Le cinque piaghe del Corpo mistico e della Liturgia

4° Incontro per l’Unità Cattolica – 15 gennaio 2012

Intervento di Monsignor Athanasius Schneider
Vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Santa Maria d’Astana,
Segretario della Conferenza dei vescovi cattolici del Kazakhstan

Per parlare correttamente della nuova evangelizzazione è indispensabile portare innanzitutto il nostro sguardo su Colui che è il vero evangelizzatore, Nostro Signore Gesù-Cristo il Salvatore, il Verbo di Dio fatto uomo. Il figlio di Dio è venuto su questa terra per espiare e riscattare il più grande peccato, il peccato per eccellenza. E questo peccato per eccellenza dell’umanità consiste nel rifiuto di adorare Dio, nel rifiuto di riservargli il primo posto, il posto d’onore. Questo peccato degli uomini consiste nel fatto che non si presta attenzione a Dio, nel fatto che non si possiede più il senso delle cose, nel fatto che non si vuol vedere Dio, nel fatto che non ci si vuole inginocchiare davanti a Dio.

Di fronte ad un simile atteggiamento, l’incarnazione di Dio è imbarazzante, ugualmente e di riflesso imbarazzante è la presenza reale di Dio nel mistero eucaristico, imbarazzante la centralità della presenza eucaristica di Dio nelle chiese. L’uomo peccatore vuole in effetti mettersi al centro, tanto all’interno della Chiesa che al di fuori della celebrazione eucaristica, vuole esser visto, vuol farsi notare.

È la ragione per cui Gesù eucaristia, Dio incarnato, presente nei tabernacoli sotto la forma eucaristica, si preferisce piazzarLo di lato. Anche la rappresentazione del Crocifisso sulla croce in mezzo all’altare al momento della celebrazione di fronte al popolo è imbarazzante, perché il viso del prete se ne troverebbe nascosto. Dunque l’immagine del Crocifisso al centro come pure Gesù eucaristia nel tabernacolo similmente al centro dell’altare, sono imbarazzanti. Conseguentemente la croce e il tabernacolo sono piazzati di lato. Durante la celebrazione, chi assiste deve poter osservare in permanenza il viso del prete, di colui a cui piace mettersi letteralmente al centro della casa di Dio. E se per sbaglio Gesù eucaristia è quanto meno lasciato nel suo tabernacolo al centro dell’altare, perché il ministero dei beni culturali persino sotto un regime ateo, ha vietato di spostarlo per ragioni di conservazione del patrimonio artistico, il prete, spesso durante tutta la celebrazione liturgica, gli gira senza scrupolo le spalle.

Quante volte bravi fedeli adoratori del Cristo, nella loro semplicità ed umiltà, avranno esclamato : « Benedetti voi, Monumenti storici! Per lo meno voi ci avete lasciato Gesù al centro della nostra Chiesa. »

È solo a partire dall’adorazione e dalla glorificazione di Dio che la Chiesa può annunciare in maniera adeguata la parola di verità, cioè evangelizzare. Prima che il mondo ascoltasse Gesù, il Verbo eterno fattosi carne, predicare e annunciare il regno, Gesù ha taciuto e ha adorato per trent’anni. Ciò resta per sempre la legge per la vita e l’azione della Chiesa così come di tutti gli evangelizzatori. « È dal modo di curare la liturgia che si decide la sorte della Fede e della Chiesa », ha detto il cardinal Ratzinger, nostro attuale Santo Padre e Papa Benedetto XVI. Il concilio Vaticano II voleva richiamare alla chiesa la realtà e l’azione che dovevano prendere il primo posto nella sua vita. È ben per questo che il primo documento conciliare è dedicato alla liturgia. In esso il concilio ci dà i seguenti principi: Nella Chiesa e da qui nella liturgia, l’umano deve orientarsi al divino ed essergli subordinato, ed anche ciò che è visibile in rapporto all’invisibile, l’azione in rapporto alla contemplazione, e il presente in rapporto alla città futura, alla quale aspiriamo (cf. Sacrosanctum Concilium, 2). La nostra liturgia terrestre partecipa, secondo l’insegnamento del Vaticano II, al pregustare la liturgia celeste della città Santa, Gerusalemme (cf. idem, 2)

Per questo, tutto nella liturgia della Santa Messa deve servire ad esprimere in maniera più netta la realtà del sacrificio di Cristo, cioè le preghiere di adorazione, di ringraziamento, d’espiazione, che l’eterno Sommo-Sacerdote ha presentato al Padre Suo.

