol levante, simbolo di Cristo resuscitato che ritorna. Al di là della particolare venerazione per il sol levante che aveva il costruttore di queste basiliche, l’imperatore Costantino, certamente ha avuto la sua influenza questo passo del profeta Ezechiele (43, 1-2): “Mi condusse allora verso la porta che guarda a Oriente, ed ecco che la gloria del Dio di Israele giungeva dalla via orientale…”. In tal modo, con le porte della basilica aperte sull’Oriente, ci si aspettava che il Cristo venisse a partecipare alla celebrazione dell’eucaristia, come dopo la sua resurrezione era apparso più volte ai suoi discepoli durante il pasto (cfr. Luca 24, 36-49; Giovanni 21; Atti 1, 4). All’origine i fedeli – donne e uomini separati – non stavano nella navata centrale, ma in quelle laterali *****, cosa questa che implicava che, nelle chiese antiche, il numero delle navate laterali potesse arrivare fino a sei (quelle del Laterano e di San Pietro, a Roma, ne hanno solo quattro). In definitiva, questo modo di prender posto nelle navate laterali corrispondeva all’abitudine di fermarsi lungo i muri laterali delle piccole chiese della cristianità delle origini. Tale abitudine è ancora oggi in atto nelle chiese d’Oriente: la navata o lo spazio centrale sotto la cupola rimangono liberi per le funzioni. I fedeli anziani prendono posto su delle sedie (stasidien) lungo i muri della chiesa e nelle navate laterali, gli altri assistono alla messa in piedi. In Oriente, la posizione del corpo più conveniente per la partecipazione liturgica, è quella in piedi, e non l’inginocchiarsi, com’era da noi una volta; tale posizione esige una grande disciplina fisica, soprattutto nel corso di offici che si prolungano. Come si evince da certi scavi e dalle raffigurazioni che sono state trovate (fig. 6), nelle basiliche costantiniane e nord-africane l’altare era quasi al centro della navata. Esso era attorniato da ogni lato da un recinto e, in genere, era sormontato da un baldacchino ******. Il coro dei cantori (schola cantorum) prendeva posto davanti al celebrante. Nelle chiese di Ravenna, benché fossero tutte orientate, si conservò per lungo tempo questa disposizione dell’altare e della schola in mezzo alla navata (25): la cosa è attestata fino all’VIII secolo. Lo stesso accadeva nella chiesa costantiniana di San Pietro, a Roma: l’altare non si trovava, come si potrebbe pensare, al di sopra della tomba dell’Apostolo, ma quasi al centro della navata centrale. In corrispondenza di dove era sotterrato il Principe degli Apostoli, vi era una “memoria” senza altare, sormontata da un baldacchino a colonne, come si può vedere in una raffigurazione molto antica, quella dello scrigno d’avorio di Pola (fig. 7). La supposizione spesso avanzata che vi fosse già un altar maggiore mobile, là ove i pellegrini entrano ed escono per visitare la tomba dell’Apostolo, non ha avuto alcun riscontro. Poiché, nella basiliche con l’àbside ad Occidente e l’altare in mezzo alla navata centrale, i fedeli si disponevano, come abbiamo visto, lungo le navate laterali – fra le cui colonne vi erano, peraltro, dei tendaggi che si aprivano durante la messa – di fatto non volgevano le spalle all’altare; cosa che peraltro non avrebbe neanche potuto essere supposta visto il rispetto che si portava alla santità dell’altare; bastava una leggera rotazione del corpo per volgersi, senza difficoltà, in direzione dell’entrata, verso Oriente. Anche nel caso inverosimile che nel corso della preghiera eucaristica i fedeli non guardassero verso l’entrata, ma verso l’altare, resta il fatto che, anche così, non si sarebbe potuto verificare il faccia a faccia tra il celebrante e l’assemblea, poiché, come abbiamo già detto, nei tempi antichi l’altare era nascosto dalle tende. A partire dal Medio Evo, l’altare di queste basiliche venne generalmente trasferito verso l’àbside. Nella chiesa di San Pietro ciò avvenne, come si sa, nel 600, sotto il papato di Gregorio Magno, il quale apportò anche importanti modifiche al coro e fece costruire una cripta circolare che permettesse ai pellegrini di recarsi liberamente alla tomba dell’Apostolo, senza dover passare per il presbiterio (fig. 8). Col passare degli anni, il popolo si dispose via via nella navata centrale. In una certa epoca (impossibile da precisare oggi), in queste basiliche costantiniane, gli assistenti smisero di volgersi verso Oriente, per rimanere rivolti all’altare; fu allora che si giunse ad una parvenza di celebrazione versus populum.

Nona domanda: Qual era la posizione del sacerdote e dei fedeli, in quelle chiese che avevano l’àbside orientato, chiese che costituivano, come si sa, la maggioranza dei santuari antichi?

Nelle basiliche a navate multiple e con l’àbside orientato, i partecipanti alla messa si disponevano in piedi lungo le navate laterali e in fondo alla navata centrale. In tal modo formavano una sorta di semicerchio aperto verso Oriente; il celebrante si veniva a trovare così nel punto di convergenza di questo semicerchio (al centro del cerchio virtuale). Invece, nelle basiliche che avevano l’àbside ad Occidente, il sacerdote, i chierici ed i cantori si venivano a trovare alla sommità di questo stesso semicerchio. Quando, più tardi, i fedeli finirono con l’occupare l’intera navata centrale, disponendosi in colonna, si venne a creare qualcosa di dinamico, che somigliava alla colonna del popolo di Dio in marcia nel deserto, in direzione della terra promessa: come se la posizione verso Est indicasse anche la meta della colonna: il Paradiso perduto che si cercava ad Est (cfr. Genesi 2, 8). Il celebrante e i suoi assistenti formavano la testa della colonna. La disposizione iniziale, quella che componeva un semicerchio, si presentava invece come composta secondo un princìpio statico: l’attesa del Signore che era asceso in cielo verso Oriente (cfr. Salmi 67, 34; Zaccaria 14, 4) e da lì sarebbe ritornato (cfr. Matteo 24, 27; Atti 1, 11); come quando si riceve una personalità eminente, e si arretra, a formare un semicerchio, per accogliere in mezzo l’ospite d’onore. San Giovanni Damasceno scrive: “Al momento della sua Ascensione, egli salì verso Oriente, è così che l’adorarono gli Apostoli, ed è così che ritornerà, allo stesso modo in cui lo videro salire in cielo, come ha detto il Signore stesso: “Come la folgore viene da oriente e brilla fino a occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo” (Matteo 24, 27). Ecco perché l’attendiamo e l’adoriamo rivolti ad Oriente: è una tradizione non scritta degli Apostoli” (26). Sulla base di questa concezione, a partire dal VI secolo circa, in numerose chiese – come si vede nelle pitture dell’epoca a Bawit, in Egitto – si raffigurava l’Ascensione del Signore sotto la volta principale dell’àbside: in alto il Cristo glorioso condotto da due angeli, al di sotto Maria, che rappresentava la Chiesa, in preghiera con le mani volte al cielo, alla sua destra ed alla sua sinistra gli Apostoli. Questa raffigurazione rappresentava sia la glorificazione di Gesù in cielo sia la sua seconda venuta, secondo le parole rivolte dai due angeli agli Apostoli al momento dell’Ascensione: “Questo Gesù che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (Atti 1, 11) (27). Più tardi, nei dipinti delle àbsidi in Occidente, il Cristo in trono nella mandorla fu tratto da queste antiche raffigurazioni, e, come Majestas Domini circondata dai simboli dei quattro evangelisti, divenne il tipico dipinto delle àbsidi dell’arte romana. Nell’Oriente bizantino il Signore che ascende in cielo venne dipinto sia sotto la volta principale dell’àbside, come Pantocrate, sia sotto la cupola che sovrastava l’altare insieme al complesso dell’Ascensione; in quasi tutti i casi, però, la Madre di Dio non vi figurava più perché la sua immagine era riservata alla decorazione dell’àbside (fig. 2). Il posto centrale attribuito a Maria nell’àbside si deve sicuramente ad un passo dell’Apocalisse: “Allora si aprì il santuario di Dio nel cielo e apparve nel santuario l’arca dell’alleanza… Nel cielo apparve poi un segno grandioso: un donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle” (Apocalisse 11, 19; 12, 1). Si noterà qui la relazione tra Maria-Ecclesia e Arca dell’Alleanza, ma anche il fatto che il velo del tempio – e cioè il santuario che questo copriva – si apriva solo in certi momenti ben precisi. Il mistero, il tremendum, esige d’esser velato, e così nasce il desiderio di vederlo rivelarsi; cosa che oggigiorno si dimentica troppo facilmente. L’apostolo Paolo scrive: “Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia” (I Corinti 13, 12). Guardare ad Est non significa solo guardare al Signore trasfigurato in cielo e atteso alla fine dei tempi, ma esprime anche il desiderio della manifestazione ultima, della rivelazione della gloria futura.

Decima domanda: Tuttavia, il fatto che nelle più antiche basiliche romane l’altare e l’àbside potessero trovarsi in tutte le direzioni è in contraddizione con l’affermazione che alle origini si sarebbe sempre pregato verso Est e che di conseguenza le chiese fossero “orientate”. Come si spiega?

Il fatto è che in questo caso si tratta di chiese edificate su del materiale da costruzione risalente all’Antichità, oppure di chiese che le condizioni locali non permettevano che venissero perfettamente orientate. Tuttavia, questo non impediva che il sacerdote ed i fedeli si volgessero insieme verso l’Oriente per la preghiera e il sacrificio, come voleva l’uso cristiano abituale. Così, per esempio, la celebre chiesa di San Clemente, a Roma, che è stata edificata su delle antiche fondazioni, ha l’entrata a sud-est: ecco perché il celebrante si dispone dietro l’altare; d’altronde, una celebrazione davanti l’altare non sarebbe assolutamente possibile, data la disposizione dei luoghi. Per guardare verso Oriente, al momento del Santo Sacrificio, al sacerdote basta girare leggermente il corpo; lo stesso dicasi per i fedeli disposti nelle navate laterali (a San Clemente la navata centrale serve per la schola, in essa si trovano anche i due amboni per la lettura dell’epistola, del graduale e del Vangelo). Nel suo libro, Le rite et l’homme, Louis Bouyer scrive: “L’idea che la basilica romana sarebbe la forma ideale della chiesa cristiana, perché permetterebbe una celebrazione in cui il prete e i fedeli si disporrebbero faccia a faccia, è un completo controsenso. È l’ultima delle cose a cui gli antichi avrebbero pensato” (p. 241). Ad ogni modo, come abbiamo già visto, il preciso orientamento delle chiese, come lo si riscontra a partire dal IV-V secolo, non avrebbe avuto senso se non fosse stato in stretta relazione con l’orientamento nella preghiera. A sostegno dell’opinione secondo la quale l’altare propriamente detto (e la croce che lo sovrasta) sarebbe il punto di riferimento verso il quale si volgono i fedeli e che, idealmente, dovrebbero attorniare, si ama citare, a mo’ d’esempio, l’espressione del memento dei vivi, del canone della messa: “… et omnium circumstantium…” (… e di tutti i circostanti…). Occorre precisare che, nel suo significato filologico, il termine circumstantes contenuto in questa espressione designa globalmente “le persone presenti” e non solo “quelli che si trovano in cerchio intorno a…”; tant’è che, dagli scritti dell’epoca, non si ha notizia di casi di fedeli che si sarebbero disposti in cerchio attorno all’altare durante la celebrazione della messa. D’altronde, non avrebbero potuto farlo, se non altro perché i laici, come ancora oggi in Oriente, non avevano il diritto di penetrare nel santuario. Il rispetto si sviluppa quando è incoraggiato dai comportamenti esteriori e, se è il caso, dalle interdizioni destinate ad evitare le profanazioni. Quando, per esempio, un sagrestano può poggiare sull’altare, senza il minimo scrupolo, una sedia o una scala per sistemare dietro l’altare, in alto, dei candelieri o dei fiori, la santità di questo altare ne resta rozzamente offesa. Cosa inimmaginabile in una chiesa d’Oriente! Di contro, possiamo dire che l’espressione “… et omnium circumstantium…” può far pensare alla buona abitudine che dovrebbero prendere i fedeli durante l’offerta del Santo Sacrificio: in piedi, pieni di rispetto (fig. 9). Ma, ai giorni nostri, queste “persone presenti” si trasformano facilmente in “persone sedute” (in modo confortevole) su delle sedie, anche a causa della presenza di queste ultime nelle chiese attuali, le quali invitano a prender posto. Certo, cambiare il modo di vedere moderno in questo campo non sarebbe cosa facile; tuttavia non si dovrebbe mai dimenticare che la stazione eretta è l’attitudine liturgica per eccellenza, che fra l’altro favorisce lo spirito comunitario.

Undicesima domanda: Tutto ciò è molto bello… Ma non bisogna fare i conti con il fatto che l’uomo moderno non è più tanto capace di comprendere che per pregare bisogna volgersi ad Oriente?

Per lui il sol levante non ha più la forza simbolica che aveva per l’uomo dell’Antichità e che ha ancora oggi per i paesi mediterranei, battuti dal sole in maniera più intensa che da noi, “uomini del nord”. Ai cristiani odierni è quanto meno la comunione della mensa eucaristica che più importa. Anche se l’uomo moderno non presta più attenzione alla direzione esatta verso cui prega – anche se i musulmani continuano a volgersi verso la Mecca e i giudei verso Gerusalemme – tuttavia non dovrebbe avere difficoltà a comprendere il significato che riveste il fatto che il sacerdote e i fedeli preghino insieme nella stessa direzione. Ad ogni modo, l’uso che tutti i presenti siano insieme orientati “verso il Signore” è qualcosa di atemporale e conserva anche oggi tutto il suo significato. A fianco dell’aspetto teologico relativo al faccia a faccia tra il sacerdote ed i fedeli al momento della celebrazione del sacrificio eucaristico, è il caso di richiamare anche i problemi di ordine sociologico, che appartengono anch’essi alla messa in risalto della “comunione della mensa eucaristica”. Il prof. W. Siebel, nel suo piccolo libro intitolato Liturgie als Angebot (La liturgia all’asta), pensa che il sacerdote volto verso il popolo può essere considerato come “il più perfetto simbolo del nuovo spirito della liturgia”, “La posizione in uso fino a ieri faceva apparire il prete come il capo e il rappresentante della comunità, che parlava a Dio a nome di quest’ultima, come Mosè sul Sinai: la comunità indirizza a Dio un messaggio (preghiera, adorazione, sacrificio), il prete, in quanto capo, trasmette questo messaggio, e Dio lo riceve”. Con la nuova pratica, continua Siebel, il sacerdote “non sembra più neanche il rappresentante della comunità, ma piuttosto si presenta come un attore che – almeno nella parte centrale della messa – svolge il ruolo di Dio, un po’ come a Oberammergau o in altre rappresentazioni della Passione”. E conclude: “Ma se, in nome di questa nuova svolta, il prete diventa un attore incaricato di interpretare il Cristo sulla scena, ecco che allora, a causa di questa riproposizione teatrale della Cena, Cristo e il prete finiscono con l’identificarsi in una maniera a momenti insopportabile”. Siebel spiega anche la buona volontà con la quale i preti hanno adottato la celebrazione versus populum: “Il considerevole disorientamento e la solitudine dei preti hanno fatto sì che essi cercassero dei nuovi punti d’appoggio per il loro comportamento. Fra questi vi è il sostegno emotivo che procura al prete la comunità riunita intorno a lui. Ma ecco che nasce immediatamente una nuova dipendenza: quella dell’attore di fronte al suo pubblico”. Anche K. G. Rey, nel suo libro Pubertätserscheinungen in der katholischen Kirche (Manifestazioni pubertarie nella Chiesa cattolica), dichiara: “Mentre fino a ieri il prete offriva il sacrificio in quanto intermediario anonimo, in quanto capo della comunità, rivolto a Dio e non al popolo, in nome di tutti e con tutti; mentre fino a ieri pronunciava delle preghiere… che gli erano state prescritte, oggi questo prete ci viene incontro in quanto uomo, con le sue particolarità umane, col suo stile di vita personale, il viso rivolto a noi. Per molti preti diviene forte la tentazione di prostituire la propria persona, tentazione contro la quale non hanno la statura per lottare. Alcuni molto astutamente, ed altri con meno astuzia, volgono la situazione a proprio vantaggio. Le loro attitudini, la loro mimica, i loro gesti, tutto il loro comportamento attira gli sguardi che si fissano su di loro, per le loro ripetute osservazioni, le loro direttive, le parole d’accoglienza o d’addio… In tal modo, il successo dei loro suggerimenti costituisce, in cuor loro, la misura del loro potere e, quindi, la norma della loro sicurezza” (p. 25). A proposito dell’augurio espresso da Klauser, e che abbiamo riportato prima, “di veder più chiaramente espressa la comunione al tavolo eucaristico”, grazie alla celebrazione versus populum, lo stesso Siebel, nel suo libro citato, dichiara: “L’augurata riunione dell’assemblea attorno al tavolo della Cena, non può certo contribuire al rafforzamento della coscienza comunitaria. In effetti, solo il prete sta vicino al tavolo, e per di più in piedi; gli altri partecipanti al pasto sono seduti più o meno lontani, nella sala del teatro”. E aggiunge: “In genere, il tavolo è posto lontano dai fedeli, su un palco, così che non è possibile far rivivere gli intimi rapporti che esistevano nella sala in cui si svolse la Cena. Il prete che svolge il suo ruolo girato verso il popolo, difficilmente può evitare di dare l’impressione di rappresentare un personaggio che, pieno di gentilezza, viene a proporci qualcosa. Per limitare questa impressione si è provato a piazzare l’altare in mezzo all’assemblea; ed allora non si è più obbligati a guardare solo il prete, l’occhio può spaziare anche sugli assistenti che gli stanno a fianco; ma così facendo si fa sparire il distacco esistente fra la spazio sacro e l’assemblea: l’emozione un tempo suscitata dalla presenza di Dio nella chiesa, si muta in un pallido sentimento che a mala pena si distingue dalla ordinaria quotidianità”. Ed allora, possiamo dire che il sacerdote posto dietro l’altare, con lo sguardo rivolto al popolo, diviene, dal punto di vista sociologico, sia un attore interamente dipendente dal suo pubblico, sia un venditore che ha qualcosa da proporre. Nel suo libro, che abbiamo già citato, Das Konzil der Buchhalter, Alfred Lorenzer richiama ancora altri punti di vista, in particolare d’ordine estetico: “Non solo il microfono rivela ogni respiro, ogni rumore occasionale, ma la scena che si svolge assomiglia molto più alla presentazione televisiva di certe ricette di cucina, che alle forme liturgiche delle Chiese riformate. Mentre in queste ultime l’azione sacra è stata emarginata – ridotta al massimo di semplicità e brevità – nella riforma liturgica cattolica essa conserva il suo posto principale: privata dei suoi ornamenti gestuali essa conserva minuziosamente tutta la complessità del suo svolgimento, ed è ormai presentata agli occhi di tutti in una pseduo-trasparenza che confonde la percezione sensibile delle manipolazioni con la trasparenza del mito, manipolazioni che sono eseguite in maniera tale che ogni dettaglio di questo rituale alimentare finisce con l’essere esibito sempre con poca discrezione; si vede un uomo rompere con difficoltà un’ostia che resiste, si vede com’egli se la ficca in bocca, si diviene testimoni di abitudini masticatorie personali, non sempre molto belle, di modi con cui ingoiare del pane secco, di tecniche usate per far girare il calice da purificare e di sistemi più o meno abili per asciugarlo” (p. 192). Queste sono le conseguenze sociologiche della posizione del celebrante di fronte all’assemblea. Certo, le cose stanno diversamente al momento della proclamazione della parola di Dio. Questa presuppone proprio il faccia a faccia tra il prete e il popolo, come è stato sempre scontato che il predicatore si volgesse verso i fedeli, al pari del diacono che cantava il Vangelo. Ma, come abbiamo ripetuto, è cosa diversa la celebrazione del vero e proprio sacrificio eucaristico: in questo caso la liturgia non si concretizza in una “offerta” ai fedeli, come nel caso della liturgia della Parola, si tratta bensì di un avvenimento sacro nel corso del quale il cielo e la terra si uniscono e il Dio della grazia si inclina verso di noi. Solo al momento della comunione, del pasto eucaristico vero e proprio, si ritorna al faccia a faccia tra il prete e i comunicandi. E questi cambiamenti di posizione del celebrante nei confronti dell’altare hanno un preciso significato simbolico e sociologico: quando il celebrante prega e sacrifica ha, al pari dei fedeli, gli occhi rivolti a Dio, mentre quando proclama la parola di Dio e distribuisce l’eucaristia si volge verso il popolo. Come abbiamo visto, il volgersi verso l’Est è così antico che la Chiesa ha fatto di questa attitudine un uso che non può essere modificato. “Si cerca” costantemente “con gli occhi il luogo ove è posto il Signore” (J. Kunstmann) o, come dice Origène nel suo libro sulla preghiera (cap. 32), il volgersi ad Oriente è “un simbolo, quello dell’anima che guarda verso il sorgere della vera luce”, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo” (Tito 2, 13).

Dodicesima domanda: Perché, come si sostiene, il carattere sacrificale della messa sarebbe meno chiaramente espresso quando il prete è girato verso il popolo?

La domanda può essere ribaltata: dal momento che gli specialisti sanno molto bene che esaltare “l’altare rivolto al popolo” non significa richiamarsi ad una pratica della Chiesa delle origini, perché non ne traggono le inevitabili conseguenze? Perché non sopprimono i “tavoli da pranzo” eretti con una sorprendente coralità nel mondo intero?Molto probabilmente perché questa nuova posizione dell’altare corrisponde, meglio dell’antica, alla nuova concezione della messa e dell’eucaristia. È molto chiaro che oggigiorno si vorrebbe evitare di dare l’impressione che la “tavola santa” (come viene chiamato l’altare in Oriente) sia un altare per il sacrificio. Senza dubbio è la stessa ragione per la quale, quasi dappertutto, si pone sull’altare un mazzo di fiori (uno solo), come sulla tavola da pranzo di una famiglia in un giorno di festa, insieme a due o tre ceri: questi quasi sempre a sinistra, il vaso dal lato opposto. L’assenza di simmetria è voluta: non bisogna creare dei punti di riferimento centrali, come quando si mettevano i candelieri alla destra ed alla sinistra della croce che stava in mezzo; qui si tratta solo di una tavola da pranzo. Non ci si mette dietro l’altare del sacrificio, ci si mette davanti; già il sacrificatore pagano faceva così, il suo sguardo era diretto verso la raffigurazione della divinità a cui si offriva il sacrificio; anche nel Tempio di Gerusalemme si faceva così: il sacerdote incaricato di offrire la vittima stava davanti alla “tavola del Signore”, come si chiamava il grande altare dell’olocausto nel cuore del Tempio (cfr. Malachia 1, 12), e questa “tavola del Signore” era collocata di fronte al tempio interno ov’era custodita l’Arca dell’Alleanza, il Santo dei Santi, il luogo in cui dimorava l’Altissimo (cfr. Salmi 16, 15). Un pranzo si consuma con il padre di famiglia che presiede, in seno alla cerchia famigliare; mentre invece, in tutte le religioni, esiste una apposita liturgia per il compimento del sacrificio, liturgia che prevede che il sacrificio si compia all’interno o davanti ad un santuario (che può essere anche un albero sacro): il liturgo è separato dalla folla, sta davanti ai presenti, di fronte all’altare, rivolto alla divinità. In tutti i tempi, gli uomini che hanno offerto un sacrificio si sono sempre rivolti verso colui al quale il sacrificio era diretto e non verso i partecipanti alla cerimonia. Nel suo commento al libro dei Numeri (10, 27), Origène si fa interprete della concezione della Chiesa delle origini: “Colui che si pone dinanzi all’altare dimostra con ciò di svolgere le funzioni sacerdotali. Ora, la funzione del prete consiste nell’intercedere per i peccati del popolo”. Ai giorni nostri, in cui il senso del peccato sparisce sempre più, la concezione espressa da Origéne sembra essersi largamente perduta. Lutero, lo si sa, ha negato il carattere sacrificale della messa: egli non vi vedeva altro che la proclamazione della parola di Dio, seguita da una celebrazione della Cena; da qui la sua preoccupazione di vedere il liturgo rivolto verso l’assemblea. Certi teologi cattolici moderni non negano direttamente il carattere sacrificale della messa, ma preferirebbero che questo passasse in secondo piano al fine di poter meglio sottolineare il carattere di pasto della celebrazione; questo, il più delle volte, a causa di considerazioni ecumeniche a favore dei protestanti, dimenticando però che per le Chiese orientali ortodosse il carattere sacrificale della divina liturgia è un fatto indiscutibile. Solo l’eliminazione della tavola da pranzo e il ritorno alla celebrazione all’”altar maggiore” potranno condurre ad un cambiamento nella concezione della messa e dell’eucaristia, e cioè alla messa intesa come atto d’adorazione e di venerazione di Dio, come atto d’azione di grazia per i suoi benefici, per la nostra salvezza e la nostra vocazione al regno celeste, e come rappresentazione mistica del sacrificio della croce del Signore. Questo, tuttavia, non esclude, come abbiamo visto, che la liturgia della Parola sia celebrata non all’altare, ma dal seggio o dall’ambone, com’era un tempo durante la messa episcopale. Ma le preghiere devono essere tutte recitate in direzione dell’Oriente, e cioè in direzione dell’immagine di Cristo nell’àbside e della croce sull’altare. Visto che durante il nostro pellegrinaggio terreno non ci è possibile contemplare tutta la grandezza del mistero celebrato, e ancor meno lo stesso Cristo, né l’”assemblea celeste”, non basta parlare ininterrottamente di ciò che il sacrificio della messa ha di sublime, bisogna invece fare di tutto per mettere in evidenza, agli occhi degli uomini, la grandezza di questo sacrificio, per mezzo della stessa celebrazione e della sistemazione artistica della casa del Signore, in particolar modo dell’altare. Allo svolgimento della liturgia e alle immagini, si può applicare ciò che dice dei “veli sacri” lo Pseudo Dionigi l’Areopagita, nella sua opera Sui nomi divini (1, 4): questi veli “che [ancora adesso] nascondono lo spirituale nell’universo sensibile, e il sovra terreno nel terreno, che conferiscono forma e immagine a ciò che non ha né forma né immagine… Ma il giorno verrà che, essendo divenuti incorruttibili e immortali e avendo raggiunto la pace beata accanto a Cristo, saremo, come dice la Scrittura, presso il Signore (cfr. I Tessalonicesi 4, 17) tutti pieni di contemplazione per la sua apparizione visibile”.

(tratto da MONS. KLAUS GAMBER, Tournés vers le Seigneur!, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux, F, pp. 19-55 –

NOTE:
(9) – Cfr. K. Gamber, Das Patriarchat Aquileja und die bairische Kirche (Il Patriarcato di Aquileia e la Chiesa bavarese), pp. 22-55
(10) – II, 57, 2-58, 6 (Paderborn, 1906), ed. Funk.
(11) – Migne, PG 62, 29.
(12) – Rational, I, 3, n° 35.
(13) – Sull’argomento cfr. l’articolo di K. Gamber in Das Münster, 1985.
(14) – Das Konzil der Buchhalter (Il concilio dei contabili), p. 200.
(15) – Cfr. K. Gamber, Ecclesia Reginensis, pp. 49-66.
(16) – Cfr. Entretiens sur la foi, Fayard, 1975, p. 158.
(17) – Migne, PL, 34, 1277.
(18) – Cap. 57, 14, ed. Funk, p. 165.
(19) – Cap. 12, 2, ed. Funk, p. 494.
(20) – I, libro 4, cap. 5, ed. E. Tardieu et A. Cousin fils, p. 173.
(21) – Cfr. E. C. Conte Corti, Vie, mort et résurrection d’Herculanum et de Pompéi, fig. 29.
(22) – Ep. 32, 13 (Migne, PL 61, 337).
(23) – Cfr. K. Gamber, Liturgie und kirchenbau (Liturgia e costruzione delle chiese), pp. 16-18.
(24) – Migne, PG 62, 204.
(25) – Cfr. K. Gamber, Liturgie und kirchenbau (Liturgia e costruzione delle chiese), pp. 132-136.
(26) – Migne, PG 94, 1136.
(27) – Cfr. K. Gamber, Sancta sanctorum, pp. 31-34.

 

 

Le “innovazioni temerarie” secondo Pio XII

tratto dall’ ENCICLICA ”MEDIATOR DEI” DI S. S. PIO XII

[…] Certo, la Chiesa è un organismo vivente, e perciò, anche per quel che riguarda la sacra Liturgia, ferma restando l’integrità del suo insegnamento, cresce e si sviluppa, adattandosi e conformandosi alle circostanze ed alle esigenze che si verificano nel corso del tempo; tuttavia è severamente da riprovarsi il temerario ardimento di coloro che di proposito introducono nuove consuetudini liturgiche o fanno rivivere riti già caduti in disuso e che non concordano con le leggi e le rubriche vigenti. Così, non senza grande dolore, sappiamo che accade non soltanto in cose di poca, ma anche di gravissima importanza; non manca,difatti, chi usa la lingua volgare nella celebrazione del Sacrificio Eucaristico, chi trasferisce ad altri tempi feste fissate già per ponderate ragioni; chi esclude dai legittimi libri della preghiera pubblica gli scritti del Vecchio Testamento, reputandoli poco adatti ed opportuni per i nostri tempi.

L’uso della lingua latina come vige nella gran parte della Chiesa, è un chiaro e nobile segno di unità e un efficace antidoto ad ogni corruttela della pura dottrina. In molti riti, peraltro, l’uso della lingua volgare può essere assai utile per il popolo, ma soltanto la Sede Apostolica ha il potere di concederlo, e perciò in questo campo nulla è lecito fare senza il suo giudizio e la sua approvazione, perché, come abbiamo detto, l’ordinamento della sacra Liturgia è di sua esclusiva competenza.

Allo stesso modo si devono giudicare gli sforzi di alcuni per ripristinare certi antichi riti e Cerimonie. La Liturgia dell’epoca antica è senza dubbio degna di venerazione, ma un antico uso non è, a motivo soltanto della sua antichità, il migliore sia in se stesso sia in relazione ai tempi posteriori ed alle nuove condizioni verificatesi. Anche i riti liturgici più recenti sono rispettabili, poiché sono sorti per influsso dello Spirito Santo che è con la Chiesa fino alla consumazione dei secoli, e sono mezzi dei quali l’inclita Sposa di Gesù Cristo si serve per stimolare e procurare la santità degli uomini.

È certamente cosa saggia e lodevolissima risalire con la mente e con l’anima alle fonti della sacra Liturgia, perché il suo studio, riportandosi alle origini, aiuta non poco a comprendere il significato delle feste e a indagare con maggiore profondità e accuratezza il senso delle cerimonie; ma non è certamente cosa altrettanto saggia e lodevole ridurre tutto e in ogni modo all’antico. Così, per fare un esempio, è fuori strada chi vuole restituire all’altare l’antica forma di mensa; chi vuole eliminare dai paramenti liturgici il colore nero; chi vuole escludere dai templi le immagini e le statue sacre; chi vuole cancellare nella raffigurazione del Redentore crocifisso i dolori acerrimi da Lui sofferti; chi ripudia e riprova il canto polifonico anche quando è conforme alle norme emanate dalla Santa Sede.

Come, difatti, nessun cattolico di senso può rifiutare le formulazioni della dottrina cristiana composte e decretate con grande vantaggio in epoca più recente dalla Chiesa, ispirata e retta dallo Spirito Santo, per ritornare alle antiche formule dei primi Concili, o può ripudiare le leggi vigenti per ritornare alle prescrizioni delle antiche fonti del Diritto Canonico, così, quando si tratta della sacra Liturgia, non sarebbe animato da zelo retto e intelligente colui il quale volesse tornare agli antichi riti ed usi ripudiando le nuove norme introdotte per disposizione della Divina Provvidenza e per le mutate circostanze. Questo modo di pensare e di agire, difatti, fa rivivere l’eccessivo ed insano archeologismo suscitato dall’illegittimo concilio di Pistoia, e si sforza di ripristinare i molteplici errori che furono le premesse di quel conciliabolo e ne seguirono con grande danno delle anime, e che la Chiesa, vigilante custode del «deposito della fede» affidatole dal suo Divino Fondatore, a buon diritto condannò. Siffatti deplorevoli propositi ed iniziative tendono a paralizzare l’azione santificatrice con la quale la sacra Liturgia indirizza salutarmente al Padre celeste i figli di adozione.

Tutto, dunque, sia fatto nella necessaria unione con la Gerarchia ecclesiastica. Nessuno si arroghi il diritto di essere legge a se stesso e di imporla agli altri di sua volontà. Soltanto il Sommo Pontefice, in qualità di successore di Pietro al quale il Divin Redentore affidò il gregge universale, ed insieme i Vescovi che, sotto la dipendenza della Sede Apostolica, «lo Spirito Santo pose . . . a reggere la Chiesa di Dio», hanno il diritto e il dovere di governare il popolo cristiano. Perciò, Venerabili Fratelli, ogni qual volta voi tutelate la vostra autorità all’occorrenza anche con severità salutare, non soltanto adempite il vostro dovere, ma difendete la volontà stessa del Fondatore della Chiesa. […]

La Messa come la voleva il Concilio

Alcune considerazioni del 2003 sulla celebrazione della Santa Messa (dal sito della Diocesi di S. Rufina). Già allora qualche sacerdote proponeva una celebrazione del Novus Ordo Missae secondo canoni tradizionali, ben prima dell’ascesa al pontificato di Benedetto XVI e dell’uscita del nostro amato Motu Proprio Summorum Pontificum

 

di p. Joseph Fessio s.j.

Padre Joseph Fessio è membro della Compagnia di Gesù. Nel 1975 ha conseguito il dottorato in teologia a Ratisbona con J. Ratzinger. Pubblicista, docente di filosofia e teologia, è stato fondatore, tra l’altro, del St. Ignatius Institute a San Fancisco in California e della casa editrice Ignatius Press. L’articolo risale al periodo del suo cancellierato presso l’Ave Maria University, in Florida.

Preambolo
Nella riforma della Sacra Liturgia promossa dal Concilio Vaticano II, vengono suggerite diverse scelte che il celebrante della Messa o, in alcuni casi, i fedeli possono fare. Alcune, tra cui diverse di antica consuetudine nella Chiesa, raramente si scelgono e sono virtualmente scomparse dalla celebrazione ordinaria della Messa celebrata nelle parrocchie.

Da molti anni celebro il Divino Sacrificio, tanto che il mio modo di pensare e di esercitare sono maturati, alcuni dicono regrediti, in parte per l’influenza di due amici sacerdoti che sono tra i liturgisti più rispettati del XX secolo: Padre Louis Bouyer e il Cardinale Joseph Ratzinger.

I partecipanti alle Messe che celebro sono forse sconcertati da certe cose che vedono. Ogni tanto cerco di spiegare le ragioni per questa o quella scelta che faccio. Ma non è questo il modo adeguato per rispondere alle domande dei fedeli, dal momento che solo coloro che stanno a ogni Messa ascoltano tutte le spiegazioni. E’ per questo che ho deciso di descrivere e spiegare le ragioni di alcune scelte che regolarmente od occasionalmente introduco nelle Messe che celebro.

In questa sede lo posso fare solo brevemente, ma c’è un principio generale che posso affermare: tutto ciò che vedete nella Messa del Cancelliere è permesso dalle norme liturgiche della Chiesa. Non solo non si richiede alcun permesso speciale per le scelte che faccio, ma neppure un Vescovo potrebbe proibirle anche se lo volesse (un Vescovo ci ha provato, solo per sentirsi severamente rimproverato dalla Santa Sede).

Ciborio all’ingresso della Cappella
A chi desidera ricevere la Comunione, si chiede di depositare una particola nel ciborio al momento in cui entra nella cappella. C’era una ragione pratica all’inizio: il tabernacolo nella cappella per l’adorazione non era abbastanza capiente per contenere molte ostie, per cui questa prassi ci dà esattamente il numero delle ostie richieste per ogni Messa.
Ma c’è anche una ragione più importante. Tra i pochissimi cambiamenti nella Messa disposti in modo specifico dalla “Costituzione sulla Sacra Liturgia” Sacrosanctum Concilium del Concilio Vaticano II, (ce ne sono nove, cfr. Sacrosanctum Concilium nn. 50-58), uno, il n.55, comincia così: “Si raccomanda molto quella partecipazione più perfetta alla Messa, nella quale i fedeli, dopo la comunione del sacerdote, ricevono il corpo del Signore con i pani consacrati in questo sacrificio”. Vale a dire, la Chiesa incoraggia i fedeli a ricevere le ostie consacrate nella Messa alla quale partecipano.

Messa “ad Orientem”
Tale scelta sembra causare il maggior sconcerto. Molto si deve dire al riguardo, io ne traccerò i punti più salienti.
1. Fin dai tempi antichi e perfino durante e dopo il Concilio Vaticano II, la Messa rivolta “ad oriente” era la norma. Non c’è legislazione liturgica autorevole che l’abbia mai abolita. Il Messale Romano (il libro liturgico ufficiale che guida nella celebrazione della Messa) non soltanto la permette, ma anzi le rubriche la presuppongono (ad esempio, si dice al celebrante di “volgersi verso il popolo” all’Orate Fratres (“Pregate, fratelli …”).
2. Da tempo immemorabile, questa è stata la prassi dell’intera Chiesa, all’est come all’ovest. Contrariamente all’idea prevalente erronea (anche di molti liturgisti), non c’è riscontro di Messe celebrate coram populo (dinanzi al popolo) nei primi diciannove secoli della storia della Chiesa, salvo rare eccezioni (cfr. Introduzione allo spirito della liturgia del Cardinale Ratzinger, pp. 74-84). La scelta di ridurre l’altare ad una tavola per una liturgia con il popolo davanti, iniziò nel XVI secolo con Martin Lutero.
“Malgrado tutte le variazioni nella prassi che hanno avuto luogo nel secondo millennio ben inoltrato, una cosa rimane chiara per l’intera cristianità: pregare verso oriente è una tradizione che risale ai primissimi tempi. Inoltre, è un’espressione fondamentale della sintesi cristiana del cosmo e della storia il radicarsi negli eventi della storia della salvezza accaduti una volta per tutte, mentre si esce per andare incontro al Signore che ritornerà” (Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, p.75).
3. Il Concilio Vaticano II non ha detto nulla sulla direzione del celebrante durante la Messa, poiché presuppone che la Messa sia ad orientem.
4. Un felice ritorno alla tradizione più antica e, credo, in armonia con l’intento della Sacrosanctum Concilium, è stato quello di portare l’altare più vicino alla navata, separandolo dai suoi paliotti e dossali, e proclamare le letture dall’ambone, benché il Vaticano II non disponga e non menzioni nulla al riguardo. Tuttavia, la Messa coram populo, pur essendo certamente permessa (ho celebrato 10.000 Messe in questo modo) e sia divenuta quasi universale, di fatto priva la Messa del suo simbolismo cosmico ed escatologico.
Le chiese sono state costruite tradizionalmente dinanzi al sole nascente. Il sole, naturalmente, è un simbolo cosmico della luce, dell’energia e della grazia che vengono a noi dal Padre attraverso il Figlio. Il sole è il segno cosmico del Cristo Risorto, luce del mondo. Volgendoci ad oriente, ci volgiamo in attesa verso il Signore che viene (escatologia) e manifestiamo di essere partecipi di un atto che va oltre la chiesa e la comunità in cui celebriamo, ma raggiunge il mondo intero (cosmos). Nelle chiese non rivolte all’oriente geografico, la Croce e il Tabernacolo divengono “l’oriente liturgico”. (Incidentalmente, le rubriche richiedono che il celebrante della Messa stia davanti al Crocifisso durante la preghiera eucaristica. Ciò ha condotto, se non alla semplice inosservanza delle norma liturgica, all’anomalia di avere due crocifissi nel presbiterio – uno dinanzi al popolo e un altro piccolo sull’altare dinanzi al sacerdote – o perfino alla scelta grottesca di una Croce con un Corpo da entrambe le parti!).
5. Il dramma della storia della salvezza è potentemente simboleggiato nella liturgia rinnovata, quando si celebra ad orientem. Il sacerdote sta davanti al popolo quando chiama alla preghiera. Poi si volta per guidarlo nell’intercessione comune per la misericordia (Kyrie eleison). Prega a nome del popolo, continuando a stare dinanzi al Signore. Si volge verso il popolo per proclamare la Parola e istruire. Dopo aver ricevuto i doni, si volge di nuovo al Signore per offrirgli i doni, che prima sono solo pane e vino, e poi, dopo la consacrazione, sono il Corpo e il Sangue di Cristo. Quindi si volge verso il popolo per distribuire al banchetto eucaristico il Cristo Risorto, nelle forme di pane e vino.
Se c’è qualche simbolismo positivo nella Messa coram populo, vi è anche però un simbolismo assai negativo. “Il prete che si pone dinanzi al popolo trasforma la comunità in un cerchio racchiuso su di sé. In tale posizione esteriore, essa non si apre più su ciò che le sta davanti e in alto, ma è chiusa in se stessa” (Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, p. 80).
6. Papa Giovanni Paolo II celebra regolarmente la Messa ad orientem nella sua cappella privata.