Il rito e tutti i dettagli del Santo Sacrificio della Messa devono incardinarsi nella glorificazione e nell’adorazione di Dio, insistendo sulla centralità della presenza del Cristo, sia nel segno e nella rappresentazione del Crocifisso, che nella Sua presenza eucaristica nel tabernacolo, e soprattutto al momento della consacrazione e della santa comunione. Più ciò è rispettato, meno l’uomo di pone al centro della celebrazione, meno la celebrazione somiglia ad un circolo chiuso, ma è aperta anche in maniera esteriore sul Cristo, come una processione che si dirige verso di lui col prete in testa, più una tale celebrazione liturgica rifletterà in modo fedele il sacrificio d’adorazione del Cristo in croce, più ricchi saranno i frutti provenienti dalla glorificazione di Dio che i partecipanti riceveranno nelle loro anime, più il Signore li onorerà.

Più il sacerdote e i fedeli cercheranno in verità durante le celebrazioni eucaristiche la gloria di Dio e non la gloria degli uomini, e non cercheranno di ricevere la gloria gli uni dagli altri, più Dio li onorerà lasciando partecipare la loro anima in maniera più intensa e più feconda alla Gloria e all’Onore della Sua vita divina. Nel momento attuale e in diversi luoghi della terra, sono numerose le celebrazioni della Santa Messa delle quali si potrebbero dire le seguenti parole, inversamente alle parole del Salmo 113,9: « A noi, o Signore, e al nostro nome dai gloria » ed inoltre a proposito di tali celebrazioni si applicano le parole di Gesù : « Come potete credere, voi che ricevete la vostra gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo ? » (Giovanni 5, 44).

Il Concilio Vaticano II ha emesso, riguardo ad una riforma liturgica, i seguenti principi:

  1. Durante la celebrazione liturgica, l’umano, il temporale, l’attività, devono orientarsi al divino, all’eterno, alla      contemplazione e avere un ruolo subordinato in rapporto a questi ultimi      (cf. Sacrosanctum Concilium, 2).
  2. Durante la celebrazione liturgica, si dovrà incoraggiare la presa di coscienza che la liturgia terrestre partecipa della liturgia celeste (cf. Sacrosanctum Concilium, 8).
  3. Non deve esserci alcuna innovazione, dunque      alcuna nuova creazione di riti liturgici, soprattutto nel rito della Messa, tranne se ciò è per un frutto vero e certo in favore della Chiesa, e a condizione che si proceda con prudenza sul fatto che eventuali forme nuove sostituiscano in maniera organica le forme esistenti (cf. Sacrosanctum Concilium, 23).
  4. I riti della Messa devono esser tali che il sacro sia espresso più esplicitamente (cf. Sacrosanctum Concilium, 21).
  5. Il latino deve essere conservato nella liturgia e soprattutto nella Santa Messa (cf. Sacrosanctum Concilium, 36 e 54).
  6. Il canto gregoriano ha il primo posto nella liturgia (cf. Sacrosanctum Concilium, 116).

I padri conciliari vedevano le loro proposizioni di riforma come la continuazione della riforma di S. Pio X (cf. Sacrosanctum Concilium, 112 e 117) e del servo di Dio, Pio XII, e in effetti, nella costituzione liturgica, la più citata è l’enciclica Mediator Dei di papa Pio XII.

Papa Pio XII ha lasciato alla Chiesa, tra gli altri, un principio importante della dottrina sulla Santa liturgia, e ciè la condanna di ciò che chiama archeologismo liturgico, le cui proposizioni coincidevano largamente con quelle del sinodi giansenista e protestantizzante di Pistoia del 1976 (cf. « Mediator Dei », n° 63-64) e che di fatto richiamano le idee teologiche di Martin Lutero.
Perciò già il Concilio di Trento ha condannato le idee liturgiche protestanti, specialmente l”esagerata accentuazione di banchetto nella celebrazione eucaristica a detrimento del carattere sacrificale, la soppressione dei segni univoci della sacralità in quanto espressione del mistero della liturgia (cf. Concilio di Trento, sessio XXII).

Le dichiarazioni liturgiche dottrinali del magistero, come nel caso del Concilio di Trento e dell’enciclica Mediator Dei, che si riflettono in una prassi liturgica secolare, anzi da più di un millennio, costante e universale, queste dichiarazioni dunque, fanno parte di quell’elemento della santa tradizione che non si può abbandonare senza incorrere in grandi danni sul piano spirituale. Queste dichiarazioni dottrinali sulla liturgia, il Vaticano II le ha riprese, come può constatarsi leggendo i principi generali del culto divino nella costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium.