Il canto di parti della Messa in latino
Anche quando celebro la Messa in inglese, normalmente intono un canto gregoriano specifico al Kyrie, al Gloria, al Credo, al Sanctus e all’Agnus Dei. Intono in latino pure l’introduzione al prefazio (Dominus vobiscum, Sursum corda, ecc.) e il grande Amen (Per ipsum …).
Anche se molti non lo sanno, il latino è una delle poche cose incoraggiate esplicitamente dal Concilio Vaticano II: ” .. Si abbia cura che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’ordinario della Messa che spettano ad essi” (Sacrosanctum Concilium, n.54). Il canto gregoriano è raccomandato ancora più fortemente: “La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana; perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale” (Sacrosanctum Concilium, n.116).
Queste parti della Messa sono facili da imparare e il fatto di cantarle unisce i fedeli cattolici non solo nel tempo (insieme a tutte le generazioni che lungo i secoli hanno elevato a Dio questi canti) ma anche nello spazio (anche oggi, in molte parti del mondo – soprattutto a Roma – i fedeli cattolici cantano in gregoriano). Questi canti in latino aggiungono sacralità alla Messa in due modi: è musica sacra (cioè messa da parte), intesa infatti per finalità sacre e quasi esclusivamente usata per tali finalità; e il latino non è solamente una lingua antica ma è espressione del sacro, grazie alla sua storia nella Chiesa.

Celebrazione della Messa in latino
Sorprenderà molti, ma non occorre alcuna autorizzazione per celebrare in latino. Infatti, non è possibile proibirlo, in quanto è ancora la lingua ufficiale della Chiesa cattolica romana e sempre adatta per la Santa Messa.
Alcuni motivi li ho scritti nei paragrafi precedenti. La mia prassi (che sono convinto fosse la vera intenzione dei Padri conciliari del Vaticano II) è di cantare o recitare in inglese le parti della Messa che variano di giorno in giorno (orazioni, prefazio) e di cantare o recitare in latino le parti invariabili (l'”Ordinario” della Messa). Si impara facilmente, soprattutto quando si usa in tutte le Messe la stessa Preghiera Eucaristica e le opzioni.

Ministranti e lettori
Questo è un argomento delicato e non posso farvi giustizia in questa sede. In breve: La Messa è essenzialmente nuziale, Cristo Sposo abbraccia la Chiesa Sposa e i due diventano una sola carne. Il sacerdote agisce non solo in persona Christi, ma in persona Christi Capitis et Sponsi (in persona di Cristo Capo e Sposo). Il presbiterio, che per norma liturgica deve essere chiaramente separato dalla navata (nella nostra cappella una delle funzioni degli inginocchiatoi è proprio quella di servire da balaustra), è il luogo dello Sposo (e dei “testimoni dello Sposo”). La navata è il luogo della Sposa, la Chiesa.
Il sacerdote agisce in persona di Cristo Figlio, che è l’icona e il Verbo del Padre. La relazione del Padre con la creazione (come quella di Cristo con la Chiesa, che è compimento nell’ordine della Redenzione) è nuziale o sponsale. Il sacerdote offre allo stesso tempo il Sacrificio di Cristo al Padre. Le donne non possono partecipare simbolicamente all’azione di Cristo, ma ciò non significa affatto che gli uomini siano più santi, superiori o più degni delle donne. Dipende, almeno in parte, dal fondamento teologico della ininterrotta tradizione della Chiesa di oltre due millenni che permette che siano solo gli uomini o i giovani a servire all’altare o a proclamare la Parola di Dio.
Ci sono anche conseguenze pratiche nell’avere ministranti donne. Molte vocazioni al sacerdozio hanno la loro origine o maturazione proprio servendo all’altare. Più donne all’altare porta ad avere meno uomini ministranti. In genere poi gli uomini frequentano la chiesa meno delle donne, per cui l’incentivo a servire all’altare controbilancia la “femminizzazione”, come l’hanno chiamata, della Chiesa. Inoltre, nell’età dell’adolescenza, le ministranti ragazze inibiscono i ragazzi dal parteciparvi.
Sono invece meno insistente per avere solo uomini lettori. (Non sono sicuro perché, forse perché la liturgia della Parola è la parte didattica della Messa, mentre la liturgia eucaristica è la parte sacrificale). Ma lo preferisco, senza offesa per le donne. La Beata Vergine Maria non ha mai letto le Scritture nella sinagoga.

Omelie lunghe
E’ una prassi che non è ordinata né proibita dal Concilio Vaticano II, né da nessun altro. Ma avviene. Parte della colpa, la attribuisco alla Parola di Dio, così ricca. E un po’ è dovuto al fatto che da venticinque anni faccio omelie alle stesse persone, ma su testi che si sono ripetuti molte volte in tutti quegli anni. Le omelie si sono progressivamente accorciate (mi pare), poiché non riesco più a trovare nuovi spunti dalle stesse pericopi. Con assemblee nuove, riesco ad attingere alle omelie degli anni precedenti (per fortuna, ne ricordo solo una minima parte).

Il Canone Romano
Avrete notato che io faccio uso costante del “Canone Romano” (Preghiera Eucaristica I). Le ragioni sono molte di più di quante ne possa menzionare qui.
Fino alla seconda metà del XX secolo, non c’era alcuna tradizione di scelte diverse per il Canone. il Vaticano II non ha richiesto tale innovazione, e nemmeno ne ha accennato. (Dice invece nella Sacrosanctum Concilium n.23: “…non si introducano innovazioni se non quando lo richiedano una vera e accertata utlità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti”. Non ho mai avuto una spiegazione convincente su come l’introduzione di nuovi canoni non costituisca una violazione del divieto conciliare).
Dopo lunga riflessione ed esperienza, sono persuaso che: 1) la stabilità è molto più importante della varietà in questa preghiera centrale della Messa; 2) il Canone Romano è superiore a tutti gli altri canoni in ogni aspetto (eccetto quello della brevità, che è il motivo per cui credo che la seconda Preghiera Eucaristica sia divenuta predominante nelle Messe quotidiane).
Il Canone Romano ci unisce tutti con gli altri cattolici – tutti i santi e tutti i peccatori – da almeno il VI secolo fino al 1969. E’ rimasto virtualmente immutato in tutto questo periodo. E’ l’unico Canone che menziona gli angeli, le donne (Felicita, Perpetua, ecc.), grandi prototipi storici (Abele, Abramo, Melchisedech) per farci ricordare concretamente la saga della storia della salvezza, e che allude alla liturgia celeste del libro dell’Apocalisse (i ventiquattro apostoli e santi che evocano i ventiquattro vegliardi). Contiene preghiere di insuperabile bellezza, potenza ed antichità.

“Ministri eucaristici”
Ho messo le virgolette al titolo del paragrafo, perché il titolo ufficiale è “Ministri straordinari della Comunione”. Si intende che siano “straordinari”, cioè che non corrispondano alla consuetudine normale. La prassi attuale in molte parrocchie è un abuso. E’ talmente un abuso che – questo sì è davvero “straordinario” – i capi di oltre otto dicasteri della Santa Sede hanno emanato un decreto per porre fine all’abuso. Il decreto è stato largamente ignorato.
La norma liturgica prevede che siano solo i ministri ordinati (Vescovo, prete, diacono) ad essere ministri “ordinari” dell’Eucaristia. Se nessuno di questi è disponibile, allora può assistere una persona laica ufficialmente istituita come ministro straordinario dell’Eucaristia. Uno dei ruoli importanti che hanno in parrocchia è quello di assistere i sacerdoti e i diaconi a portare la Comunione ai fedeli infermi a casa.
Di tanto in tanto si può avere bisogno di questi ministri straordinari, ma noi speriamo che il Signore ci benedica con il dono di molti preti e diaconi.
Una considerazione importante: molti di noi hanno bisogno di dedicare più tempo alla preghiera personale e alla contemplazione. Si ha anche bisogno di prepararci a ricevere il Signore nella Santa Comunione e dell’intimo ringraziamento dopo averlo ricevuto. Un’ottima opportunità per farlo è un tempo prolungato di silenzio o un canto orante prima e dopo la Comunione. Non è facile sapere dove stia il giusto equilibrio, ma non dobbiamo cercare una maggiore “efficienza” al momento della Comunione moltiplicando i ministri straordinari.

Il bacio della pace
Si tratta di un gesto tradizionale, per quanto piuttosto oscure siano la sua nascita, sviluppo e trasformazioni lungo la storia liturgica. Nelle liturgie più antiche, avveniva al momento in cui i doni venivano portati all’altare, richiamo dell’ingiunzione biblica a riconciliarsi con il fratello prima di presentarsi al giudice.

Nel Medio Evo, si usava una “pax brede” (instrumentum pacis, o osculatorium); una tavoletta di legno che il sacerdote e altri ministri baciavano e che veniva passato ai membri dell’assemblea. In seguito e fino ad oggi, tra i ministri dell’altare ci si scambiava un gesto formale di abbraccio in alcune forme del Rito Romano.

Il bacio della pace è stato inserito nel Novus Ordo Missae del 1969, ma solo facoltativo e non obbligatorio. Il sacerdote che scendeva dal presbiterio e offriva il bacio della pace ai fedeli, era sempre un abuso liturgico. L’invito è: Offerte vobis pacem (scambiatevi un segno di pace). Questa rubrica era chiara nella precedente versione dell’Istruzione generale per il Messale Romano, ma è stata resa ancora più chiara nell’ultima versione.

Con il passare degli anni, le mie riserve sull’appropriatezza di questo gesto in quel preciso momento della Messa, sono aumentate. Può darsi che sia semplicemente perché sto invecchiando, ma non credo che sia questo. Penso che introdurre qualcosa che in origine e nella pratica era una prassi laica – molto buona e umana, certamente – al momento che precede l’atto più sacro che una persona può compiere – ricevere nel proprio cuore lo “Sposo dell’anima” – è stato uno dei tanti cambiamenti che ha condotto alla mancanza di rispetto verso il Santissimo Sacramento e a una perdita del senso di riverenza dinanzi al Signore Eucaristico.

Le Missionarie della Carità della Beata Teresa di Calcutta hanno trovato, secondo me, la miglior soluzione. Il saluto laico in India consiste in un inchino con le mani giunte. E’ un bellissimo gesto che non disturba il sacro silenzio che precede la Santa Comunione. Forse sto protestando troppo. Il bacio della pace è certamente permesso ed è diffuso.

La Santa Comunione
Ai fedeli è permesso di ricevere la Comunione sulla mano o sulla lingua, in piedi o in ginocchio. C’è molta confusione al riguardo, poiché i Vescovi degli Stati Uniti hanno recentemente emanato un documento che dichiara normativa in America la postura eretta. Ciò ha causato costernazione in molti fedeli e a Roma, alla Congregazione del Culto Divino e alla Disciplina dei Sacramenti. Quest’ultima ha chiarito che i fedeli hanno il diritto di ricevere la Comunione in tutti i modi approvati, compreso l’inginocchiarsi e che, nell’esercitare tale diritto, non sono affatto disobbedienti.

In una lettera del 2 luglio 2002 da parte della Congregazione a un Vescovo americano, pubblicata nel bollettino pubblico della Congregazione, Notitiae, il Prefetto stabiliva: “La Congregazione è preoccupata per il grande numero di doglianze simili ricevute negli ultimi mesi da vari luoghi, e considera che il rifiuto della Santa Comunione a motivo della postura inginocchiata, sia una grave violazione di uno dei più fondamentali diritti dei fedeli cristiani, quello in particolare di essere assistiti dai propri Pastori per la ricezione dei Sacramenti (Codice di Diritto Canonico, can.213).

Dopo che la Conferenza Episcopale degli Stati Uniti ha richiesto e ricevuto la recognitio (termine canonico per “riconoscimento”) per rendere normativa in tutti gli Stati Uniti la postura eretta per la Santa Comunione, qualche Vescovo ha tentato di imporla, pretendendo che chi non l’avesse seguita, sarebbe stato disobbediente al Papa stesso. La Congregazione per il Culto Divino ha rigettato con forza questa interpretazione, scrivendo: “Per l’autorità ricevuta dalla recognitio che ha ottenuto la forza di legge, questo Dicastero è competente per specificare la maniera per comprendere la norma per una appropriata applicazione …”.

“… questa Congregazione, pur avendo concesso la recognitio alla norma desiderata dalla Conferenza Episcopale del vostro Paese per ricevere in piedi la Santa Comunione, lo ha concesso a condizione che ai comunicandi che scelgono di inginocchiarsi, non sia negata la Santa Comunione per questi motivi. E ancor più, i fedeli non devono essere obbligati né accusati di disobbedienza e di agire in modo illecito quando si inginocchiano per ricevere la Santa Comunione”.

Nella nostra cappella, i comunicandi possono stare in piedi o in ginocchio. Io rispetto il vostro diritto di riceverla nel modo che scegliete, e tutti devono rispettare le scelte degli altri. La prassi è che si proceda lungo il corridoio centrale e in piedi riceverla quando si giunge alla testa della fila, o andare ad uno degli inginocchiatoi e riceverla in ginocchio. Qualcuno va all’inginocchiatoio e rimane in piedi. E’ accettabile. In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas (nelle cose necessarie unità, nelle cose discutibili libertà, in tutte carità).

dal sito www.messainlatino.it

Alla Messa non si “PARTECIPA” e non si deve “CAPIRE”

ALLA MESSA NON SI “PARTECIPA”

E NON SI DEVE “CAPIRE”

Il silenzio e la solitudine intorno al Golgota intorno all’altare 

Cristo in un attimo di dolore veramente umano, grida a squarciagola al suo Dio, al Padre, il baratro di sventura e solitudine in cui sprofonda inerte. La “solitudine”. La stessa solitudine che in quel momento sull’altare del Sacrificio Supremo, nuovo Golgota, dove davvero e di nuovo irrompe la Passione di Cristo, sperimenta il sacerdote, “Alter Christus”. Il sacerdote è solo sull’altare. E a questa solitudine si aggiunge l’ombra propria della solitudine: il “silenzio”. Sulla collina desolata del Golgota, e prima, nell’Orto, e dopo ancora, nel sepolcro, Cristo è solo e nel silenzio. Il silenzio della sua obbedienza, del calice dell’amarezza, del sudore sanguinolento. È il silenzio dell’impotenza, che per un attimo sembra persino di Dio. “Padre mio, perché mi hai abbandonato?”. Il “silenzio” di Dio, in quel frangente, sembra quasi l’inabissarsi della Divinità.

di Antonio Margheriti Mastino

 

QUEL VECCHIO CHE SI SENTIVA GIOVANE DAVANTI AL SUO DIO

Salirò all’altare di Dio,

a Dio che allieta la mia giovinezza …

irraggia la tua luce e la tua verità,

esse mi guidino e mi conducano al tuo santo monte,

e ai tuoi tabernacoli.

Ti loderò sulla mia cetra, o Dio, Dio mio;

Perché sei triste, anima mia?

Perché mi turbi?

E ancora: “Nello stesso modo, dopo aver cenato, prese anche questo glorioso calice nelle sue sante e venerabili mani… Questo è il Calice del mio Sangue, della nuova ed eterna alleanza: mistero di fede: che per voi e per molti sarà sparso…

Il canone antico è di una bellezza che ferisce anche tradotto in italiano, ti fa venire voglia davvero di salire tu sull’altare ad avere il privilegio di rivolgerti con queste parole sublimi ed eterne all’Onnipotente. Ripetere tu ciò che nei secoli hanno ripetuto tutti i santi sacerdoti, i martiri, i confessori, i mistici, i dottori della chiesa, i pontefici salendo sull’altare del Sacrificio Supremo. Ripetere ciò che tutti i nostri avi hanno udito per secoli, confermandoli nella fede.

E’ bello divagare, è umano. Adesso per esempio mi balenano davanti agli occhi due episodi. Uno antico e l’altro moderno; uno fa ridere e l’altro piangere, giusto per rispettare il copione della tv generalista. Si sa che la testa della medusa di tutte le eresie moderniste è quel fenomeno chiamato giansenismo, che cominciò velenosamente a fluttuare nella chiesa già dal Seicento. Quel che venne dopo ne furono soltanto i tentacoli pieni di tossine. I giansenisti una cosa l’avevano capita bene: colpire la liturgia significava aprire il vaso di pandora, cavare via la pietra angolare: tutto il Santo Edificio sarebbe venuto giù collassando fulmineo . Ebbene, nel ’700 l’eresia giansenista era entrata nel vivo e si tenne a proposito un “conciliabolo” di prelati infedeli a Pistoia, appunto il “Conciliabolo di Pistoia”. Che approvò motu proprio diverse riforme illecite, fra cui l’introduzione del volgare anche nella liturgia. Allora un prete filo-giansenista iniziò la sua prima messa in italiano (peraltro sbagliando la traduzione) così:

PRETE: ”Mi introduco all’altare di Dio“.
FEDELE RISPONDE: (livornese e toscanaccio maledetto): “Oh tu te basta che un t’introduci ‘a nel mi (c)ulo!!”.

Il popolo quello vero, non quello “sociologico” di cui discettano con sufficienza i teologi modaioli, è sempre reazionario.

L’esempio moderno è meno mordace, ma più struggente. E riguarda la commozione di un giornalista che in piena sarabanda creativa post-conciliare, assiste per caso a una messa antica celebrata quasi clandestinamente da un vecchio e malato francescano. Ne rimase sconvolto: fu l’incontro col Mistero: ne fu convertito. Era il 1969, mentre molti, applauditi da un mondo allora avvelenato di ideologie, celebravano la loro apostasia, un uomo ritornava alla fede davanti alla celebrazione di una messa antica, che era diventata la cosa più bandita della storia della chiesa, dai suoi uomini stessi. Lasciamo a lui la parola, ad Antonello Cannarozzo, parole che mi hanno commosso:

“La mia “conversione” alla Messa in latino, avvenne più di trent’anni fa quando, come autentici congiurati, alcuni amici mi portarono in un piccolo oratorio nella chiesa di san Girolamo della Carità, qui a Roma, dove un anziano francescano, padre Coccia, davanti a pochissimi fedeli, celebrava l’antico rito. Rimasi subito colpito dall’atmosfera di mistico silenzio, di partecipazione dei presenti e dalla frase pronunciata dal vecchio sacerdote all’inizio della liturgia, “…et introìbo ad altare Dei: ad Deum qui laetificat juventutem meam”. Quell’uomo stanco e malato per il mondo, davanti all’altare del suo Signore diventava giovane.
Un atto di fede enorme ed un significato metafisico che mi fece capovolgere in pochi minuti tutto il mio bagaglio mentale, le mie idee, le mie certezze e da quel momento, ogni domenica ed ogni festa religiosa, per quanto mi è stato possibile, sono stato presente alla liturgia di sempre nella ricerca, anche per me, oggi alla soglia dei sessant’anni, di essere sempre “giovane” davanti al Signore”

IL SILENZIO E LA SOLITUDINE DELL’ALTARE

Superata la commozione, torniamo a noi. Posso io ogni volta, davanti un bambino dell’asilo che si crede un gigante spirituale, e che discetta della “comprensione” (di tutto quanto ti passa sotto gli occhi nel Tempio) quale primo e unico definitivo dogma, infallibile e incancellabile come il peccato originale, tirare fuori la “barzelletta” di Sant’Agostino? Del bambino (che poi si scoprì essere un angelo) che sulla spiaggia cerca di mettere con una conchiglia nella buchetta che ha scavato nella sabbia l’immensità dell’acqua del mare? E che quindi, morale della favola, solo un pazzo e un cretino può credere che la sua piccola testolina di… rapa, può contenere da sola l’infinito, indicibile, incontenibile, eterno MISTERO? Mistero di Dio, Mistero di fede!

Ci sono due aspetti in particolare che ci rendono il senso profondo della messa di sempre: il silenzio e la solitudine. L’altare, prima e durante e dopo il Sacrificio, è avvolto dal silenzio. E dalla solitudine, del celebrante, “Alter Christus”. Ma come, si dirà, la Pasqua e dunque la celebrazione sono “anche un trionfo!”. Certo, sì. Ma è anche il perpetuarsi della passione e morte di Cristo. Che si svolgono nel silenzio, nella solitudine, nel tradimento, nel rinnegamento, nella fuga dei discepoli. Nell’ultima cena Cristo è tradito e venduto da Giuda; nell’Orto degli Ulivi, nella notte che precede il supplizio Cristo è lasciato solo a sudare sangue mentre i discepoli s’addormentano invece di pregare con lui; Pietro nella stessa notte lo rinnega tre volte; nessuno cerca di salvarlo, nessuno gli si offre a sorreggere per un po’ la sua croce (il Cireneo ne è costretto). Nessuno sembra più conoscerlo o riconoscerlo.

Cristo in un attimo di dolore veramente umano, grida a squarciagola al suo Dio, al Padre, il baratro di sventura e solitudine in cui sprofonda inerte. La “solitudine”. La stessa solitudine che in quel momento sull’altare del Sacrificio Supremo, nuovo Golgota, dove davvero e di nuovo irrompe la Passione di Cristo, sperimenta il sacerdote, “Alter Christus”. Il sacerdote è solo sull’altare. E a questa solitudine si aggiunge l’ombra propria della solitudine: il “silenzio”. Sulla collina desolata del Golgota, e prima, nell’Orto, e dopo ancora, nel sepolcro, Cristo è solo e nel silenzio. Il silenzio della sua obbedienza, del calice dell’amarezza, del sudore sanguinolento. È il silenzio dell’impotenza, che per un attimo sembra persino di Dio. “Padre mio, perchè mi hai abbandonato?”. Il “silenzio” di Dio, in quel frangente, sembra quasi l’inabissarsi della Divinità. Ma è anche l’impotenza e la desolazione che deriva dal primo ed eterno “sì” in obbedienza di Maria, accettando questo Figlio che non era per lei: “Stabat Mater Dolorosa…”, sotto la croce. E’ quel silenzio tremendo che avverte sul letto di morte anche la piccola enorme Teresina di Lisieux, quando si lamenta, in quel momento estremo dell’agonia, della “non presenza di Dio”.

Silenzio. Come stettero zitti i discepoli, Maria, chi volle bene al Cristo uomo e già Messia, tutti quanti: tacquero, si nascosero, impotenti per obbedienza e per viltà, persino impietriti dal dolore e dalla confusione, o perché in definitiva così “dovevano” andare le cose… tutti stettero in silenzio. ASSISTETTERO SOLTANTO, alla passione e morte del figlio di Dio. La stessa ragione per cui alla messa del Sacrificio, i fedeli NON DEVONO PARTECIPARE, MA ASSISTERE. In silenzio. Il silenzio che ammanta il sacerdote mentre compie il Sacrificio di Cristo. E di se stesso.

Ma allora la Resurrezione? E’ un trionfo. Ma è un trionfo vissuto nel nascondimento, da un Dio senza arroganza. Avviene ancora una volta nel silenzio e nella solitudine. Dentro un sepolcro di pietre, di notte, assenti tutti, tranne i soldati chiamati a vegliare l’esterno dell’avello. Alla stessa maniera, nel silenzioso, quasi segreto e oscuro, formulare del sacerdote “Alter Christus” sull’altare del Sacrificio, avverrà la Resurrezione. Nel silenzio e nella solitudine.

Ecco spiegato il perché e il come si sta, si assiste al Santo Sacrificio della Messa. La Messa di sempre. Lontana dal clamore e dal chiasso, dalla frenesia e dalle sindromi di protagonismo, dai microfoni mal regolati gracchianti e stordenti, dal profluvio di fraseologia frigida e dai battimano della messa riformata in stile anni ’70, gli anni più stancamente declamatori, populistici, inutili mai vissuti sulla faccia della terra.

 

IL MISTERO SACRIFICATO ALLA COMUNICAZIONE. FINTA.

Talora dove è stata celebrata la Messa gregoriana per la prima volta, ho avuto nettissima l’impressione che i molti presenti, fra curiosi e interessati, si siano accostati a questo culto divino, altamente spirituale, drammatico, con lo stesso animo con cui si accostavano alla maggiore liberalità (e pure licenza) della messa riformata. Non ci si può assistere alla Messa gregoriana come si assiste alla messa riformata. E’ successo in qualche prima Messa antica in qualche provincia del Sud.

Io sinceramente mi sono scandalizzato. Ho visto roba che mai e poi mai, nemmeno per un secondo, ho osservata a Roma durante le messe gregoriane. Ma solo nelle messe ordinarie. Sbadigli no, ma parlucchiare in continuo anche durante i momenti salienti del rito, questo sì, anche al cellulare; ma è il meno peggio. Infatti una cosa regolarmente registrata nella messa ordinaria, ma mai a Roma in quella antica: gente, uomini specialmente, che non risponde alle preghiere liturgiche le volte (poche, nella messa antica) che è richiesto, figurarsi se si batte il petto al “Confiteor”; che non si inginocchia mai (è previsto molteplici volte nel rito antico), manco a spezzargli le gambe, nemmeno durante la consacrazione. Mentre alla Trinità a Roma (chiesa dei cattolici che celebrano solo in rito antico) ho visto con i miei occhi gente inginocchiata ovunque, tutti nessuno escluso, anche sul pavimento per chi non aveva il banco, almeno durante la consacrazione; qualcuno si è spinto fino all’eccesso di osare prostrarsi con la fronte a terra, senza che nessuno, del resto, trovasse ridicola la cosa.

Due cose sono certe. La prima cosa che si è smarrita nel più dei casi, negli ultimi tempi, è proprio l’educazione al Culto Divino. E all’Essenziale. A forza di annacquare l’ufficio sacro e lo stesso messaggio cristiano, si è annegato il senso del sacro, del divino, del Mistero nella liturgia. Tutto è stanchezza e sbadiglio, ogni cosa scontata. Si è sacrificato il “significato” alla “comunicazione”; il simbolo evocativo ed esoterico al gesto amicale e sdrammatizzante; l’insondabile al “comprensibile”. Insomma si è umanizzato tutto, come se il culto fosse diretto agli uomini e non ascendente verso Dio solo.

Il “Comprensibile”. Ma la stessa maestà di Dio è solo in minima parte svelata e “comprensibile”: volendo “capire” tutto, non si capisce più niente, ed è così che si sminuisce e stempera all’orizzonte la divinità, il cui mistero, ci spiegava Agostino, mai per intero la nostra mente avrà tanta capienza per accoglierlo totalmente.

La stessa Messa del Sacrificio supremo è diventata la messa della parola, degli sproloqui “sociali”, quando non proprio socialisti, dal pulpito: prova ne sia il fatto che spesso, nella messa riformata, le omelie durano anche 35 minuti, la consacrazione anche solo 2 minuti. Si è smarrito il senso delle cose importanti, non si conosce più cosa è al centro e cosa accanto o sotto; si sono rovesciate anzi le posizioni. Nella Messa antica, il centro era e resta il Sacrificio. L’omelia può esserci o no, e se c’è dura 5 minuti, e non va oltre le Scritture del giorno.

L’altra cosa chiara, è che occorre davvero ricominciare anche con gli ottantenni il catechismo da capo, dalla prima elementare, ma quello vero, duro, scandaloso, che spacca le pietre e gli uomini. Bisogna ricapitolare tutto, reinsegnare tutto, perché tutto è andato smarrito nella nostra memoria di cattolici romani. A volte crediamo che siano la chiesa, la dottrina, il deposito della fede ad essere mutati. E non ci accorgiamo invece che qualcuno ha fatto un foro nel nostro cranio da cui son colati via secoli di sapienza cristiana. E siamo noi che non riconosciamo più Cristo nel culto, che abbiamo dimenticato chi era, cosa ha detto veramente, cosa è la Messa. Con questo abbiamo scordato pure chi siamo e chi erano i nostri padri, e cosa per due millenni ha legato una generazione all’altra: la Pietà.

Nella Messa come Sacrificio restiamo legati alla memoria della preghiera di chi ci ha preceduti nella vita terrena, di coloro che per secoli hanno adorato Dio in quel solo modo; abbiamo perduto anche la memoria dei santi e dei martiri, che si sono santificati in essa e per essa si sono sacrificati. La comunione dei santi. Abbiamo smarrito l’idea di Messa come irruzione del Divino ora e subito sull’altare. Abbiamo scordato il Dio potente, eterno e quotidiano. Occorre ricatechizzare. Quando di nuovo qualcuno risulterà scandalizzato dal messaggio di frattura di Cristo, allora vorrà dire che il seme è stato un’altra volta gettato nella terra. Presto darà frutto. Riempendo di germogli intere distese aride come la morte del culto nel cuore dell’uomo.

Che a dirla tutta, qua il problema non è manco più la liturgia antica e la liturgia nuova, perché ormai è un dato che la liturgia nuova, come corpo omogeneo, non esiste più. Semmai ci sono tantissime liturgie, a secondo della nazione, della regione, della sensibilità del vescovo, dell’ideologia del parroco, dall’ignoranza tirannica dei gruppi laicali sindacalizzati, a secondo dell’umore, del tempo, del telegiornale della giorno, dell’età dei presenti, a secondo di tutto meno che di Dio. E talora si ha l’impressione che per liturgia “riformata”, molti intendano quel termine proprio nel senso di riforma luterana. Qui c’è la liturgia di sempre, quella gregoriana, contro il tutto e il nulla, contro l’arcipelago creativo semper reformando est, dove la liturgia oltre ad essere sempre in fieri è anche l’ultimo pensiero del clero socialmente utile.

 

LA GENTE NON DEVE CAPIRE, MA ADORARE

LA GENTE NON DEVE PARTECIPARE, MA ASSISTERE

Dopo una prima messa gregoriana, un signore piuttosto informato, di sicuro tradizionalista, comizia a un gruppo di fedeli un po’ smarriti: spiega loro cose che dovrebbero essere normali da almeno 1.300 anni, ma che dalle facce inebetite dalla novità della scoperta dell’acqua calda, ti rendi conto non lo sono più. Questo rigoroso cattolico è preciso, spiega ineccepibilmente e con passione e mimica tutta meridionale l’evento Sacrificio della Messa. Soprattutto, si sofferma sulla figura del sacerdote rivolto di spalle, quale Alter Christus. “Il sacerdote è rivolto di spalle ai fedeli, perché pone il cuore e l’attenzione ad Oriente, verso Dio. Ha quasi quasi il compito, quale mediator Dei, di introdurre, guidandolo, il popolo alle sue spalle verso la Divinità… Sia mai si pensasse che il sacerdote si deve rivolgere al popolo durante la messa come fosse il destinatario delle formule… come di fatto sembra avvenire nella messa nuova”. A quel punto interviene un suo interlocutore, con la barba e l’aria un po’ sofferta da insegnate ulivista, che non lo contraddice, ma introduce un concetto pericoloso, che nasce più dall’ignoranza che non da influenze protestanti. Dice: “Ma se vogliamo il prete e il popolo sono un tutt’uno, sono un unico popolo di Dio che condivide e concelebra il culto… c’è come un sacerdozio di tutto il popolo di Dio”. Lo dice inconsapevolmente, ed eccettuata la logica del sacerdozio d’ogni cattolico col battesimo (che nulla ha a che fare con la Messa del Sacrificio), introduce concetti che prima ancora d’essere protestanti e luterani, demoliscono e rendono inutile, uno spreco, la figura del sacerdote consacrato.

Due anziane signore: “La messa in latino [sic!] è bella, ma io non scambierei la messa in italiano con niente. La gente deve capire quello che si dice, e qui io non capisco. Io non ci ritornerò più a questa messa!”. Volevo domandare cosa veramente capiscono della formulazione italianissima della messa anni ’70. Se veramente capiscono quella asettica talora sospetta fraseologia che nasce non da secoli di sapienza cristiana, ma dalle nebbie delle menti di teologi luterani senza più speranza cristiana, e come dimostreranno di lì a poco con veri dubbi di fede.

La “gente deve capire”, dice. No, la gente non deve “capire” una mazza durante la messa. La gente deve stare zitta e ferma. La gente non deve “partecipare” o addirittura “concelebrare”. La gente in chiesa non è “gente” ma fedeli! E questi fedeli devono solo ASSISTERE. E assistendo muti, devono solo adorare. E’ la ragione per cui, nella messa antica, era consentito al fedele, nelle parti orali del rito che spettano solo all’Alter Christi, di recitare silenziosamente il rosario. Zitto, il fedele ASSISTE: anzitutto perché le formule di consacrazione che il sacerdote recita, “submissa voce”, sono scambiate solo fra il Mediator Dei, che solo si carica il peso del popolo fedele (ecco anche uno dei significati del manipolo) e Dio, anzi fra l’Alter Christus e Dio. Solo, il sacerdote solo, perché solo Gesù parla e istituisce l’eucarestia nell’ultima cena. Solo vive il terrore, la passione, la morte e la resurrezione. Solo, perché solo a ciascuno dei discepoli, singolarmente, concede dopo la sua morte che vince la morte, d’essere Alter Christus, davanti l’altare di ogni ultima mistica cena e di immolazione.

“Capire”, mi si dice. Non si può capire, non si deve osare capire. Il cuore soltanto deve comprendere essendo in quei momenti rivolto a Dio, “coram Deo”. O comunque vi si deve partecipare (visto che insistete!) con tutti e cinque i sensi, non solo con il cervello. Chi assiste al Sacrificio Supremo non deve “capire”, deve anzi restare ammutolito e fermo, ASSISTERE inerte, sbigottito, col tumulto nel cuore. Deve credere e adorare. Si ASSISTE soltanto: perché neppure alle ore di passione di Cristo, alcuno “partecipò”; neanche davanti al Golgota in diretta, allora, nessuno del tutto capì; neppure trascorsi gli eventi ancora “capirono” e anzi la loro fede vacillò di più. Il terrore prese lo stesso posto della “comprensione”. Neppure Pietro capì di cosa sino ad allora si era parlato, cosa veramente Cristo aveva detto. Nessuno capì, popolo di peccatori, umanità decadente senza cognizione della propria redenzione.

E infatti, fu, quella, notte oscura di tradimenti, di silenzi assordanti, di solitudine, di sudore di sangue, di indifferenza, di fughe, di viltà, di rinnegamento, di peccato e di pentimento, di suicidi. Di impotenza e di oscurità. Di solitudine. Nessuno stette al suo posto, nessuno si fece avanti, nessuno capì davvero. Tommaso volle metterci anche dopo il dito, perché non aveva capito manco lui. Tutti, i discepoli in primis, e Giovanni e Maria e gli amici di Gesù, chi insomma gli era vicino, nessuno “partecipò”; ognuno invece “assistette”. Inerte, muto, impotente. ASSISTONO. Non “capiscono”, non completamente almeno.

Il Sacrificio stesso fu sì fatto da altri, dagli infedeli, ma paradossalmente sembrò (e così era) che Cristo stesso se ne incaricasse, e difatti egli stesso lo annuncia: quasi un consapevole auto-sacrificio. Sì, perché Egli accetta consapevolmente, va incontro da solo alla volontà del Padre sapendo qual è. Si carica da solo, sulla viva carne, il peso di una umanità ancora irredenta, del “popolo”, che fin lì non ha “capito”: ha visto e non ha “capito”. Come non potranno “capire” (mai!) veramente il Sacrificio della Messa. È lo stesso motivo della solitudine e del silenzio (submissa voce) del sacerdote sull’altare, dell’Alter Christus che sacrifica se stesso nell’eucarestia. E’ la ragione del Mediator Dei che nella messa di sempre da solo e silenziosamente, si rivolge al Padre, assumendosi da solo il peso del popolo di Dio, che non potrà aiutarlo in alcun modo. Assisteranno soltanto i fedeli, come i discepoli assistettero senza partecipare, alla passione. Col manipolo l’Alter Christus asciugherà il sudore di sangue della lacerante fatica della sequela di Cristo, d’essere Lui fino alla morte e alla morte di croce, sino alla resurrezione silenziosa e segreta, discreta come il Dio dei cristiani, il nostro silenzioso Dio. Tutto è Mistero. Tutto è Grazia.

Per tutte queste cose i fedeli non devono “capire” né “partecipare”. Avranno invece l’obbligo solo di Assistere, stando in silenzio, coram Deo, adoranti, impotenti. Salvi! Ma occorre si affidino cuore e intelletto, tutti, al Mediator Dei, all’Alter Christus. Non tentino di “capire”: non capirebbero comunque. In ognuno di noi c’è sempre un po’ di Giuda il traditore, del Pietro rinnegatore che non aveva capito niente, del Tommaso che non crede se non vede anche se ha assistito al compiersi della profezia. In tutto questo la Messa di sempre è altamente istruttiva, profondamente spirituale, immensamente fedele allo svolgersi dei fatti nei dintorni del Golgota. Perché è principalmente Sacrificio. Qualità che la declamatoria e chiassosa, logorroica e “svelata” messa anni ’70 non ha più. E anzi, devia il fedele più che indirizzarlo rettamente.

 

da www.papalepapale.it

Le cinque piaghe del Corpo mistico e della Liturgia

4° Incontro per l’Unità Cattolica – 15 gennaio 2012

Intervento di Monsignor Athanasius Schneider
Vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Santa Maria d’Astana,
Segretario della Conferenza dei vescovi cattolici del Kazakhstan

Per parlare correttamente della nuova evangelizzazione è indispensabile portare innanzitutto il nostro sguardo su Colui che è il vero evangelizzatore, Nostro Signore Gesù-Cristo il Salvatore, il Verbo di Dio fatto uomo. Il figlio di Dio è venuto su questa terra per espiare e riscattare il più grande peccato, il peccato per eccellenza. E questo peccato per eccellenza dell’umanità consiste nel rifiuto di adorare Dio, nel rifiuto di riservargli il primo posto, il posto d’onore. Questo peccato degli uomini consiste nel fatto che non si presta attenzione a Dio, nel fatto che non si possiede più il senso delle cose, nel fatto che non si vuol vedere Dio, nel fatto che non ci si vuole inginocchiare davanti a Dio.

Di fronte ad un simile atteggiamento, l’incarnazione di Dio è imbarazzante, ugualmente e di riflesso imbarazzante è la presenza reale di Dio nel mistero eucaristico, imbarazzante la centralità della presenza eucaristica di Dio nelle chiese. L’uomo peccatore vuole in effetti mettersi al centro, tanto all’interno della Chiesa che al di fuori della celebrazione eucaristica, vuole esser visto, vuol farsi notare.

È la ragione per cui Gesù eucaristia, Dio incarnato, presente nei tabernacoli sotto la forma eucaristica, si preferisce piazzarLo di lato. Anche la rappresentazione del Crocifisso sulla croce in mezzo all’altare al momento della celebrazione di fronte al popolo è imbarazzante, perché il viso del prete se ne troverebbe nascosto. Dunque l’immagine del Crocifisso al centro come pure Gesù eucaristia nel tabernacolo similmente al centro dell’altare, sono imbarazzanti. Conseguentemente la croce e il tabernacolo sono piazzati di lato. Durante la celebrazione, chi assiste deve poter osservare in permanenza il viso del prete, di colui a cui piace mettersi letteralmente al centro della casa di Dio. E se per sbaglio Gesù eucaristia è quanto meno lasciato nel suo tabernacolo al centro dell’altare, perché il ministero dei beni culturali persino sotto un regime ateo, ha vietato di spostarlo per ragioni di conservazione del patrimonio artistico, il prete, spesso durante tutta la celebrazione liturgica, gli gira senza scrupolo le spalle.

Quante volte bravi fedeli adoratori del Cristo, nella loro semplicità ed umiltà, avranno esclamato : « Benedetti voi, Monumenti storici! Per lo meno voi ci avete lasciato Gesù al centro della nostra Chiesa. »

È solo a partire dall’adorazione e dalla glorificazione di Dio che la Chiesa può annunciare in maniera adeguata la parola di verità, cioè evangelizzare. Prima che il mondo ascoltasse Gesù, il Verbo eterno fattosi carne, predicare e annunciare il regno, Gesù ha taciuto e ha adorato per trent’anni. Ciò resta per sempre la legge per la vita e l’azione della Chiesa così come di tutti gli evangelizzatori. « È dal modo di curare la liturgia che si decide la sorte della Fede e della Chiesa », ha detto il cardinal Ratzinger, nostro attuale Santo Padre e Papa Benedetto XVI. Il concilio Vaticano II voleva richiamare alla chiesa la realtà e l’azione che dovevano prendere il primo posto nella sua vita. È ben per questo che il primo documento conciliare è dedicato alla liturgia. In esso il concilio ci dà i seguenti principi: Nella Chiesa e da qui nella liturgia, l’umano deve orientarsi al divino ed essergli subordinato, ed anche ciò che è visibile in rapporto all’invisibile, l’azione in rapporto alla contemplazione, e il presente in rapporto alla città futura, alla quale aspiriamo (cf. Sacrosanctum Concilium, 2). La nostra liturgia terrestre partecipa, secondo l’insegnamento del Vaticano II, al pregustare la liturgia celeste della città Santa, Gerusalemme (cf. idem, 2)

Per questo, tutto nella liturgia della Santa Messa deve servire ad esprimere in maniera più netta la realtà del sacrificio di Cristo, cioè le preghiere di adorazione, di ringraziamento, d’espiazione, che l’eterno Sommo-Sacerdote ha presentato al Padre Suo.