Come errore concreto nel pensiero e nell’azione dell’archeologismo liturgico, il papa Pio XII cita la proposizione di dare all’altare la forma di una tavola (cf. Mediator Dei n° 62). Se già papa Pio XII rifiutava l’altare a forma di tavola, si immagini come avrebbe a fortiori rifiutato la proposizione di una celebrazione come intorno ad una tavola « versus populum » !
Se la Sacrosanctum Concilium al n° 2 insegna che, nella liturgia, la contemplazione deve avere la priorità e che tutta la celebrazione della messa deve essere orientata verso i misteri celesti (cf. idem n° 2 et n° 8), vi si trova un’eco fedele della seguente dichiarazione di Trento che diceva: « E perché la natura umana è tale, che non facilmente viene tratta alla meditazione delle cose divine senza piccoli accorgimenti esteriori, per questa ragione la chiesa, pia madre, ha stabilito alcuni riti, che cioè, qualche tratto nella messa, sia pronunziato a voce bassa, qualche altro a voce più alta. Ha stabilito, similmente, delle cerimonie, come le benedizioni mistiche; usa i lumi, gli incensi, le vesti e molti altri elementi trasmessi dall’insegnamento e dalla tradizione apostolica, con cui venga messa in evidenza la maestà di un sacrificio così grande, e le menti dei fedeli siano attratte da questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle altissime cose, che sono nascoste in questo sacrificio.» (sessio XXII, cap. 5).

I citati insegnamenti del magistero della Chiesa e soprattutto quello di Mediator Dei sono stati riconosciuti senza alcun dubbio anche dai padri conciliari come pienamente validi; di conseguenza essi devono continuare ancor oggi ad essere pienamente validi per tutti i figli della Chiesa.
Nella lettera indirizzata ai vescovi della Chiesa cattolica unita al Motu proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007, il papa fa questa dichiarazione importante: « Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso ». Dicendo questo, il papa esprime il principio fondamentale della liturgia che il Concilio di Trento e papa Pio XII hanno insegnato.

Se si guarda senza idee preconcette e in maniera obbiettiva la pratica liturgica della stragrande maggioranza delle chiese in tutto il mondo cattolico nel quale è in uso la forma ordinaria del rito romano, nessuno può negare in tutta onestà che i sei principi liturgici menzionati dal Concilio Vaticano II sono rispettati poco o niente addirittura. Ci sono un certo numero di aspetti concreti nell’attuale pratica liturgica dominante, nel rito ordinario, che rappresentano una vera e propria rottura con una pratica religiosa costante da oltre un millennio. Si tratta dei cinque usi liturgici seguenti che si possono considerare come le cinque piaghe del corpo mistico liturgico del Cristo. Si tratta di piaghe, perché rappresentano una violenta rottura col passato, perché mettono apertamente meno l’accento sul carattere sacrificale che è quello centrale ed essenziale della messa, mettono avanti il banchetto; tutto ciò diminuisce i segni esteriori dell’adorazione divina, perché esse mettono meno in rilievo il carattere del mistero in ciò che ha di celeste ed eterno.

In ordine a queste cinque piaghe, si tratta di quelle che – ad eccezione di una (le nuove preghiere dell’offertorio) – non sono previste nella forma ordinaria del rito della messa, ma sono state introdotte in modo deplorevole dalla pratica.

La prima piaga, la più evidente, è la celebrazione del sacrificio della messa in cui il prete celebra volto verso i fedeli, specialmente durante la preghiera eucaristica e la consacrazione, il momento più alto e più sacro dell’adorazione dovuta a Dio. Questa froma esteriore corrisponde per sua natura più al modo in cui ci si comporta quando si condivide un pasto. Ci si trova in presenza di un circolo chiuso. E questa forma non è assolutamente conforme al momento della preghiera ed ancor meno a quello dell’adorazione. Ora questa forma, il concilio Vaticano II non l’ha auspicata affatto e non è mai stata raccomandata dal magistero dei papi postoconciliari. Papa Benedetto XVI nella sua prefazione al primo tomo della sua OperaOmnia scrive: « l’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nella cristianità moderna ed è completamente estranea in quella antica. Sacerdote e popolo certamente non pregano uno verso l’altro, ma verso l’unico Signore. Quindi guardano nella preghiera nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo cosmico per il Signore che viene, o, dove questo non fosse possibile, verso una immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come il Signore ha fatto nella preghiera sacerdotale la sera prima della sua Passione (Giovanni 17, 1). Intanto si sta facendo strada sempre di più, fortunatamente, la proposta da me fatta alla fine del capitolo in questione nella mia opera: non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo. ».

La forma di celebrazione in cui tutti portano il loro sguardo nella stessa direzione (conversi ad orientem, ad Crucem, ad Dominum) è anche evocata dalle rubriche del nuovo rito della messa (cf. Ordo Missae, n. 25, n. 133 et n. 134). La celebrazione che si dice « versus populum » certamente non corrisponde all’idea della Santa Liturgia tal quale è menzionata nelle dichiarazioni di Sacrosanctum Concilium n°2 et n° 8.