Il rito e tutti i dettagli del Santo Sacrificio della Messa devono incardinarsi nella glorificazione e nell’adorazione di Dio, insistendo sulla centralità della presenza del Cristo, sia nel segno e nella rappresentazione del Crocifisso, che nella Sua presenza eucaristica nel tabernacolo, e soprattutto al momento della consacrazione e della santa comunione. Più ciò è rispettato, meno l’uomo di pone al centro della celebrazione, meno la celebrazione somiglia ad un circolo chiuso, ma è aperta anche in maniera esteriore sul Cristo, come una processione che si dirige verso di lui col prete in testa, più una tale celebrazione liturgica rifletterà in modo fedele il sacrificio d’adorazione del Cristo in croce, più ricchi saranno i frutti provenienti dalla glorificazione di Dio che i partecipanti riceveranno nelle loro anime, più il Signore li onorerà.

Più il sacerdote e i fedeli cercheranno in verità durante le celebrazioni eucaristiche la gloria di Dio e non la gloria degli uomini, e non cercheranno di ricevere la gloria gli uni dagli altri, più Dio li onorerà lasciando partecipare la loro anima in maniera più intensa e più feconda alla Gloria e all’Onore della Sua vita divina. Nel momento attuale e in diversi luoghi della terra, sono numerose le celebrazioni della Santa Messa delle quali si potrebbero dire le seguenti parole, inversamente alle parole del Salmo 113,9: « A noi, o Signore, e al nostro nome dai gloria » ed inoltre a proposito di tali celebrazioni si applicano le parole di Gesù : « Come potete credere, voi che ricevete la vostra gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo ? » (Giovanni 5, 44).

Il Concilio Vaticano II ha emesso, riguardo ad una riforma liturgica, i seguenti principi:

  1. Durante la celebrazione liturgica, l’umano, il temporale, l’attività, devono orientarsi al divino, all’eterno, alla      contemplazione e avere un ruolo subordinato in rapporto a questi ultimi      (cf. Sacrosanctum Concilium, 2).
  2. Durante la celebrazione liturgica, si dovrà incoraggiare la presa di coscienza che la liturgia terrestre partecipa della liturgia celeste (cf. Sacrosanctum Concilium, 8).
  3. Non deve esserci alcuna innovazione, dunque      alcuna nuova creazione di riti liturgici, soprattutto nel rito della Messa, tranne se ciò è per un frutto vero e certo in favore della Chiesa, e a condizione che si proceda con prudenza sul fatto che eventuali forme nuove sostituiscano in maniera organica le forme esistenti (cf. Sacrosanctum Concilium, 23).
  4. I riti della Messa devono esser tali che il sacro sia espresso più esplicitamente (cf. Sacrosanctum Concilium, 21).
  5. Il latino deve essere conservato nella liturgia e soprattutto nella Santa Messa (cf. Sacrosanctum Concilium, 36 e 54).
  6. Il canto gregoriano ha il primo posto nella liturgia (cf. Sacrosanctum Concilium, 116).

I padri conciliari vedevano le loro proposizioni di riforma come la continuazione della riforma di S. Pio X (cf. Sacrosanctum Concilium, 112 e 117) e del servo di Dio, Pio XII, e in effetti, nella costituzione liturgica, la più citata è l’enciclica Mediator Dei di papa Pio XII.

Papa Pio XII ha lasciato alla Chiesa, tra gli altri, un principio importante della dottrina sulla Santa liturgia, e ciè la condanna di ciò che chiama archeologismo liturgico, le cui proposizioni coincidevano largamente con quelle del sinodi giansenista e protestantizzante di Pistoia del 1976 (cf. « Mediator Dei », n° 63-64) e che di fatto richiamano le idee teologiche di Martin Lutero.
Perciò già il Concilio di Trento ha condannato le idee liturgiche protestanti, specialmente l”esagerata accentuazione di banchetto nella celebrazione eucaristica a detrimento del carattere sacrificale, la soppressione dei segni univoci della sacralità in quanto espressione del mistero della liturgia (cf. Concilio di Trento, sessio XXII).

Le dichiarazioni liturgiche dottrinali del magistero, come nel caso del Concilio di Trento e dell’enciclica Mediator Dei, che si riflettono in una prassi liturgica secolare, anzi da più di un millennio, costante e universale, queste dichiarazioni dunque, fanno parte di quell’elemento della santa tradizione che non si può abbandonare senza incorrere in grandi danni sul piano spirituale. Queste dichiarazioni dottrinali sulla liturgia, il Vaticano II le ha riprese, come può constatarsi leggendo i principi generali del culto divino nella costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium.

Come errore concreto nel pensiero e nell’azione dell’archeologismo liturgico, il papa Pio XII cita la proposizione di dare all’altare la forma di una tavola (cf. Mediator Dei n° 62). Se già papa Pio XII rifiutava l’altare a forma di tavola, si immagini come avrebbe a fortiori rifiutato la proposizione di una celebrazione come intorno ad una tavola « versus populum » !
Se la Sacrosanctum Concilium al n° 2 insegna che, nella liturgia, la contemplazione deve avere la priorità e che tutta la celebrazione della messa deve essere orientata verso i misteri celesti (cf. idem n° 2 et n° 8), vi si trova un’eco fedele della seguente dichiarazione di Trento che diceva: « E perché la natura umana è tale, che non facilmente viene tratta alla meditazione delle cose divine senza piccoli accorgimenti esteriori, per questa ragione la chiesa, pia madre, ha stabilito alcuni riti, che cioè, qualche tratto nella messa, sia pronunziato a voce bassa, qualche altro a voce più alta. Ha stabilito, similmente, delle cerimonie, come le benedizioni mistiche; usa i lumi, gli incensi, le vesti e molti altri elementi trasmessi dall’insegnamento e dalla tradizione apostolica, con cui venga messa in evidenza la maestà di un sacrificio così grande, e le menti dei fedeli siano attratte da questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle altissime cose, che sono nascoste in questo sacrificio.» (sessio XXII, cap. 5).

I citati insegnamenti del magistero della Chiesa e soprattutto quello di Mediator Dei sono stati riconosciuti senza alcun dubbio anche dai padri conciliari come pienamente validi; di conseguenza essi devono continuare ancor oggi ad essere pienamente validi per tutti i figli della Chiesa.
Nella lettera indirizzata ai vescovi della Chiesa cattolica unita al Motu proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007, il papa fa questa dichiarazione importante: « Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso ». Dicendo questo, il papa esprime il principio fondamentale della liturgia che il Concilio di Trento e papa Pio XII hanno insegnato.

Se si guarda senza idee preconcette e in maniera obbiettiva la pratica liturgica della stragrande maggioranza delle chiese in tutto il mondo cattolico nel quale è in uso la forma ordinaria del rito romano, nessuno può negare in tutta onestà che i sei principi liturgici menzionati dal Concilio Vaticano II sono rispettati poco o niente addirittura. Ci sono un certo numero di aspetti concreti nell’attuale pratica liturgica dominante, nel rito ordinario, che rappresentano una vera e propria rottura con una pratica religiosa costante da oltre un millennio. Si tratta dei cinque usi liturgici seguenti che si possono considerare come le cinque piaghe del corpo mistico liturgico del Cristo. Si tratta di piaghe, perché rappresentano una violenta rottura col passato, perché mettono apertamente meno l’accento sul carattere sacrificale che è quello centrale ed essenziale della messa, mettono avanti il banchetto; tutto ciò diminuisce i segni esteriori dell’adorazione divina, perché esse mettono meno in rilievo il carattere del mistero in ciò che ha di celeste ed eterno.

In ordine a queste cinque piaghe, si tratta di quelle che – ad eccezione di una (le nuove preghiere dell’offertorio) – non sono previste nella forma ordinaria del rito della messa, ma sono state introdotte in modo deplorevole dalla pratica.

La prima piaga, la più evidente, è la celebrazione del sacrificio della messa in cui il prete celebra volto verso i fedeli, specialmente durante la preghiera eucaristica e la consacrazione, il momento più alto e più sacro dell’adorazione dovuta a Dio. Questa froma esteriore corrisponde per sua natura più al modo in cui ci si comporta quando si condivide un pasto. Ci si trova in presenza di un circolo chiuso. E questa forma non è assolutamente conforme al momento della preghiera ed ancor meno a quello dell’adorazione. Ora questa forma, il concilio Vaticano II non l’ha auspicata affatto e non è mai stata raccomandata dal magistero dei papi postoconciliari. Papa Benedetto XVI nella sua prefazione al primo tomo della sua OperaOmnia scrive: « l’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nella cristianità moderna ed è completamente estranea in quella antica. Sacerdote e popolo certamente non pregano uno verso l’altro, ma verso l’unico Signore. Quindi guardano nella preghiera nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo cosmico per il Signore che viene, o, dove questo non fosse possibile, verso una immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come il Signore ha fatto nella preghiera sacerdotale la sera prima della sua Passione (Giovanni 17, 1). Intanto si sta facendo strada sempre di più, fortunatamente, la proposta da me fatta alla fine del capitolo in questione nella mia opera: non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo. ».

La forma di celebrazione in cui tutti portano il loro sguardo nella stessa direzione (conversi ad orientem, ad Crucem, ad Dominum) è anche evocata dalle rubriche del nuovo rito della messa (cf. Ordo Missae, n. 25, n. 133 et n. 134). La celebrazione che si dice « versus populum » certamente non corrisponde all’idea della Santa Liturgia tal quale è menzionata nelle dichiarazioni di Sacrosanctum Concilium n°2 et n° 8.

La seconda piaga è la comunione sulla mano diffusa dappertutto nel mondo. Non soltanto questa modalità di ricevere la comunione non è stata in alcun modo evocata dai Padri conciliari del Vaticano II, ma apertamente introdotta da un certo numero di vescovi in disobbedienza verso la Santa Sede e nel disprezzo del voto negativo nel 1968 della maggioranza del corpo episcopale. Solo successivamente papa Paolo VI l’ha legittimata controvoglia, a condizioni particolari.

Papa Benedetto XVI, dopo la Festa del Corpus Domini 2008, non distribuisce più la comunione che a fedeli in ginocchio e sulla lingua, e ciò non soltanto a Roma, ma anche in tutte le chiese locali alle quali rende visita. Attraverso ciò egli donò all’intera Chiesa un chiaro esempio di magistero pratico in materia liturgica. Se la maggioranza qualificata del corpo episcopale, tre anni dopo il concilio, ha rifiutato la comunione nella mano come qualcosa di nocivo, quanti più Padri conciliari l’avrebbero fatto ugualmente!

La terza piaga, sono le nuove preghiere dell’offertorio. Esse sono una creazione interamente nuova e non sono mai state usate nella Chiesa. Esse esprimono meno l’evocazione del mistero del sacrificio della croce che quella di un banchetto, richiamando le preghiere del pasto ebraico del sabato. Nella tradizione più che millenaria della Chiesa d’Occidente e d’Oriente, le preghiere dell’offertorio sono sempre state espressamente incardinate al sacrificio della croce (cf. p. es. Paul Tirot, Storia delle preghiere d’offertorio nella liturgia romana dal VII al XVI secolo, Roma 1985). Una tale creazione assolutamente nuova è senza nessun dubbio in contraddizione con la formulazione chiara del Vaticano II che richiama « Innovationes ne fiant … novae formae ex formis iam exstantibus organice crescant » (Sacrosanctum Concilium, 23).

La quarta piaga è la sparizione totale del latino nell’immensa maggioranza delle celebrazioni eucaristiche della forma ordinaria nella totalità die paesi cattolici. È una infrazione diretta contro le decisioni del Vaticano II.

La quinta piaga è l’esercizio dei sevizi liturgici di lettori e di accoliti donne, così come l’esercizio degli stessi servizi in abito civile penetrando nel coro durante la Santa Messa direttamente oltre lo spazio riservato ai fedeli. Quest’abitudine non è giammai esistita nella Chiesa, o per lo meno non è mai stata la benvenuta. Essa conferisce alla messa cattolica il carattere esteriore di qualcosa di informale, il carattere e lo stile di un’assemblea piuttosto profana. Il secondo concilio di Nicea vietava già, nel 787, tali pratiche, redigendo questo canone: « Se qualcuno non è ordinato, non gli è permesso fare la lettura dall’ambone durante la santa liturgia », (can. 14). Questa norma è stata costantemente rispettata nella Chiesa. Solo i suddiaconi o i lettori avevano il diritto fare la lettura durante la liturgia della Messa. Al posto dei lettori e accoliti mancanti, sono uomini o ragazzi in veste liturgica che possono farlo, e non donne, essendo un dato di fatto che il sesso maschile sul piano sacramentale dell’ordinazione non sacramentale dei lettori ed accoliti, rappresenta simbolicamente il primo legame con gli ordini minori.

Nei testi del Vaticano II, non è fatta alcuna menzione della soppressione degli ordini minori e del suddiaconato, né dell’introduzione di nuovi ministeri. Nella Sacrosanctum Concilium n° 28, il concilio fa la differenza tra « minister » e « fidelis » durante la celebrazione liturgica, e sancisce che l’uno e l’altro hanno diritto di fare ciò che loro spetta in ragione della natura della liturgia. Il n° 29 meziona i « ministrantes », cià gli addetti al servizio dell’altare che non hanno ricevuto alcuna ordinazione. In opposizione a costoro ci sarebbero, scondo i termini giuridici dell’epoca, i « ministri », cioè coloro che hanno ricevuto un ordine maggiore o minore che sia.

Con il Motu proprio Summorum Pontificum, Papa Benedetto XVI afferma che entrambe le forme del Rito romano sono da guardare e trattare con lo stesso rispetto, perché la Chiesa rimane la stessa prima e dopo il Concilio. Nella lettera che accompagna il Motu proprio, il Papa auspica che le due forme si arricchiscano reciprocamente. Inoltre, auspica che nella nuova forma “appaia, più di quanto non sia avvenuto finora, il senso del sacro che attira molte persone verso il vecchio rito.”

Le quattro ferite liturgiche o usi infelici (celebrazione versus populum, comunione nella mano, totale abbandono del latino e del canto gregoriano e l’intervento delle donne per il servizio di lettura e quello di accolito) non hanno di per sé nulla a che fare con la forma ordinaria della Messa e sono inoltre in contraddizione con i principi liturgici del Vaticano II. Se si ponesse fine a questi usi, si ritornerebbe al vero insegnamento del Vaticano II. E allora le due forme del Rito romano si avvicinerebbero enormemente così che, almeno esternamente, non si dovrebbe constatare una rottura fra di loro e, quindi, nessuna rottura tra la Chiesa di prima del Concilio e quella del dopo.

Per quel che riguarda le nuove preghiere dell’Offertorio, sarebbe auspicabile che la Santa Sede le sostituisca con le preghiere corrispondenti della forma straordinaria o almeno che permetta il loro uso ad libitum. Così, non è solo esteriormente, ma interiormente, che la rottura tra le due forme sarebbe evitata. La rottura nella liturgia, è appunto quel che la maggior parte dei padri conciliari non ha voluto ; lo testimoniano gli atti del Concilio, perché in duemila anni di storia della liturgia nella Santa Chiesa, non c’era mai stata rottura liturgica e, pertanto, non deve mai essercene. Invece ci deve essere una continuità come deve essere per il Magistero.
È per questo che c’è bisogno oggi di nuovi Santi, di una o più Santa Caterina da Siena. Abbiamo bisogno della “vox populi fidelis” che reclama la soppressione di questa rottura liturgica. Ma il tragico della storia, è che oggi, come al momento dell’esilio di Avignone, una larga maggioranza del clero, soprattutto del clero alto, si accontenta di questo esilio, di questa rottura.

Prima che possiamo aspettarci frutti efficaci e duraturi dalla nuova evangelizzazione, deve innanzitutto instaurarsi un processo di conversione all’interno della Chiesa. Come si può chiamare gli altri a convertirsi fino a quando, tra chi la reclama, nessuna conversione convincente a Dio non è ancora avvenuta perché, nella liturgia, non sono sufficientemente rivolti a Dio, sia interiormente che esteriormente. Si celebra il sacrificio della Messa, il sacrificio di adorazione di Cristo, il più grande mistero della fede, l’atto di adorazione più sublime in un cerchio chiuso, guardandosi a vicenda.

Manca la necessaria “conversio ad Dominum“, anche esternamente, fisicamente. Perché durante la liturgia si tratta Cristo come se non fosse Dio e non Gli si mostrano i segni esterni chiari di un’adorazione dovuta a Dio solo, non solo nel fatto che i fedeli ricevono la Santa Comunione in piedi ma che la prendono nelle loro mani come un cibo ordinario, prendendolo e mettendolo loro stessi in bocca . C’è il pericolo di una sorta di arianesimo o un semi-arianesimo eucaristico.

Una delle condizioni necessarie per una fruttuosa nuova evangelizzazione sarebbe la testimonianza di tutta la Chiesa sul piano del culto liturgico pubblico, osservando almeno questi due aspetti del culto divino, vale a dire:

  1. Che su tutta la terra la Santa Messa sia celebrata, anche nella forma ordinaria, nella “conversio ad Dominum“, interiormente e necessariamente anche esternamente.
  2. Che i fedeli pieghino il ginocchio davanti a Cristo al momento della Santa Comunione, come San Paolo lo domanda, evocando il nome e la persona di Cristo (cfr. Phil 2, 10) e che Lo ricevano con il più grande amore e il massimo rispetto possibile, come è suo diritto in quanto Vero Dio.

Dio sia lodato, Papa Benedetto ha iniziato, con due misure concrete, il processo di ritorno dall’esilio avignonese liturgico, attraverso il Motu proprio Summorum Pontificum e la reintroduzione del rito tradizionale per la comunione.

C’è ancora molto bisogno di preghiera e forse di una nuova Santa Caterina da Siena perché seguano gli altri passi, in modo da guarire le cinque piaghe sul corpo liturgico e mistico della Chiesa e perché Dio sia venerato nella liturgia con lo stesso amore, rispetto, senso del sublime che hanno sempre rappresentato la realtà della Chiesa e del suo insegnamento, specialmente attraverso il concilio di Trento, papa Pio XII nella sua enciclica Mediator Dei, il concilio Vaticano II nella sua costituzione Sacrosanctum Concilium e papa Benedetto XVI nella sua teologia e liturgia, nel suo magistero liturgico pratico e nel Motu proprio citato.

Nessuno può evangelizzare se non ha prima adorato, e parimenti se non adora in permanenza e non dà a Dio, il Cristo Eucaristia, la vera priorità nella maniera di celebrare e in tutta la sua vita. In aeffetti, per riprendere le parole del card Joseph Ratzinger : « È nel modo di trattare la Liturgia che si decide la sorte della Fede e della Chiesa ».

© 2012 Réunicatho via Chiesa e post-concilio. trad. di Maria Guarini.

Don Nicola Bux auspica che il Papa scriva un’enciclica sulla liturgia

CITTA’ DEL VATICANO – “Il mio auspicio è che il Papa scriva un’enciclica sulla Liturgia, proprio a partire dalla fede, e che i cardinali, i vescovi e i sacerdoti, lo assecondino di più su questi temi”. Così mons. Nicola Bux, docente alla Facoltà teologica pugliese e consultore presso le Congregazioni perla Dottrina della fede e per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti, commenta alla Radio Vaticana quanto detto dal Papa nel videomessaggio per la cerimonia conclusiva del Congresso Eucaristico internazionale di Dublino sul fatto che i desideri dei Padri Conciliari circa il rinnovamento liturgico sono stati oggetto di “molte imcomprensioni ed irregolarità” e che “la revisione è rimasta ad un livello esteriore”.

“Nonostante le indicazioni del Concilio – spiega Bux -, la liturgia è stata degradata da ‘atto di culto’ a una sorta di intrattenimento, a una riunione di famiglia. Ma non si tratta di un bene a nostra disposizione, è un ‘atto pubblico della Chiesa’ che viene regolato dalla Santa Sede e – come ricordava il Concilio – nessun altro, anche se sacerdote, può aggiungere, togliere o mutare alcunchè di sua iniziativa in materia liturgica”. Quello che è avvenuto, “e che il Papa in qualche modo denuncia, è esattamente ciò che i Padri Conciliari non volevano. Molti hanno inteso la riforma come una rivoluzione e hanno messo al centro l’uomo, con la sua immancabile volontà di protagonismo, anzichè Dio”. Secondo il docente, “abbiamo tolto dal centro il Santissimo Sacramento per mettere al suo posto noi chierici, in un momento in cui – come si vede dalle cronache – faremmo bene a metterci di lato, come ministri”.

“Non lamentiamoci poi del decadimento dell’etica, anche nella Chiesa – conclude Bux -. Come ha ricordato Benedetto XVI con un’espressione forte: ‘la crisi della Chiesa nasce proprio da una crisi della liturgia’”. (ANSA).