La seconda piaga è la comunione sulla mano diffusa dappertutto nel mondo. Non soltanto questa modalità di ricevere la comunione non è stata in alcun modo evocata dai Padri conciliari del Vaticano II, ma apertamente introdotta da un certo numero di vescovi in disobbedienza verso la Santa Sede e nel disprezzo del voto negativo nel 1968 della maggioranza del corpo episcopale. Solo successivamente papa Paolo VI l’ha legittimata controvoglia, a condizioni particolari.

Papa Benedetto XVI, dopo la Festa del Corpus Domini 2008, non distribuisce più la comunione che a fedeli in ginocchio e sulla lingua, e ciò non soltanto a Roma, ma anche in tutte le chiese locali alle quali rende visita. Attraverso ciò egli donò all’intera Chiesa un chiaro esempio di magistero pratico in materia liturgica. Se la maggioranza qualificata del corpo episcopale, tre anni dopo il concilio, ha rifiutato la comunione nella mano come qualcosa di nocivo, quanti più Padri conciliari l’avrebbero fatto ugualmente!

La terza piaga, sono le nuove preghiere dell’offertorio. Esse sono una creazione interamente nuova e non sono mai state usate nella Chiesa. Esse esprimono meno l’evocazione del mistero del sacrificio della croce che quella di un banchetto, richiamando le preghiere del pasto ebraico del sabato. Nella tradizione più che millenaria della Chiesa d’Occidente e d’Oriente, le preghiere dell’offertorio sono sempre state espressamente incardinate al sacrificio della croce (cf. p. es. Paul Tirot, Storia delle preghiere d’offertorio nella liturgia romana dal VII al XVI secolo, Roma 1985). Una tale creazione assolutamente nuova è senza nessun dubbio in contraddizione con la formulazione chiara del Vaticano II che richiama « Innovationes ne fiant … novae formae ex formis iam exstantibus organice crescant » (Sacrosanctum Concilium, 23).

La quarta piaga è la sparizione totale del latino nell’immensa maggioranza delle celebrazioni eucaristiche della forma ordinaria nella totalità die paesi cattolici. È una infrazione diretta contro le decisioni del Vaticano II.

La quinta piaga è l’esercizio dei sevizi liturgici di lettori e di accoliti donne, così come l’esercizio degli stessi servizi in abito civile penetrando nel coro durante la Santa Messa direttamente oltre lo spazio riservato ai fedeli. Quest’abitudine non è giammai esistita nella Chiesa, o per lo meno non è mai stata la benvenuta. Essa conferisce alla messa cattolica il carattere esteriore di qualcosa di informale, il carattere e lo stile di un’assemblea piuttosto profana. Il secondo concilio di Nicea vietava già, nel 787, tali pratiche, redigendo questo canone: « Se qualcuno non è ordinato, non gli è permesso fare la lettura dall’ambone durante la santa liturgia », (can. 14). Questa norma è stata costantemente rispettata nella Chiesa. Solo i suddiaconi o i lettori avevano il diritto fare la lettura durante la liturgia della Messa. Al posto dei lettori e accoliti mancanti, sono uomini o ragazzi in veste liturgica che possono farlo, e non donne, essendo un dato di fatto che il sesso maschile sul piano sacramentale dell’ordinazione non sacramentale dei lettori ed accoliti, rappresenta simbolicamente il primo legame con gli ordini minori.

Nei testi del Vaticano II, non è fatta alcuna menzione della soppressione degli ordini minori e del suddiaconato, né dell’introduzione di nuovi ministeri. Nella Sacrosanctum Concilium n° 28, il concilio fa la differenza tra « minister » e « fidelis » durante la celebrazione liturgica, e sancisce che l’uno e l’altro hanno diritto di fare ciò che loro spetta in ragione della natura della liturgia. Il n° 29 meziona i « ministrantes », cià gli addetti al servizio dell’altare che non hanno ricevuto alcuna ordinazione. In opposizione a costoro ci sarebbero, scondo i termini giuridici dell’epoca, i « ministri », cioè coloro che hanno ricevuto un ordine maggiore o minore che sia.

Con il Motu proprio Summorum Pontificum, Papa Benedetto XVI afferma che entrambe le forme del Rito romano sono da guardare e trattare con lo stesso rispetto, perché la Chiesa rimane la stessa prima e dopo il Concilio. Nella lettera che accompagna il Motu proprio, il Papa auspica che le due forme si arricchiscano reciprocamente. Inoltre, auspica che nella nuova forma “appaia, più di quanto non sia avvenuto finora, il senso del sacro che attira molte persone verso il vecchio rito.”

Le quattro ferite liturgiche o usi infelici (celebrazione versus populum, comunione nella mano, totale abbandono del latino e del canto gregoriano e l’intervento delle donne per il servizio di lettura e quello di accolito) non hanno di per sé nulla a che fare con la forma ordinaria della Messa e sono inoltre in contraddizione con i principi liturgici del Vaticano II. Se si ponesse fine a questi usi, si ritornerebbe al vero insegnamento del Vaticano II. E allora le due forme del Rito romano si avvicinerebbero enormemente così che, almeno esternamente, non si dovrebbe constatare una rottura fra di loro e, quindi, nessuna rottura tra la Chiesa di prima del Concilio e quella del dopo.

Per quel che riguarda le nuove preghiere dell’Offertorio, sarebbe auspicabile che la Santa Sede le sostituisca con le preghiere corrispondenti della forma straordinaria o almeno che permetta il loro uso ad libitum. Così, non è solo esteriormente, ma interiormente, che la rottura tra le due forme sarebbe evitata. La rottura nella liturgia, è appunto quel che la maggior parte dei padri conciliari non ha voluto ; lo testimoniano gli atti del Concilio, perché in duemila anni di storia della liturgia nella Santa Chiesa, non c’era mai stata rottura liturgica e, pertanto, non deve mai essercene. Invece ci deve essere una continuità come deve essere per il Magistero.
È per questo che c’è bisogno oggi di nuovi Santi, di una o più Santa Caterina da Siena. Abbiamo bisogno della “vox populi fidelis” che reclama la soppressione di questa rottura liturgica. Ma il tragico della storia, è che oggi, come al momento dell’esilio di Avignone, una larga maggioranza del clero, soprattutto del clero alto, si accontenta di questo esilio, di questa rottura.

Prima che possiamo aspettarci frutti efficaci e duraturi dalla nuova evangelizzazione, deve innanzitutto instaurarsi un processo di conversione all’interno della Chiesa. Come si può chiamare gli altri a convertirsi fino a quando, tra chi la reclama, nessuna conversione convincente a Dio non è ancora avvenuta perché, nella liturgia, non sono sufficientemente rivolti a Dio, sia interiormente che esteriormente. Si celebra il sacrificio della Messa, il sacrificio di adorazione di Cristo, il più grande mistero della fede, l’atto di adorazione più sublime in un cerchio chiuso, guardandosi a vicenda.

Manca la necessaria “conversio ad Dominum“, anche esternamente, fisicamente. Perché durante la liturgia si tratta Cristo come se non fosse Dio e non Gli si mostrano i segni esterni chiari di un’adorazione dovuta a Dio solo, non solo nel fatto che i fedeli ricevono la Santa Comunione in piedi ma che la prendono nelle loro mani come un cibo ordinario, prendendolo e mettendolo loro stessi in bocca . C’è il pericolo di una sorta di arianesimo o un semi-arianesimo eucaristico.

Una delle condizioni necessarie per una fruttuosa nuova evangelizzazione sarebbe la testimonianza di tutta la Chiesa sul piano del culto liturgico pubblico, osservando almeno questi due aspetti del culto divino, vale a dire:

  1. Che su tutta la terra la Santa Messa sia celebrata, anche nella forma ordinaria, nella “conversio ad Dominum“, interiormente e necessariamente anche esternamente.
  2. Che i fedeli pieghino il ginocchio davanti a Cristo al momento della Santa Comunione, come San Paolo lo domanda, evocando il nome e la persona di Cristo (cfr. Phil 2, 10) e che Lo ricevano con il più grande amore e il massimo rispetto possibile, come è suo diritto in quanto Vero Dio.

Dio sia lodato, Papa Benedetto ha iniziato, con due misure concrete, il processo di ritorno dall’esilio avignonese liturgico, attraverso il Motu proprio Summorum Pontificum e la reintroduzione del rito tradizionale per la comunione.

C’è ancora molto bisogno di preghiera e forse di una nuova Santa Caterina da Siena perché seguano gli altri passi, in modo da guarire le cinque piaghe sul corpo liturgico e mistico della Chiesa e perché Dio sia venerato nella liturgia con lo stesso amore, rispetto, senso del sublime che hanno sempre rappresentato la realtà della Chiesa e del suo insegnamento, specialmente attraverso il concilio di Trento, papa Pio XII nella sua enciclica Mediator Dei, il concilio Vaticano II nella sua costituzione Sacrosanctum Concilium e papa Benedetto XVI nella sua teologia e liturgia, nel suo magistero liturgico pratico e nel Motu proprio citato.

Nessuno può evangelizzare se non ha prima adorato, e parimenti se non adora in permanenza e non dà a Dio, il Cristo Eucaristia, la vera priorità nella maniera di celebrare e in tutta la sua vita. In aeffetti, per riprendere le parole del card Joseph Ratzinger : « È nel modo di trattare la Liturgia che si decide la sorte della Fede e della Chiesa ».

© 2012 Réunicatho via Chiesa e post-concilio. trad. di Maria Guarini.