Cosa divide la Chiesa

di don Nicola Bux

La riforma liturgica postconciliare tra abusi e teoremi, resistenze e indulti

1. Premessa

Da non pochi ecclesiastici non si vuol vedere la realtà in costante crescita, di gruppi di  fedeli,  soprattutto  giovani,   che  promuovono  l’attuazione  del  Motu  Proprio Summorum  Pontificum,  per  la  corretta  celebrazione  della   Messa   sia  in  forma extraordinaria, sia in forma ordinaria. Ma poi si finisce per ammettere tale realtà, in quanto da taluni vescovi si sostiene che “la Messa in latino divide la Chiesa”. Pronti a invocare “i segni dei tempi”, non ci si chiede come mai tanti giovani ne siano attratti e quale sia la causa.

Il pensatore ebreo Heschel osserva: “E’ consueto incolpare la scienza secolare e la filosofia antireligiosa dell’eclissi della religione nella società odierna, ma sarebbe più onesto incolpare la religione delle sue stesse sconfitte. La religione è declinata non perché  è  stata  contestata,  ma  perché  è  divenuta  priva  di  rilevanza,monotona, oppressiva e insipida”1. Un tale giudizio non può essere assolutizzato, ma deve far riflettere noi cristiani; per  esempio, se dando priorità al sociale, abbiamo sanato la divisione prodottasi all’interno dell’io tra la sua fede e la realtà in cui vive; se abbiamo prima vagliato la cultura che ci circonda e poi trattenuto ciò che vale. Infatti, la religione è quello che l’uomo fa nella sua solitudine ma anche ciò in cui scopre la sua essenziale compagnia, l’esigenza di dire tu a Dio: “O Dio tu sei  il mio Dio…così nel santuario ti ho cercato per contemplare la tua potenza e la tua gloria”(Sal 63, 2-9).

2. L’io e il culto

La liturgia oggi non stimola la nostalgia del Tu divino, non aiuta a far emergere un io così, perché è privata della Sua  presenza che riempie di silenzio – i tabernacoli vengono tolti dal centro e messi all’angolo o addirittura fuori della chiesa – e quindi, a chi poter dire: “Al tuo nome e al tuo ricordo si volge tutto il nostro desiderio” (Is 26,8)? Il Desiderato delle genti non può essere trovato, perché non è più in chiesa. Poi, l’insistenza  eccessiva  sul  “comunitario”,  specialmente  nelle  celebrazioni  deisacramenti, ha oscurato il “personale”: così, il desiderio che spinge ogni uomo alla ricerca di Dio, non può sopravvivere, non si trasforma in domanda, cioè in preghiera.

“Se non vuoi avere paura, – dice sant’Agostino – metti alla prova il tuo io profondo. Non toccarne solo la superficie ma va in fondo al tuo essere e raggiungi gli angoli più reconditi del tuo cuore” 2. Ma una gran parte di ciò che è più  profondo nell’uomo rimane sepolto a causa dell’allontanamento da Dio: solo Cristo incarnato e risorto può svegliarlo,  perché  è  permanentemente  alla  sua  ricerca.  Benedetto  XVI  spiega  la ragione  per  cui  Dio  si  è  messo  alla   ricerca  dell’uomo:  “Egli  viene  incontro all’inquietudine del nostro cuore,all’inquietudine del nostro domandare e cercare” 3. Per questo la liturgia deve mostrare la sua capacità di risvegliare l’io: se riesce a farlo, proverà la sua verità ed efficacia. Infatti, solo il divino, il sacro presente, Colui che è il senso  ultimo  delle  cose, può  salvare l’uomo, cioè preservarne  e difenderne le dimensioni essenziali e il suo destino. Non si può comprendere che cos’è l’io, al di fuori del cristianesimo. Perché Cristo corrisponde a ciò che io sono e quando lo incontro, specie nel mistero della liturgia comprendo ciò che manca: il Mistero, Uno che mi dice: “Io sono il Mistero che manca a ogni cosa che tu gusti,  a  ogni promessa che tu vivi. Qualunque cosa tu desideri,cerchi di raggiungere,io sono il Destino di tutto ciò che fai. Tu cerchi me in qualsiasi cosa” 4.

3. Nuovo movimento liturgico

L’io rinasce da un incontro così, e genera un’affinità con la persona incontrata e una compagnia  con  altri  che  l’hanno  incontrata 5 : ecco  come  sta  nascendo  il  nuovo movimento liturgico. Nessun potere può impedire totalmente il destarsi dell’incontro, ma cerca tuttavia di impedire che diventi storia 6; non si vuole  vedere la libertà: è la prova  della  mancanza  di  un’esperienza  reale  della  fede,  secondo  ciò  che  dice sant’Ambrogio: “Ubi fides,ibi libertas”. Se c’è la libertà, che è il segno più prezioso e potente della fede, si può verificare che stiamo facendo un’esperienza di fede in grado di resistere a tutto. Ma la libertà è Dio stesso, quindi la libertà dell’uomo per essere vera e sana è dipendenza da Dio. Nel clima di “religione  civile dell’autodeterminazione” da cui siamo circondati, bisogna annunciare la libertà come responsabilità e limite. Accade anche oggi che il potere laico e talvolta anche ecclesiastico, non tolleri la religiosità vera, la vera  devozione secondo san Francesco di Sales, perché la vede come un limite al suo possesso. La fede resta il gesto di  libertà fondamentale e la preghiera  è  l’educazione  costante  alla  libertà.  Ecco  l’importanza  del  tabernacolo, perché l’uomo impari ad aderire al Mistero da cui dipende.  Così il Mistero diventa sperimentabile e noi lo visitiamo, perché con Gesù il Mistero è diventato “presenza affettivamente  attraente” 7 .Il  Mistero  presente  si  scopre  in  un  incontro,  come  la persona amata. Egli è il Verbo Incarnato e il cardine della nostra salvezza(Caro salutis  cardo) 8.Il fatto che permane è il segno della Sua verità: senza il continuo riaccadere  dell’Avvenimento  cristiano  non  c’è  possibilità  di  una  libertà  e  di  una comunione reale.

4. I teoremi erronei

Se questa è la cosa più importante, è incredibile assistere all’indignazione di taluni liturgisti  per  il  “parallelismo   rituale”,  instaurato  dal  Motu  Proprio  Summorum Pontificum e regolato dall’Istruzione Universae Ecclesiae, tra le due forme dell’unico rito romano, perché pericoloso per la comunione ecclesiale. Loro così ecumenici, non sanno che il  rito bizantino nella chiesa ortodossa ha ben tre forme? Così altri riti orientali?A Toledo non si celebra, e non da  ora,  la forma ordinaria latina e quella extraordinaria  del  rito  mozarabico?  Alcuni  ordini  religiosi  non  avevano  le  loro specificità rituali, come i bizantini slavi hanno le proprie rispetto ai greci? E poi, non si  sostiene  a  ogni  pie’  sospinto  nella  “chiesa  postconciliare”  che  la  varietà  o pluriformità non nuoce all’unità? Perché, dunque, temere  che i vescovi “perdano il controllo delle diocesi”? Se sono vescovi cattolici, basta che si mantengano uniti al Papa.  La liturgia è celebrazione di Cristo e della Chiesa, non di una assemblea particolare.  Nella  Chiesa  la  “discontinuità”  deriva  non  dalle  due  forme  del  rito romano, ma dalla creatività del tal prete o tal gruppo per cui si può assistere a liturgie frutto di tale impostazione.

Ma vanno in giro altre dottrine erronee:

a. il soggetto che celebra è l’assemblea.

In verità solo Cristo è il protagonista e il soggetto della Messa nella quale è presente; è lui ad associare a sé “il popolo di Dio gerarchicamente ordinato”, cioè la Chiesa cattolica, che vive anche nel raduno locale di due o tre persone che, dal termine latino celeber (che vuol dire ‘frequentato’)si chiama celebrazione; si usano anche i termini rito (dal greco αριθµός e dal sanscrito rtám ‘ordine’) per indicare l’azione sacra che si svolge secondo un ordine conforme a ciò che richiede la religione e cerimonia, che dal latino vuol dire ‘culto’. Nella Messa  il sacerdote agisce nella persona di Cristo capo del corpo che è la Chiesa. Il fatto che la Messa possa essere celebrata dal solo sacerdote corrisponde proprio a tale personificazione che culmina nell’offerta di sè: pochi o tanti che siamo, se non c’è l’offerta del mio corpo in sacrificio non v’è culto spirituale (cfr Rm 12,1). Sul Golgotha non erano rimasti solo Maria e Giovanni? E a Emmaus, non v’erano solo due discepoli? Si è arrivati a dire che la  Messa  senza popolo è un monstrum: ma, se ci trovassimo sotto persecuzione non dovrebbe il sacerdote celebrare da solo per non essere scoperto? E così i singoli fedeli? Sebbene la persecuzione sia lo stato ordinario della Chiesa, l’eccezione conferma la regola. Si è assolutizzata la Messa col popolo: ma, se popolo vuol dire una “massa di persone”, si salverebbero solo le messe domenicali, laddove fosse ancora alta la frequenza. Col presupposto del popolo, la  messa si dovrebbe celebrare raramente, visto che alle messe feriali vi sono poche persone. Non si salverebbero  nemmeno le comunità monastiche. Se la Chiesa è corpo mistico, vive anche in un solo fedele e in un solo sacerdote.  Non è che per contrastare l’individualismo nella liturgia, si finisce per dimenticare il primato della persona sulla comunità? Quindi la Messa col popolo, non la si deve ritenere superiore a quella dove il popolo non  c’è o vi fossero poche persone.  La  Costituzione  liturgica  stabilisce  che qualsiasi  messa  ha  una  natura pubblica e sociale.9 Paolo VI afferma che non si può “esaltare la messa cosiddetta «comunitaria» in modo da togliere importanza alla messa privata”.10 Infine, la verità e validità della celebrazione – termine che taluni vogliono applicare ai fedeli, secondo il pensiero  protestante per il quale la mediazione sacerdotale è esercitata anche dal popolo – non dipende dall’accostarsi di  tutti  alla Comunione: anche  oggi,  come  in  antico,la  Messa  vede  presenti  “scomunicati”,  penitenti  e catecumeni che non possono fare la Comunione.

Dunque, il soggetto celebrante non è l’assemblea, ma il Signore.

b. la Chiesa prende forma nel rito celebrato.

Si vuol sostenere che fuori della liturgia la Chiesa non abbia forma e quasi non esista. Invece la Chiesa è unita al mistero di Cristo sempre presente con noi fino alla fine del mondo. La Chiesa si edifica nella celebrazione  eucaristica,  nel senso che cresce continuamente; questa “però, non è il punto d’avvio della comunione, che presuppone come esistente, per consolidarla  e  portarla a perfezione”;11 perché “la liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa”.12

Dunque, la Chiesa non prende forma nel rito ma viene prima del medesimo.

c. la presenza di Cristo è mediata dall’assemblea riunita, dal sacerdote celebrante, dalla parola proclamata.

La presenza del Signore non è solo mediata, come spiega la Costituzione liturgica del Vaticano II: “Cristo è sempre  presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche”: quindi, precede i mezzi dai quali è mediata  seppure “in modo speciale”  e attraverso cui si rende visibile “soprattutto sotto le specie eucaristiche”13 del pane e  del vino; questa presenza è definita come reale da Paolo VI, che si richiama al concilio di Trento, “non per esclusione,quasi che le altre non siano “reali”, ma  per  antonomasia,perché  è  anche  corporale  e  sostanziale,  e  in  forza  di  essa Cristo,Uomo-Dio,tutto intero si fa presente”.14 Non è tale nemmeno la Parola divina proclamata nella  Chiesa.15 E ricorda pure che “Non è lecito…insistere sulla ragione del segno sacramentale,come se il simbolismo…esprimesse esaurientemente il modo della presenza di Cristo in questo sacramento”.16

Dunque, la presenza di Gesù Cristo precede e non è solo mediata dai segni visibili.

d. l’altare è la stessa cosa della mensa.

L’Institutio  Generalis  Missalis  Romani  prescrive:  “L’altare,  sul  quale  si  rende presente  nei  segni  sacramentali  il  sacrificio  della  Croce,  è  anche  la  mensa  del Signore…”.17 L’altare si chiama così perché, in continuità col culto giudaico, è alta res, ossia “luogo alto” per offrire (da offerre, levare in alto)il pane e il vino scelti e consacrati per rendere presente il  sacrificio del Calvario, ‘luogo alto’ ove Cristo è stato innalzato. Nella riforma liturgica ha molto nociuto aver  ignorato che il culto cristiano è in continuità col culto del Tempio; così c’è stata una corsa ad “adeguare” l’altare ad una tavola, staccandolo dalla parete e abbassandolo in piano. Ma, dopo il Motu Proprio Summorum Pontificum, non è più necessario “adeguare” altari e chiese: semmai dobbiamo “adeguare” noi stessi alla sacra liturgia. E poi, dobbiamo chiederci: il cosiddetto adeguamento liturgico ha avvicinato la gente alla fede?

Dunque, l’altare non è la stessa cosa della mensa, ma è “anche mensa”, cioè la include in se stesso.

e. le norme e rubriche sono state abolite.

Il fatto che esse siano più numerose e minuziose nei Messali precedenti, fino a quello del 1962, ha garantito la Messa cattolica, sia che la celebrasse un prete dotto, sia un curato di campagna. Esse sono come il riporto di un fiume,  che  certo va sempre ripulito per farlo scorrere; sono come gli argini che frenano gli abusi e reati,come da Paolo VI ad oggi i papi hanno richiamato. Si sostiene che il ritorno all’uso del rito dovrebbe prevalere sul timore dell’abuso: precisiamo: purché sia il ritus servandus, senza del quale non sussiste l’ordo celebrandi: è l’osservanza obbediente che porta ad evitare gli abusi della celebrazione. A questo servono i libri liturgici con le loro prescrizioni e norme, che traducono e garantiscono l’osservanza dello ius divinum e dello ius liturgicum.

Dunque, non è vero che norme e rubriche siano abolite, ma vanno osservate nei nuovi come negli antichi libri  liturgici, come segno di obbedienza a Dio che ha il diritto, solo lui, di stabilire come essere adorato dalla Chiesa.

f. la tradizione antica è stata conservata nel Novus Ordo.

Il Messale pubblicato nel 1965 proponeva l’antico rito romano ritoccato in alcune parti, senza ricorrere a cambiamenti non necessari per la Chiesa 18 e i padri del sinodo del 1966 lo approvarono in maggioranza. Ma qualcuno tirò fuori nel 1969 la messa “normativa” che venne così imposta a tutti. Che poi il Novus Ordo sia più antico del Messale  tridentino, è discutibile in quanto        mancano     elementi    antichi      come l’orientamento del sacerdote ad Dominum e  la lingua latina, che la  Costituzione liturgica non aveva aboliti. Pensino anche a tali fatti taluni vescovi quando affermano che la Messa in latino divide la Chiesa.

Dunque, in realtà nel Novus Ordo sono stati ripristinati alcuni elementi antichi e eliminati altri del Vetus Ordo, secondo criteri non sempre chiari.

g. la lingua latina non è più lingua d’uso e riduce i fedeli a muti spettatori.

Giovanni  XXIII,  la  riteneva  lingua  liturgica  oggettiva  e  universale, immutabile  e sacra. 19  Col  latino,  la  Chiesa  ha  simbolicamente  sconfitto  Babele  mediante  la Pentecoste  dell’unico  linguaggio  universale.  Infatti,  la  Costituzione  liturgica  del concilio Vaticano II incastonava l’uso della lingua parlata nella Messa, in proporzioni di un terzo (letture e preghiera dei fedeli) in rapporto alla latina (ordinario, orazioni, preghiera eucaristica, riti di comunione); tali proporzioni sono state squilibrate, sì che la lingua parlata o vernacola ha corroso i termini e i significati dei testi liturgici. Poi, sostenendo la tesi che le traduzioni della  liturgia sono inadeguate e che ogni cultura avrebbe dovuto comporre le sue preghiere,20 si è incentivato il  relativismo nelle traduzioni: è accaduto che tutto ciò che nei testi era rivolto essenzialmente verso Dio, lo si è piegato in direzione dell’amicizia comunitaria.

Dunque, il latino è stato lasciato in uso dal concilio Vaticano II nella liturgia e i fedeli possono parlarlo o ascoltarlo, senza per questo essere spettatori.

h. Esiste una tradizione rinnovata e una tradizione vecchia.

La tradizione si sviluppa organicamente come il corpo umano o il paesaggio, non destrutturandosi. La riforma  postconciliare si presenta come una storia di resistenza e indulti. Negli anni  ’50,  prima  del  concilio,  c’erano  liturgisti  che  parlavano  di  necessità  della “restaurazione”  liturgica;  poi  cambiarono  termine  e  usarono  “riforma”,  fino  ad opporsi al papa supremo legislatore: a Giovanni Paolo II, che nel 1988 tolse la proibizione al Messale del 1962 consentendo la celebrazione del Vetus Ordo, e ora a Benedetto XVI. L’indulto non vuol dire che un rito sia stato abolito e sostituito dal nuovo, ma che accanto al primo è permesso il secondo (v. la Comunione in mano o sulla lingua). Quindi, il Messale “tridentino” non era stato abrogato, né quel pontefice consentì a una finzione giuridica. Nemmeno si deve sostenere che il Messale di Giovanni XXIII del 1962 fosse “di passaggio”: nessun libro liturgico di per sé è definitivo  e  nemmeno   provvisorio,  a  meno  che  non  se  ne  dichiari  l’uso  ad experimentum. Pertanto, ciò che è proibito non necessariamente è abrogato: proibire vuol dire vietare l’uso, che poi  può tornare in vigore; mentre abrogare vuol dire annullare  del  tutto.  Ciò  è  inconsistente  sul  piano  giuridico?  Tanto  meno,  come chiariremo più avanti, la riforma liturgica ha voluto e dovuto superare quel rito che ora le viene riaffiancato.  Si dimentica che vi sono state  deformazioni della riforma “al  limite  del  sopportabile”?  Paolo      VI   nella   Costituzione  apostolica  Missale Romanum ha parlato di “renovatio”. Pertanto ci si chieda: si è voluta la revisione o la demolizione del Messale? Ora, l’Istruzione Universae Ecclesiae interviene a sanare ciò che ha portato alla rottura invece che alla continuità.

Dunque, non esiste nella Chiesa e nella liturgia una tradizione rinnovata e una vecchia: la vera tradizione,  innova in modo sano, cioè dall’interno, non cambiando continuamente: non sarebbe tradizione né riforma, ma rivoluzione.

i. prima del concilio la liturgia versava in grave crisi.

Se è  così,  non  vi  è  stata  continuità  della  riforma  liturgica  dal  1948  al  1988, contrariamente a quanto  sostiene Bugnini nel suo libro e come sta a dimostrare il fatto della repentina rimozione di lui da parte di Paolo VI. Invece, una riforma della liturgia non sostituisce la vecchia forma a causa di carenze, ma la rimette in forma – ri-forma  –dalle  deformazioni  subite  inevitabilmente. I  progressisti  hanno  voluto creare una liturgia “del concilio” attraverso una loro lettura dei “bisogni pastorali” dei contemporanei;  ciò  ha  portato  alla  liturgia  da  intrattenimento  o  happening;  i “regressisti” invece hanno reagito all’opposto, sviluppando un conservatorismo delle forme rituali.

Dunque, se si vuole sostenere che il vecchio rito era deformato,  si deve ammettere che ciò è avvenuto anche per il nuovo.

l. la riforma liturgica doveva generare nel corpo ecclesiale una forma diversa di partecipazione,corporea e simbolica,comunitaria e dialogica.

Ciò  contraddice  la  continuità.  Invece,  il  rito  romano  è  la  condensazione  della tradizione viva ed è linguaggio comune nella misura in cui le singole persone entrano in rapporto con la presenza divina; proprio questa esigenza induce non pochi fedeli a preferire  la  forma  extraordinaria  del  rito  romano.  In  genere,  oggi  si  intende  la partecipazione come comprensione dei  riti: questo è giusto; tuttavia la comprensione dei riti non coincide con quella del mistero nella liturgia, che non sarà mai piena: in questo ci aiuta sant’Agostino: “La comprensione è la ricompensa della fede. Non tentare  di  comprendere  per   arrivare  a  credere,  ma  abbi  fede  per  arrivare  a comprendere”.21

Dunque,   la   riforma   liturgica    non   doveva   generare   una   forma   diversa   di partecipazione, ma incentivare quella di sempre che consiste nell’aiutare l’uomo ad entrare nel Mistero.

m. la riforma liturgica era una scelta irrevocabile.

Credo che ci sia alla base un equivoco su cosa sia una riforma: si dimentica che essa deve cominciare da sé, dalla  propria conversione. Se la riforma rimane nell’ambito sociologico, genera da un lato rottura e dall’altro resistenza.