Don Nicola Bux auspica che il Papa scriva un’enciclica sulla liturgia

CITTA’ DEL VATICANO – “Il mio auspicio è che il Papa scriva un’enciclica sulla Liturgia, proprio a partire dalla fede, e che i cardinali, i vescovi e i sacerdoti, lo assecondino di più su questi temi”. Così mons. Nicola Bux, docente alla Facoltà teologica pugliese e consultore presso le Congregazioni perla Dottrina della fede e per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti, commenta alla Radio Vaticana quanto detto dal Papa nel videomessaggio per la cerimonia conclusiva del Congresso Eucaristico internazionale di Dublino sul fatto che i desideri dei Padri Conciliari circa il rinnovamento liturgico sono stati oggetto di “molte imcomprensioni ed irregolarità” e che “la revisione è rimasta ad un livello esteriore”.

“Nonostante le indicazioni del Concilio – spiega Bux -, la liturgia è stata degradata da ‘atto di culto’ a una sorta di intrattenimento, a una riunione di famiglia. Ma non si tratta di un bene a nostra disposizione, è un ‘atto pubblico della Chiesa’ che viene regolato dalla Santa Sede e – come ricordava il Concilio – nessun altro, anche se sacerdote, può aggiungere, togliere o mutare alcunchè di sua iniziativa in materia liturgica”. Quello che è avvenuto, “e che il Papa in qualche modo denuncia, è esattamente ciò che i Padri Conciliari non volevano. Molti hanno inteso la riforma come una rivoluzione e hanno messo al centro l’uomo, con la sua immancabile volontà di protagonismo, anzichè Dio”. Secondo il docente, “abbiamo tolto dal centro il Santissimo Sacramento per mettere al suo posto noi chierici, in un momento in cui – come si vede dalle cronache – faremmo bene a metterci di lato, come ministri”.

“Non lamentiamoci poi del decadimento dell’etica, anche nella Chiesa – conclude Bux -. Come ha ricordato Benedetto XVI con un’espressione forte: ‘la crisi della Chiesa nasce proprio da una crisi della liturgia’”. (ANSA).

Cosa divide la Chiesa

di don Nicola Bux

La riforma liturgica postconciliare tra abusi e teoremi, resistenze e indulti

1. Premessa

Da non pochi ecclesiastici non si vuol vedere la realtà in costante crescita, di gruppi di  fedeli,  soprattutto  giovani,   che  promuovono  l’attuazione  del  Motu  Proprio Summorum  Pontificum,  per  la  corretta  celebrazione  della   Messa   sia  in  forma extraordinaria, sia in forma ordinaria. Ma poi si finisce per ammettere tale realtà, in quanto da taluni vescovi si sostiene che “la Messa in latino divide la Chiesa”. Pronti a invocare “i segni dei tempi”, non ci si chiede come mai tanti giovani ne siano attratti e quale sia la causa.

Il pensatore ebreo Heschel osserva: “E’ consueto incolpare la scienza secolare e la filosofia antireligiosa dell’eclissi della religione nella società odierna, ma sarebbe più onesto incolpare la religione delle sue stesse sconfitte. La religione è declinata non perché  è  stata  contestata,  ma  perché  è  divenuta  priva  di  rilevanza,monotona, oppressiva e insipida”1. Un tale giudizio non può essere assolutizzato, ma deve far riflettere noi cristiani; per  esempio, se dando priorità al sociale, abbiamo sanato la divisione prodottasi all’interno dell’io tra la sua fede e la realtà in cui vive; se abbiamo prima vagliato la cultura che ci circonda e poi trattenuto ciò che vale. Infatti, la religione è quello che l’uomo fa nella sua solitudine ma anche ciò in cui scopre la sua essenziale compagnia, l’esigenza di dire tu a Dio: “O Dio tu sei  il mio Dio…così nel santuario ti ho cercato per contemplare la tua potenza e la tua gloria”(Sal 63, 2-9).

2. L’io e il culto

La liturgia oggi non stimola la nostalgia del Tu divino, non aiuta a far emergere un io così, perché è privata della Sua  presenza che riempie di silenzio – i tabernacoli vengono tolti dal centro e messi all’angolo o addirittura fuori della chiesa – e quindi, a chi poter dire: “Al tuo nome e al tuo ricordo si volge tutto il nostro desiderio” (Is 26,8)? Il Desiderato delle genti non può essere trovato, perché non è più in chiesa. Poi, l’insistenza  eccessiva  sul  “comunitario”,  specialmente  nelle  celebrazioni  deisacramenti, ha oscurato il “personale”: così, il desiderio che spinge ogni uomo alla ricerca di Dio, non può sopravvivere, non si trasforma in domanda, cioè in preghiera.