Se invece  andiamo  allo  scopo  della  liturgia,la  santificazione  dell’uomo  e  la glorificazione di Dio, allora si comprende che essa, come spesso ricorda Benedetto XVI, sia soggetto da vivere più che da riformare. La liturgia,  è  parlare di Dio e operare con lui: per questo san Benedetto ammoniva:Operi Dei nihil praeponatur! Paolo VI aveva la preoccupazione della continuità ecclesiologica nella liturgia, quindi dell’unità. Infatti il papa non è padrone della liturgia, ma solo custode,né può limitarsi ad appoggiare una riforma o contraddirla, in quanto è il supremo legislatore. Si deve convenire con quanto ha detto il cardinale Koch: “proprio i teologi che si erano impegnati nel  movimento liturgico o che avevano partecipato ai lavori del concilio sono presto divenuti seri critici degli sviluppi  liturgici postconciliari”22. Si pensi a Klaus Gamber, Andreas Jungman, Louis Bouyer e lo stesso Josef Ratzinger. Nel mio piccolo, posso confermare che è così. Dunque, solo la riforma in capite et in membris è una “scelta” irrevocabile della Chiesa, non una riforma liturgica.

5.  La continuità della sacra liturgia

La riforma deve servire a riaffermare i valori preesistenti all’oggi: la tradizione della Chiesa è anche una interpretazione teologica della storia, uno sviluppo organico, che implica il passato. La domanda da porsi, afferma il liturgista Enrico Mazza, è: con quale criterio si sia fatta la riforma liturgica postconciliare.23 E nel dibattito seguito alla tavola rotonda, ha riferito di averla posta a Neunheiser, uno degli esperti, che rispose: “ci sembrava che fosse giusto così”. Si deduce che la riforma non ha indicato quali fossero i criteri di scelta dell’antico da conservare o da tralasciare. Certamente la crisi ecclesiale manifestatasi nel post-concilio dipende dal crollo della liturgia: non lo pensano  solo ambienti del tutto minoritari o “lefebvriani”; se anche fosse così, ci si dovrebbe ricordare che la verità non risiede nella maggioranza. E’ ora di rispettare il confronto tra posizioni, maggioritarie o minoritarie che siano, mettendo  da  parte  le  letture e  i  conteggi. Non  serve  fare “dietrologia”  da parte progressista e regressista, come ai tempi di Paolo VI, circa la solitudine del papa a fronte dei collaboratori che sarebbero disorientati sulla liturgia; o circa le componenti della Curia Romana pro e contra la riforma liturgica. Questo nuoce alla valutazione obbiettiva della  riforma. Si accetti invece il dibattito ampio e rispettoso; vi sono vescovi e teologi che hanno le idee abbastanza chiare e vogliono stare col papa e non senza di lui, procedendo a piccoli passi. La dottrina cattolica insegna che lo Spirito non passa nella Chiesa solo durante un concilio, ma l’accompagna ordinariamente col magistero del papa e dei vescovi uniti con lui. Affermare dunque, che la Messa in latino divida la Chiesa significa innanzitutto andare contro l’impulso dello Spirito. Su qualche sito è riportato un intervento di Paolo VI al concistoro del 24 maggio 1976 che stigmatizzava quanti dividevano la Chiesa, perché rifiutavano l’ossequio alle norme liturgiche. Bisogna dirla tutta: egli, in nome della Tradizione, chiedeva di celebrare con dignità la liturgia rinnovata, ricordando che “l’adozione del nuovo Ordo Missae non è lasciata certo all’arbitrio dei sacerdoti o dei fedeli”, riferendosi a quanti volevano continuare nell’antica forma e ai quali l’aveva concesso, solo se sacerdoti anziani o infermi, ma sine populo. Il punto è che poi, proprio il Novus Ordo che egli aveva promulgato è stato oggetto di arbitri, abusi e reati;  quindi l’auspicio che il Novus Ordo  fosse  stato  promulgato  per  sostituirsi  all’antico,  –  in  nome  della Tradizione – non è stato centrato,  in  quanto è venuto meno il presupposto: il ritus servandus, l’osservanza, ossia il principio dello ius divinum da cui  deriva lo ius liturgicum. Sull’argomento Paolo VI è intervenuto altre volte. Così accade che molti cristiani che partecipano alla liturgia si trovano costretti non dalla legge della Chiesa universale, ma dalle pretese arbitrarie di una determinata diocesi, parrocchia o gruppo che vanno contro la liturgia “normativa”. Ora, come ha ricordato con  franchezza Benedetto XVI: “Riscoprire e apprezzare l’ubbidienza alle norme liturgiche da parte dei Vescovi, come  “moderatori della vita liturgica della Chiesa”, significa rendere testimonianza della Chiesa stessa, una ed universale, che presiede nella carità.” .24 Pertanto il Papa, prendendo atto della situazione, ha ripristinato il Messale del 1962. Si sa, che ogni pontefice perfeziona o rivede la legislazione precedente. Perché dunque rimanere un papa indietro? Se Paolo VI “rivede” Pio V, non può Benedetto XVI “rivedere” Paolo VI? Sono prevalentemente giovani  i  promotori della forma extraordinaria, non anziani nostalgici. Non ha scritto san Benedetto nella Regola che lo Spirito può parlare attraverso il più giovane? La Chiesa è giovane e viva.

6. I sentimenti del timore di Dio e del sacro 

Si deve constatare che oggi nella liturgia nuova è venuta meno la riverenza e il sacro,in una parola l’adorazione, perché non si è più consapevoli di stare alla presenza divina. Non si glorifica primariamente Dio, di conseguenza l’uomo non è santificato e il mondo non è “consacrato”. Basilio ricorda: “Tutto ciò che ha un carattere sacro è da lui che lo deriva”25. Ecco che la riforma deve cominciare dalla rinascita del sacro nei cuori e parallelamente del timore di Dio: quel senso di grande rispetto alla Sua infinita maestà che pervade la Sacra Scrittura: da  Abramo che consapevole della Sua onnipotenza e onnipresenza si prostrava col viso a terra (Gen 17,3-17), a Mosè dinanzi al roveto ardente (Es 3,6) ed Elia (cfr 1 Re 19,13): si coprirono il volto quando percepirono la presenza del Signore, pervasi di sacro timore, perché “Il timore di Dio è una scuola di sapienza”(Pr 15,33). Non si dica che questo sia venuto  meno nel Nuovo  Testamento:  da  Maria  che  esulta:  “di  generazione  in  generazione  la  sua misericordia stende su quelli che lo temono”(Lc 1,49), riconoscendo la grandezza di Colui che per amore si è piegato sulla creatura; a  Pietro, Giacomo e Giovanni che nella  Trasfigurazione  “caddero  con  la  faccia  a  terra  e  furono  presi  da  grande timore”(Mt  17,6);  e  Pietro  che  cadde  in  ginocchio  ai  piedi  di  Gesù  al  lago  di Tiberiade,  chiedendogli  di   allontanarsi  da  sé  peccatore(cfr  Lc  5,8);    non   era schiacciato ma partecipe della bellezza e potenza divina. Dinanzi all’immensità di Dio, la gioia di averlo vicino deve tradursi nella massima riverenza; Egli è l’onnipotente Figlio di Dio che si è fatto vicino a noi. Perciò, sono incomprensibili le proteste di chi afferma che dinanzi a Cristo risorto bisogno stare in piedi,non più in ginocchio! Dice il Catechismo: “Il senso del sacro fa parte della virtù della religione”- quindi riporta un pensiero del beato J.H.Newman: «Il  sentimento  di  timore  e  il  sentimento  del  sacro  sono  sentimenti  cristiani  o no?[…]Nessuno può ragionevolmente dubitarne. Sono i sentimenti che palpiterebbero in noi,con una forte intensità,se  avessimo la visione della Maestà di Dio. Sono i sentimenti che proveremmo se ci rendessimo conto della sua presenza. Nella misura in  cui  crediamo  che  Dio  è  presente,dobbiamo  avvertirli.  Se  non  li  avvertiamo,è perché non percepiamo, non crediamo che egli è presente”.26 Di tali sentimenti e dei conseguenti atteggiamenti ha urgente bisogno la liturgia romana per parlare di Dio all’uomo contemporaneo.

7. Conclusione

Cosa fare in concreto? Sono ancora valide le indicazioni che l’allora cardinal Joseph Ratzinger  ha  tracciato:  1.  promuovere  la  corretta  celebrazione  del  Novus  Ordo, secondo le prescrizioni dei libri liturgici, ragion per cui Giovanni Paolo II promulgò l’enciclica  Ecclesia  de  Eucharistia  e  l’Istruzione  Redemptionis  Sacramentum.  2. promuovere  la  corretta  celebrazione  secondo  il  Vetus  Ordo,  come  ora  prescrive l’Istruzione Universae Ecclesiae.  3. compiere la revisione dei nuovi libri liturgici facendo in modo da  reintrodurre alcuni dei tesori che furono a suo tempo scartati. La Congregazione  per  il  Culto  Divino  e  la  Disciplina  dei  Sacramenti,  insieme  alla Pontificia Commissione Ecclesia Dei sono gli strumenti ordinari per promuoverle. Non si attribuisce  allo  Spirito  Santo  sia  la  varietà  dei  carismi  sia  la  loro unità?

Dunque, ebbe  ad  osservare  l’allora  cardinale:  “noi  possiamo  persuadere  i vescovi che la presenza dell’antica liturgia non turba l’armonia dell’unità delle lorodiocesi, ma è piuttosto un dono destinato a edificare il corpo di Cristo di cui noi siamo i ministri”.27

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1 Crescere in saggezza, Gribaudi, Milano 2001, p. 157.
2 Sermoni,348,2;PL 38,1,1527.
3 “Cristiani non per vanto ma per aprire il mondo a Dio”: Omelia della Messa Crismale, L’Osservatore Romano, 22 Aprile 2011, p. 8.
4 Cfr. L. GIUSSANI, Avvenimento di libertà, Marietti, Genova 2002, p. 149.
5 Cfr. Idem, L’io rinasce da un incontro(1986-1987), BUR, Milano 2010, p. 364.
6 Ibidem, p. 247.
7 Idem, L’autocoscienza del cosmo, Bur, Milano 2000, p. 247.
8 TERTULLIANO, De resurrectione carnis, VIII, 10; PL 2,806.
9 Sacrosanctum concilium, n 27.
10 PAOLO VI, Enciclica Mysterium fidei, Città del Vaticano 1965, Enchiridion delle Encicliche 7,876-877.
11  GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Ecclesia de Eucharistia, Città del Vaticano 2003, n. 35.
12 Sacrosanctum concilium, n. 9.
13 Ivi, n. 7.
14 PAOLO VI, Enciclica Mysterium fidei, Enchiridion delle Encicliche 7,883.
15 Cfr asterisco in nota al § 21 della Costituzione Dei Verbum.
16 PAOLO VI, Enciclica Mysterium fidei, Enchiridion delle Encicliche 7,855.
17 Ed. typica 2000; ed. it. 2004: n. 296.
18 Sacrosanctum concilium, n 4.
19 Cfr  Costituzione Apostolica Veterum Sapientia, 22.II.1962, Premessa.
20 Cfr A. BUGNINI, La riforma della liturgia, 1948-1975, Roma 1980, p. 238.
21 De Magistro, 11,37; PL 32,1216.
22 Relazione al III Convegno sul Motu Proprio Summorum Pontificum, Roma, 13-15 Maggio 2011:“Dalla Liturgia antica un ponte ecumenico”, L’Osservatore Romano, 15 maggio 2011, p. 7.
23 Cfr. Riflessioni sulle riforme liturgiche nella Chiesa, in N. BUX-E. MAZZA-E. GARZILLO, Liturgia e arte sacra fra innovazione e tradizione, Reggio Emilia 2011.
24 Discorso in occasione dell’incontro e celebrazione dei vespri con i vescovi del Brasile,  Catedral da Sé, Sao Paulo, L’Osservatore Romano, 12 maggio 2007, p. 8.
25 De Spiritu Sancto, c 9, 22; PG 32,107.
26 Catechismo della Chiesa Cattolica, n 2144.
27 J. RATZINGER, Allocuzione nel decennale dell’Ecclesia Dei, 24 ottobre 1998.

Secondo il Papa, la S. Comunione si deve ricevere sulla lingua e in ginocchio

UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE  DEL SOMMO PONTEFICE  

LA COMUNIONE RICEVUTA SULLA LINGUA E IN GINOCCHIO

La più antica prassi di distribuzione della Comunione è stata, con tutta probabilità, quella di dare la Comunione ai fedeli sul palmo della mano. La storia della liturgia evidenzia, tuttavia, anche il processo, iniziato abbastanza presto, di trasformazione di tale prassi. Sin dall’epoca dei Padri, nasce e si consolida una tendenza a restringere sempre più la distribuzione della Comunione sulla mano e a favorire quella sulla lingua. Il motivo di questa preferenza è duplice: da una parte, evitare al massimo la dispersione dei frammenti eucaristici; dall’altra, favorire la crescita della devozione dei fedeli verso la presenza reale di Cristo nel sacramento.

All’uso di ricevere la Comunione solo sulla lingua fa riferimento anche san Tommaso d’Aquino, il quale afferma che la distribuzione del Corpo del Signore appartiene al solo sacerdote ordinato. Ciò per diversi motivi, tra i quali l’Angelico cita anche il rispetto verso il sacramento, che «non viene toccato da nessuna cosa che non sia consacrata: e quindi sono consacrati il corporale, il calice e così pure le mani del sacerdote, per poter toccare questo sacramento. A nessun altro quindi è permesso toccarlo fuori di caso di necessità: se per esempio stesse per cadere per terra, o in altre contingenze simili» (Summa Theologiae, III, 82, 3).

Lungo i secoli, la Chiesa ha sempre cercato di caratterizzare il momento della Comunione con sacralità e somma dignità, sforzandosi costantemente di sviluppare nel modo migliore gesti esterni che favorissero la comprensione del grande mistero sacramentale. Nel suo premuroso amore pastorale, la Chiesa contribuisce a che i fedeli possano ricevere l’Eucaristia con le dovute disposizioni, tra le quali figura il comprendere e considerare interiormente la presenza reale di Colui che si va a ricevere (cf. Catechismo di san Pio X, nn. 628 e 636). Tra i segni di devozione propri ai comunicandi, la Chiesa d’Occidente ha stabilito anche lo stare in ginocchio. Una celebre espressione di sant’Agostino, ripresa al n. 66 della Sacramentum Caritatis di Benedetto XVI, insegna: «Nessuno mangi quella carne [il Corpo eucaristico], se prima non l’ha adorata. Peccheremmo se non l’adorassimo» (Enarrationes in Psalmos, 98,9). Stare in ginocchio indica e favorisce questa necessaria adorazione previa alla ricezione di Cristo eucaristico.

In questa prospettiva, l’allora cardinale Ratzinger aveva assicurato che «la Comunione raggiunge la sua profondità solo quando è sostenuta e compresa dall’adorazione» (Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello Balsamo, San Paolo 2001, p. 86). Per questo, egli riteneva che «la pratica di inginocchiarsi per la santa Comunione ha a suo favore secoli di tradizione ed è un segno di adorazione particolarmente espressivo, del tutto appropriato alla luce della vera, reale e sostanziale presenza di Nostro Signore Gesù Cristo sotto le specie consacrate» (cit. nella Lettera This Congregation della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, del 1° luglio 2002: EV 21, n. 666).

Giovanni Paolo II nella sua ultima enciclica, Ecclesia de Eucharistia, ha scritto al n. 61:

«Dando all’Eucaristia tutto il rilievo che essa merita, e badando con ogni premura a non attenuarne alcuna dimensione o esigenza, ci dimostriamo veramente consapevoli della grandezza di questo dono. Ci invita a questo una tradizione ininterrotta, che fin dai primi secoli ha visto la comunità cristiana vigile nella custodia di questo “tesoro”. […] Non c’è pericolo di esagerare nella cura di questo Mistero, perché “in questo Sacramento si riassume tutto il mistero della nostra salvezza”».

In continuità con l’insegnamento del suo Predecessore, a partire dalla solennità del Corpus Domini del 2008, il Santo Padre Benedetto XVI ha iniziato a distribuire ai fedeli il Corpo del Signore, direttamente sulla lingua e stando inginocchiati.

La balaustra, argine del sacro

Da Il Timone n. 113 maggio 2012
Alcuni manufatti, chiamati comunemente balaustre per molti secoli hanno costituito una presenza regolare all’interno delle chiese. Nonostante l’apparente banalità di questi oggetti, sarebbero necessari fiumi d’inchiostro per descrivere tutte le funzioni e tutti i significati che essi hanno rivestito.

di Andrea Di Meo


Varcare un confine a piedi, scavalcare il crinale di un monte, addentrarsi in una caverna, sono piccole esperienze accomunate, come molte altre, da una sensazione particolarissima. A chi le ha vissute non sarà sfuggita l’impressione di oltrepassare una linea oltre la quale vigono altre regole, oltre la quale il comportamento deve mutare perché al di là di quel punto lo spazio è diverso, non è più lo stesso di prima. Gli esempi che ho citato, a solo scopo narrativo, hanno tutti la caratteristica di essere accompagnati da segnali visibili, che quasi suggeriscono con la loro stessa presenza l’incipiente mutamento di stato. In alcuni casi, come l’ingresso in una grotta, tale segnale è offerto dalla natura, in altri, come il passaggio del confine, il segnale è posto dagli uomini.
Esiste un parallelo a queste sensazioni anche nell’esperienza dello spazio sacro? Questo è sacro per effetto di un rituale che vi si celebra e di una formula di dedicazione che lo dedica solennemente alla divinità, ma è vero tuttavia che tale dedicazione, pur comportando un mutamento di stato e quasi di natura del luogo stesso, non ne condiziona però le leggi fisiche né le apparenze, e potrebbe quindi passare inosservato. Ecco dunque che si rende necessario apporre degli avvertimenti, dei nuovi segnali volti a rendere visibile ciò che altrimenti potrebbe non essere percepito. Fu così che nacquero già in tempi ancestrali e presso i culti più antichi i primi recinti per separare i luoghi più sacri dallo spazio circostante, e molto tempo dopo, ma in modo simile, furono create anche le prime recinzioni nei luoghi cristiani per separare il santuario o presbiterio dal resto della chiesa, come si può verificare dalle tracce archeologiche delle più antiche domus ecclesiae.
Nel percorso di attraversamento dello spazio sacro cristiano che in questa rubrica si sta compiendo, sarà infatti inevitabile inciampare, per così dire, in alcuni manufatti, chiamati comunemente balaustre, che per molti secoli hanno costituito una presenza regolare all’interno delle chiese. Nonostante l’apparente banalità di questi oggetti, sarebbero necessari fiumi d’inchiostro per descrivere tutte le funzioni e tutti i significati che essi hanno rivestito, e tutta la storia che li ha modellati fino ad arrivare alla semplicità delle ultime balaustre, mandate in soffitta, se non proprio distrutte, da tanti parroci nei passati cinquant’anni. Le balaustre, infatti, non furono che l’ultima mutazione di quegli elementi separatori che assunsero di volta in volta la forma della transenna lapidea, della tenda, del cancello e dell’iconostasi, e che replicavano quanto già la facciata della chiesa, o il suo portale, esprimevano fin dal primo approccio all’edificio sacro.
Il loro messaggio era un avvertimento, un caveat, posto a segnalare che oltre la linea sulla quale essi si ergevano si entrava in un’area dove l’azione e il pensiero individuale avrebbero dovuto abbandonare le consuetudini mondane e, lasciando alle spalle i diritti del mondo, piegarsi al diritto di Dio e conformarsi ad attitudini più sante. Al contrario infatti di come molti hanno erroneamente pensato, il compito primario delle balaustre e degli elementi ad esse affini non era di tipo funzionale, ma simbolico. Non era dunque di chiudere l’ingresso al presbiterio, ma di manifestare all’esterno di esso cosa il presbiterio dovrebbe realmente significare. Le balaustre dunque, più che elementi di divisione, vanno piuttosto percepite come tramiti di comunicazione. Se esse infatti non fossero esistite, quale spazio avremmo garantito al sacro?
Le balaustre, non diversamente dall’abito talare, custodivano uno spazio esigente, una riserva di santità e ne manifestavano l’esistenza al di fuori rendendola visibile. Quegli umili elementi, che diventavano l’appoggio dei comunicandi e che reggevano gli sguardi inginocchiati dei fedeli verso l’altare, sostenevano inoltre il peso immane di rendere il sacro percepibile e quasi tangibile. Quando, dopo gli anni Sessanta, tanti chierici e religiosi vollero disfarsi del concetto del sacro rivoluzionandolo, si accanirono proprio contro quei recinti che, delimitandolo, lo rendevano riconoscibile. Ma quest’opera di distruzione fu solo apparente: si possono cancellare le tracce del sacro ma esso sussisterà non visto, e presto o tardi tornerà a manifestarsi. Il ristabilimento delle balaustre nel restauro della Cappella Paolina al Vaticano voluto da Papa Benedetto XVI ben manifesta che questi elementi non hanno esaurito la loro funzione e che anzi mai più di oggi si sente nuovamente l’urgenza di restituirli al loro gravoso compito.