“Se non vuoi avere paura, – dice sant’Agostino – metti alla prova il tuo io profondo. Non toccarne solo la superficie ma va in fondo al tuo essere e raggiungi gli angoli più reconditi del tuo cuore” 2. Ma una gran parte di ciò che è più  profondo nell’uomo rimane sepolto a causa dell’allontanamento da Dio: solo Cristo incarnato e risorto può svegliarlo,  perché  è  permanentemente  alla  sua  ricerca.  Benedetto  XVI  spiega  la ragione  per  cui  Dio  si  è  messo  alla   ricerca  dell’uomo:  “Egli  viene  incontro all’inquietudine del nostro cuore,all’inquietudine del nostro domandare e cercare” 3. Per questo la liturgia deve mostrare la sua capacità di risvegliare l’io: se riesce a farlo, proverà la sua verità ed efficacia. Infatti, solo il divino, il sacro presente, Colui che è il senso  ultimo  delle  cose, può  salvare l’uomo, cioè preservarne  e difenderne le dimensioni essenziali e il suo destino. Non si può comprendere che cos’è l’io, al di fuori del cristianesimo. Perché Cristo corrisponde a ciò che io sono e quando lo incontro, specie nel mistero della liturgia comprendo ciò che manca: il Mistero, Uno che mi dice: “Io sono il Mistero che manca a ogni cosa che tu gusti,  a  ogni promessa che tu vivi. Qualunque cosa tu desideri,cerchi di raggiungere,io sono il Destino di tutto ciò che fai. Tu cerchi me in qualsiasi cosa” 4.

3. Nuovo movimento liturgico

L’io rinasce da un incontro così, e genera un’affinità con la persona incontrata e una compagnia  con  altri  che  l’hanno  incontrata 5 : ecco  come  sta  nascendo  il  nuovo movimento liturgico. Nessun potere può impedire totalmente il destarsi dell’incontro, ma cerca tuttavia di impedire che diventi storia 6; non si vuole  vedere la libertà: è la prova  della  mancanza  di  un’esperienza  reale  della  fede,  secondo  ciò  che  dice sant’Ambrogio: “Ubi fides,ibi libertas”. Se c’è la libertà, che è il segno più prezioso e potente della fede, si può verificare che stiamo facendo un’esperienza di fede in grado di resistere a tutto. Ma la libertà è Dio stesso, quindi la libertà dell’uomo per essere vera e sana è dipendenza da Dio. Nel clima di “religione  civile dell’autodeterminazione” da cui siamo circondati, bisogna annunciare la libertà come responsabilità e limite. Accade anche oggi che il potere laico e talvolta anche ecclesiastico, non tolleri la religiosità vera, la vera  devozione secondo san Francesco di Sales, perché la vede come un limite al suo possesso. La fede resta il gesto di  libertà fondamentale e la preghiera  è  l’educazione  costante  alla  libertà.  Ecco  l’importanza  del  tabernacolo, perché l’uomo impari ad aderire al Mistero da cui dipende.  Così il Mistero diventa sperimentabile e noi lo visitiamo, perché con Gesù il Mistero è diventato “presenza affettivamente  attraente” 7 .Il  Mistero  presente  si  scopre  in  un  incontro,  come  la persona amata. Egli è il Verbo Incarnato e il cardine della nostra salvezza(Caro salutis  cardo) 8.Il fatto che permane è il segno della Sua verità: senza il continuo riaccadere  dell’Avvenimento  cristiano  non  c’è  possibilità  di  una  libertà  e  di  una comunione reale.

4. I teoremi erronei

Se questa è la cosa più importante, è incredibile assistere all’indignazione di taluni liturgisti  per  il  “parallelismo   rituale”,  instaurato  dal  Motu  Proprio  Summorum Pontificum e regolato dall’Istruzione Universae Ecclesiae, tra le due forme dell’unico rito romano, perché pericoloso per la comunione ecclesiale. Loro così ecumenici, non sanno che il  rito bizantino nella chiesa ortodossa ha ben tre forme? Così altri riti orientali?A Toledo non si celebra, e non da  ora,  la forma ordinaria latina e quella extraordinaria  del  rito  mozarabico?  Alcuni  ordini  religiosi  non  avevano  le  loro specificità rituali, come i bizantini slavi hanno le proprie rispetto ai greci? E poi, non si  sostiene  a  ogni  pie’  sospinto  nella  “chiesa  postconciliare”  che  la  varietà  o pluriformità non nuoce all’unità? Perché, dunque, temere  che i vescovi “perdano il controllo delle diocesi”? Se sono vescovi cattolici, basta che si mantengano uniti al Papa.  La liturgia è celebrazione di Cristo e della Chiesa, non di una assemblea particolare.  Nella  Chiesa  la  “discontinuità”  deriva  non  dalle  due  forme  del  rito romano, ma dalla creatività del tal prete o tal gruppo per cui si può assistere a liturgie frutto di tale impostazione.