La riforma liturgica del Concilio Vaticano II nell’insegnamento di Benedetto XVI

di don Nicola Bux

(Relazione al Convegno sul Summorum Pontificum – Madrid, 24 aprile 2010)

1. “Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine(cfr Gv 13,1) in Gesù Cristo crocifisso e risorto”[1]. Se Dio sparisce dall’orizzonte dell’uomo, questi  perde l’orientamento con le conseguenze deleterie che constatiamo, in primis la deriva etica e l’immoralità. Ora, la Chiesa e il Successore di Pietro esistono per condurre gli uomini a Dio e in secondo luogo unire i credenti. Queste le ragioni addotte da Benedetto XVI, della revoca della scomunica ai vescovi della Fraternità S.Pio X fondata da Mons.Marcel Lefebvre.

Queste ragioni si ritrovano nel Proemio della Costituzione sulla sacra Liturgia, il primo testo fondamentale del concilio ecumenico Vaticano II, che “ritiene suo dovere interessarsi in modo speciale anche della riforma(instaurandam) e dell’incremento (fovendam) della Liturgia” (1). Quantunque si parli nei testi magisteriali di “riforma liturgica del Concilio (liturgica Concilii reformatio)”[2], il verbo ‘instaurare’ – tanto in latino tanto in italiano – va inteso come restaurare e non già come trasformare. ‘Instaurare’, allora, significare ‘ritornare ai fondamenti’. Mi sembra questo il senso di ‘riforma’ nell’insegnamento di Benedetto XVI e prima di Joseph Ratzinger teologo e prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede: “Io sono evidentemente per il Vaticano II, che ci ha portato tante belle cose. Ma dichiarare ciò insuperabile e giudicare inaccettabile ogni riflessione su ciò che noi dobbiamo riprendere dalla storia della Chiesa, ecco un settarismo che io non accetto! […] io sono per la stabilità! Se si cambia la liturgia ogni giorno, essa non è più vivibile! Bisogna anche avere un po’ di memoria: personalmente, tutto quello che ho vissuto in più di settanta anni ha nutrito  la mia spiritualità. Ma, d’altra parte, il fissismo – “Ora tutto è fatto…” – è comunque sbagliato. Infatti, spetta ad ogni generazione valutare ciò che si può migliorare per essere sempre più conformi alle origini e al vero spirito della liturgia. E io penso che ci sia effettivamente materia anche oggi, per la nuova generazione, per “riformare la riforma”. Non attraverso delle rivoluzioni (io sono un riformista, non un rivoluzionario…),  ma cambiando ciò che deve essere cambiato. Dichiarare ogni riforma impossibile mi sembrerebbe un dogmatismo assurdo”[3].

2.    Ora veniamo alla liturgia come intesa dalla Costituzione liturgica. La Chiesa è una realtà divina e umana, permanentemente rivolta a Gesù Cristo che riconosce presente in mezzo a lei grazie alla potenza dello Spirito Santo (cfr Sacrosanctum Concilium 7): tale riconoscimento si chiama adorazione, cioè una religione o relazione di culto pubblico integrale o – dal greco – liturgia, che imita quella celeste come è descritta nell’Apocalisse (cfr ivi). Lo sforzo  imitativo tra quella celebrata in terra e la celeste porta necessariamente a deformazioni che necessitano poi di ri-forme, a cominciare da quella di se stessi, cioè della Chiesa e quindi della liturgia. Il fine della liturgia è la gloria e l’adorazione del Signore e non l’esibizione o peggio esaltazione di sé. Più l’uomo dà gloria a Dio Padre e più si salva. Bisogna sapere che il cielo è aperto da quando Gesù Cristo il Figlio di Dio vi è salito con l’Ascensione e dal quale egli scende nella liturgia con tutti i suoi santi (cfr 8). Tale esercizio di mediazione tra Dio e l’uomo è la liturgia e lo compie il sacerdote, dal latino ‘sacrum’, perciò “è azione sacra per eccellenza”( 7). Sacro non è la stessa cosa di santo: sono due concetti diversi. Il primo termine riguarda cose fisiche o giuridiche (la vita, la legge…); il secondola persona. Unfedele laico può essere un santo, un sacerdote può non essere santo, anche se è un ministro sacro. Infatti può amministrare ‘cose sante’, i sacramenti, ma non essere santo. La definizione del sacro è l’irruzione della Presenza divina, della vita soprannaturale, il massimo di vita e di purezza: è questo il criterio per ordinare i segni nella liturgia.

La sacra o divina liturgia – termini con cui è definita rispettivamente dai latini e dagli orientali “non è una rappresentazione fredda e priva di vita degli eventi del passato o un semplice e vuoto ricordo di un tempo passato. Ma piuttosto Cristo stesso sempre vivente nella sua Chiesa” [4]. La presenza di Cristo cambia nel suo essere l’uomo, toccando e santificando tutti i momenti della vita [5], unendo gli uomini e proponendo la Chiesa quale segno di salvezza che raccoglie i dispersi[6]. Così scrive Pio XII nella enciclica Mediator Dei,  fondamentale per comprendere la Costituzione liturgica: si capisce meglio la celebre frase: “la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù” (cfr 10). Soprattutto “i segni visibili, di cui la sacra liturgia si serve per significare le realtà divine invisibili, sono stati scelti da Cristo o dalla Chiesa”(33): questo è essenziale per capire la sua sacralità, quindi la sua immutabilità. E’ di istituzione divina, possiamo dire di diritto divino ed è opus publicum. Si configura qui l’ ius o dimensione giuridica della liturgia. Forse la valutazione di alcuni studiosi per i quali “SC 21 distingue la parte mutabile della liturgia dalla parte immutabile senza però definire quale quest’ultima sia”[7] può essere riveduta almeno quanto ai principi.

Quindi l’ “accurata riforma generale” della liturgia che il Vaticano II riprendeva in continuità con la Mediator Dei e l’opera di Pio XII aveva tali intenti; non certo toccare questa “parte immutabile, perchè di istituzione divina” (Sacrosanctum Concilium 21), ma quelle parti in cui “si fossero insinuati elementi meno rispondenti all’intima natura della liturgia, o si fossero resi meno opportuni” (ivi). Tale riforma doveva tener conto di alcune norme generali: che regolare la sacra liturgia compete unicamente alla Sede Apostolica e, a norma del diritto (non in deroga ma in applicazione), al vescovo ed entro certi limiti alle assemblee episcopali territoriali. “Perciò nessun altro, assolutamente, anche se sacerdote, aggiunga, tolga o muti alcunché di sua iniziativa, in materia liturgica”(22,3); anche per il fatto che: “Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa …” (26).

La Costituzione liturgica pone una condizione per la riforma: “Per conservare la sana tradizione e aprire però la via ad un legittimo progresso, la revisione delle singole parti della liturgia deve essere sempre preceduta da un’accurata investigazione teologica, storica e pastorale. Inoltre si prendano in considerazione sia le leggi generali della struttura e dello spirito della liturgia, sia l’esperienza derivante dalla più recente riforma liturgica e dagli indulti qua e là concessi. Infine, non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano in maniera in qualche modo organica da quelle già esistenti. Si evitino anche, per quanto è possibile, notevoli differenze di riti tra regioni confinanti”(23).

Si deve constatare, insieme ad autorevoli studiosi che pure erano stati periti conciliari, che tale auspicio è stato disatteso. Un esempio: la Costituzione liturgica raccomanda che i riti non abbiano bisogno di molte spiegazioni (cfr ivi, 23), ma solo nei momenti più opportuni (cfr 35,3); invece si assiste a liturgie dove l’eloquenza dei segni è subissata da una colluvie di parole e didascalie che impediscono ai primi di parlare al cuore del fedele.

Un altro esempio: si invita a ristabilire nella Messa ciò che è caduto in disuso, secondo la tradizione dei padri(cfr 50): l’uso del latino, da conservare nei riti latini (cfr 36,1), mentre la lingua volgare si concede nelle letture e monizioni, in alcune preghiere e canti, nell’orazione comune e altre parti spettanti al popolo (cfr 54); si esorta anche a che “si abbia cura però che i fedeli possano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’Ordinario della Messa che spettano ad essi”(54); per i chierici l’ufficio divino in lingua latina (cfr 101,1). Perché il latino? La liturgia non è una devozione privata nella quale rivolgersi a Dio in modo individuale, con la propria lingua, ma azione pubblica della Chiesa che per l’occidente ha la sua lingua liturgica e sacra, il latino, fattore di unità ecclesiale oltre che culturale. Inoltre, il latino è garanzia di ortodossia del linguaggio dottrinale e liturgico. Certo, la comunicazione di Dio all’uomo nella Scrittura è giusto che per essere compresa possa avvenire nella liturgia anche in lingua vernacola; ma è altrettanto degno e giusto che la comunicazione della Chiesa col Signore avvenga ‘una voce dicentes’,  come fa comprendere l’espressione conclusiva del prefazio: e il latino esprime ciò adeguatamente. Gli orientali questo principio l’hanno conservato, usando, per esempio, l’aramaico, il greco antico e lo slavo ecclesiastico. Poi, non conserviamo nella liturgia latina parole ebraiche e greche come amen, alleluia, osanna? Nella cosiddetta società multiculturale odierna e con lo strumento di internet, l’argomento dell’incomprensibilità del latino è superato, in primis per i giovani.

Così per il gregoriano: la Costituzione liturgica afferma che è riconosciuto dalla Chiesa e gli è riservato nella liturgia il posto principale perchè è il canto proprio della liturgia romana (cfr 116) e i suoi libri sono da rieditare: lo ha fatto Paolo VI col Graduale simplex (36,1, 37 e 117). Il gregoriano è musica sacra perchè ha una oggettività che prescinde dal gusto soggettivo, anche se se ne serve. Perciò, va rimediata la sparizione del repertorio musicale rimpiazzato dalla musica derivata dalla cultura profana, secolarizzata e incompatibile col Vangelo. Quanto all’arte sacra, per garantirla la Chiesa si riserva il diritto di essere arbitra delle forme artistiche (Ivi,122) e di valutare ciò che può essere ritenuto sacro perché rispondente alla fede, alla pietà e ai canoni della tradizione (cioè le norme religiosamente tramandate), allontanando  dalla casa di Dio quelle contrarie “che offendono il genuino senso religioso,o perché depravate nelle forme, o perché mancanti, mediocri o false nell’espressione artistica”(124). In tal senso la Costituzione invita alla revisione dei canoni dell’arte sacra (cfr 128).

3.   C’è un insegnamento previo di J. Ratzinger che traduce la Costituzione liturgica: da dottore privato, teologo perito del Concilio e prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha prodotto studi alcuni dei quali ora raccolti nell’Opera omnia e in parte reperibili in Davanti al Protagonista e soprattutto nell’Introduzione allo spirito della liturgia tradotto in molte lingue.  Da collaboratore di Giovanni Paolo II, nella enciclica Ecclesia de Eucharistia a cui è seguita la  Istruzione Redemptionis sacramentum.

Alcuni mesi prima dell’elezione pontificia, egli si è appellato ad un’altra riforma liturgica che rappresenterebbe un vero “sviluppo organico” in rapporto al movimento liturgico come si è svolto fino al 1948 e che ha preso corpo nelle riforme di Pio XII. Egli presenta la riforma post-conciliare come una deviazione della vera riforma pensata in Concilio e che questo stesso avrebbe voluto armonicamente continuare: non di rottura ma di continuità, per usare i termini da lui stesso usati nel celebre passaggio sull’ermeneutica  del Concilio nel discorso tenuto alla Curia Romana il 22 dicembre 2005 a pochi mesi dall’elezione. Paolo VI aveva istituito un Consilium ad exsequendam (per eseguire) la Costituzione liturgica non per interpretarla o stravolgerla. Ci sarà bisogno dello studio d’archivio, in specie del diario del segretario mons. Bugnini, per capire se le prime riforme postconciliari, quelle del 1964-1965, fossero nell’alveo stabilito dal concilio, prima della svolta radicale del 1967 con la cosiddetta “messa normativa” presentata al sinodo dei vescovi e che sorprese la maggior parte di loro: una messa nuova in cui era abolita la specificità essenziale della liturgia romana, cioè la preghiera eucaristica unica. Questo giudizio è condiviso oggi da non pochi liturgisti [8].

Ora che è pontefice, con l’Esortazione Sacramentum caritatis e il Motu proprio Summorum Pontificum, si può parlare di avvio della “riforma della riforma”. La liturgia resta sempre «culmine e fonte» della vita della Chiesa (cfr Sacramentum caritatis nn. 3, 17, 70, 76, 83, 93).

Dunque, nell’insegnamento di Benedetto XVI la riforma della liturgia deve avvenire in modo organico, modificarsi un po’ come si modifica il paesaggio, in modo impercettibile, naturale nell’evoluzione. In tal senso vanno intesi i principi generali per il restauro e l’incremento della liturgia nella Costituzione conciliare. La chiave per capire i successivi articoli è il 14: lo scopo della riforma è la partecipazione dei fedeli, ove il termine actuosa, tradotta con attiva, significa invece interna e contemplativa, di mente e di cuore [9]; così l’hanno sempre intesa e raccomandata la tradizione e i pontefici.

Lo spirito da cui scaturisce la riforma è indicato nei n 15-19: la riforma comincia dall’educazione e formazione del clero, a cominciare dal seminario, e dei laici a partire dal catechismo, allo “spiritu et virtute liturgiae”, altrimenti si tratta di attivismo. I fondamenti della liturgia sono ora reperibili nel Catechismo della Chiesa Cattolica art. 1077-1112.

L’alveo in cui deve rimanere la riforma dei riti è descritto, come già detto, nell’“avvertenza” di Sacrosanctum Concilium 23: “…che le nuove forme scaturiscano in maniera in qualche modo organica da quelle già esistenti”. Questo richiama l’art. 50 circa l’instaurazione di pratiche cadute in disuso. La frase cruciale del 23: “non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa” spiega che la riforma che il concilio dava mandato di fare, non era un ‘assegno in bianco’ per una riforma liturgica radicale, ma per una equilibrata e moderata, prudente e tradizionale. Per esempio, circa la riforma della Messa, la Commissione liturgica del Concilio aveva assicurato i padri così: “Hodiernus Ordo Missae, qui decursu saeculorum succrevit, retinendus est[10]. Cosa è successo con quella promulgata nel 1969?

4.     Dunque il concilio ha voluto dire che la liturgia è suscettibile di riforma, ma deve essere uno sviluppo organico e non un’innovazione radicale. In tal senso si sono espressi studiosi come Jounel. La Chiesa non deve inventare le forme dei suoi riti, nati dalla tradizione apostolica, non deve la liturgia apparire come una rottura col passato o come una rivoluzione dei riti. La liturgia è vita e questa, ordinariamente non si sviluppa attraverso mutamenti repentini [11]. La riforma postconciliare è andata oltre i legittimi e tradizionali confini che il concilio stesso aveva stabilito: pur enunciando i principi in modo preciso “la loro forza normativa vien fortemente attenuata dalle non poche e sempre generiche eccezioni previste…A tali eccezioni, infatti, va ricondotta la rozza situazione di anarchia liturgica ch’è sotto gli occhi di tutti e sta quotidianamente ingigantendosi[12].

Se la liturgia ha subito seri danni, come va riparata? 1. Seguire il Papa che sa bene come fare; 2. Studiare; 3. Celebrare degnamente. “Ciò che era sacro rimane sacro”, ha scritto nel Motu proprio. Dove cominciare la riforma della riforma? “dalla presenza del sacro nei cuori, la realtà della liturgia e il suo mistero”[13]. Un mistero che ha bisogno di spazio interiore ed esteriore. Perciò vanno eliminate le “deformazioni della liturgia al limite del sopportabile[14]. La liturgia non può essere fabbricata, perciò c’è bisogno di arricchimento vicendevole tra la forma antica ora straordinaria e quella nuova ordinaria: questa dovrà ispirarsi al carattere sacro e stabile della prima. Perchè nella liturgia Cristo diviene contemporaneo a noi.

Ratzinger osserva che si è andati oltre col nuovo messale: così la crisi della Chiesa è dovuta alla crisi della liturgia, diventata senza regole, dimentica del ius divinum, self- made, “una danza vuota intorno al vitello d’oro che siamo noi stessi[15]. E aggiunge: “Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita […]come se in essa non importasse più se Dio c’è, e se ci parla e ci ascolta…[16].

Allora si può riassumere la riforma di Benedetto XVI in tre priorità: 1. la nozione di participatio actuosa di ognuno alla Messa [17]: non troppe parole, non teatralizzazione, non spontaneismo e improvvisazione; salvaguardare il rito romano: per aprirci alle altre culture non dobbiamo dimenticare la nostra; 2. il posto del silenzio ‘riverente’ nella Messa (cfr SC 30); perchè l’azione a cui prendere parte è il dono di Cristo sulla Croce; la Costituzione liturgica non chiede di essere ‘attivi’ in ogni parte della Messa, ma di fare l’offerta di sé e l’adorazione (con i segni di croce, le mani giunte, l’inginocchiarsi con riverenza), soprattutto il silenzio dei fedeli e del sacerdote. 3. l’orientamento del sacerdote all’altare, specialmente dall’offertorio in poi. La posizione verso il popolo è stato un errore tragico, mutuato dal fraintendimento dell’Ultima Cena. Il sacerdote invece deve essere rivolto al Signore, il Sole che sorge, il Risorto e il veniente. Così la Chiesa ha espresso la vera forma della Messa cioè l’eucaristia “pignus futurae gloriae”, perché nella Messa la salvezza è incompleta. La Messa verso il popolo fa della liturgia un “cerchio chiuso”[18].

Dunque, bisogna ripartire dalla teologia della liturgia per un nuovo movimento liturgico: “come il (primo) movimento liturgico, che ha preparato l’avvento del concilio Vaticano II, è cresciuto rapidamente in una corrente impetuosa, così anche in questo caso l’impulso dovrà venire da chi veramente vive la fede. Tutto dipenderà dall’esistenza di luoghi esemplari in cui la liturgia sia celebrata correttamente, in cui si possa vivere di persona ciò che questa è…”[19] . Esso è già in atto, di giovani fedeli laici. Basta andare su internet.

E’cominciata una riforma paziente: “in questo tempo in cui ci è richiesta la pazienza, questa forma quotidiana dell’amore. Un amore in cui sono presenti al tempo stesso la fede e la speranza”[20].

 

[1] Benedetto XVI, Lettera ai Vescovi, 10 marzo 2009.

[2] Cfr. Redemptionis sacramentum, n. 4; Ecclesia de Eucharistia, n. 10. [3] Davanti al Protagonista, Siena 2009, p 181.

[4] Pio XII, Enciclica Mediator Dei; DS 3855. [5] Ivi, 61.

[6] Ivi, 2.

[7] R.Amerio, IotaUnum. Studio sulle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, a cura di E.M.Radaelli, Lindau,Torino 2009, p 561-562.

[8] cfr C.Barthe, La Messe a l’endroit, Orthez 2020, p 34.

[9] Cfr Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello B. 2001, p 171-177.

[10] A.Reid, in Aa.Vv, The Genius of the Roman Rite. Historical, Theological and Pastoral Perspectives on Catholic Liturgy, ed.U.M.Lang, Chicago/Mundelein,Illinois,2010, p 208. [11] Cfr anche McManus, Bouyer, Jungmann in: ivi, p 204 s.

[12] cfr B.Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II: un Discorso da fare, Casa Mariana

Editrice, Frigento (Av), 2009, p 140. [13] Davanti al Protagonista, p 56-57.

[14] Lettera ai vescovi in occasione della pubblicazione del Motu proprio Summorum

Pontificum, 7 luglio 2007, n.5.

[15] Via Crucis 2005: Meditazione IX stazione, Città del Vaticano 2005; cfr anche:

Introduzione allo spirito della liturgia, p 19.

[16] J.Ratzinger,La mia vita, San Paolo 1997, p 113. [17] Cfr Introduzione allo spirito della liturgia, p 168. [18] Ivi, p 77-78.

[19] J.Ratzinger, Dio e il mondo, S.Paolo 2005, p 380.

[20] V.Messori a colloquio con J.Ratzinger, Rapporto sulla fede, C. Balsamo 1985, p 10.