Ma vanno in giro altre dottrine erronee:

a. il soggetto che celebra è l’assemblea.

In verità solo Cristo è il protagonista e il soggetto della Messa nella quale è presente; è lui ad associare a sé “il popolo di Dio gerarchicamente ordinato”, cioè la Chiesa cattolica, che vive anche nel raduno locale di due o tre persone che, dal termine latino celeber (che vuol dire ‘frequentato’)si chiama celebrazione; si usano anche i termini rito (dal greco αριθµός e dal sanscrito rtám ‘ordine’) per indicare l’azione sacra che si svolge secondo un ordine conforme a ciò che richiede la religione e cerimonia, che dal latino vuol dire ‘culto’. Nella Messa  il sacerdote agisce nella persona di Cristo capo del corpo che è la Chiesa. Il fatto che la Messa possa essere celebrata dal solo sacerdote corrisponde proprio a tale personificazione che culmina nell’offerta di sè: pochi o tanti che siamo, se non c’è l’offerta del mio corpo in sacrificio non v’è culto spirituale (cfr Rm 12,1). Sul Golgotha non erano rimasti solo Maria e Giovanni? E a Emmaus, non v’erano solo due discepoli? Si è arrivati a dire che la  Messa  senza popolo è un monstrum: ma, se ci trovassimo sotto persecuzione non dovrebbe il sacerdote celebrare da solo per non essere scoperto? E così i singoli fedeli? Sebbene la persecuzione sia lo stato ordinario della Chiesa, l’eccezione conferma la regola. Si è assolutizzata la Messa col popolo: ma, se popolo vuol dire una “massa di persone”, si salverebbero solo le messe domenicali, laddove fosse ancora alta la frequenza. Col presupposto del popolo, la  messa si dovrebbe celebrare raramente, visto che alle messe feriali vi sono poche persone. Non si salverebbero  nemmeno le comunità monastiche. Se la Chiesa è corpo mistico, vive anche in un solo fedele e in un solo sacerdote.  Non è che per contrastare l’individualismo nella liturgia, si finisce per dimenticare il primato della persona sulla comunità? Quindi la Messa col popolo, non la si deve ritenere superiore a quella dove il popolo non  c’è o vi fossero poche persone.  La  Costituzione  liturgica  stabilisce  che qualsiasi  messa  ha  una  natura pubblica e sociale.9 Paolo VI afferma che non si può “esaltare la messa cosiddetta «comunitaria» in modo da togliere importanza alla messa privata”.10 Infine, la verità e validità della celebrazione – termine che taluni vogliono applicare ai fedeli, secondo il pensiero  protestante per il quale la mediazione sacerdotale è esercitata anche dal popolo – non dipende dall’accostarsi di  tutti  alla Comunione: anche  oggi,  come  in  antico,la  Messa  vede  presenti  “scomunicati”,  penitenti  e catecumeni che non possono fare la Comunione.

Dunque, il soggetto celebrante non è l’assemblea, ma il Signore.

b. la Chiesa prende forma nel rito celebrato.

Si vuol sostenere che fuori della liturgia la Chiesa non abbia forma e quasi non esista. Invece la Chiesa è unita al mistero di Cristo sempre presente con noi fino alla fine del mondo. La Chiesa si edifica nella celebrazione  eucaristica,  nel senso che cresce continuamente; questa “però, non è il punto d’avvio della comunione, che presuppone come esistente, per consolidarla  e  portarla a perfezione”;11 perché “la liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa”.12

Dunque, la Chiesa non prende forma nel rito ma viene prima del medesimo.

c. la presenza di Cristo è mediata dall’assemblea riunita, dal sacerdote celebrante, dalla parola proclamata.

La presenza del Signore non è solo mediata, come spiega la Costituzione liturgica del Vaticano II: “Cristo è sempre  presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche”: quindi, precede i mezzi dai quali è mediata  seppure “in modo speciale”  e attraverso cui si rende visibile “soprattutto sotto le specie eucaristiche”13 del pane e  del vino; questa presenza è definita come reale da Paolo VI, che si richiama al concilio di Trento, “non per esclusione,quasi che le altre non siano “reali”, ma  per  antonomasia,perché  è  anche  corporale  e  sostanziale,  e  in  forza  di  essa Cristo,Uomo-Dio,tutto intero si fa presente”.14 Non è tale nemmeno la Parola divina proclamata nella  Chiesa.15 E ricorda pure che “Non è lecito…insistere sulla ragione del segno sacramentale,come se il simbolismo…esprimesse esaurientemente il modo della presenza di Cristo in questo sacramento”.16

Dunque, la presenza di Gesù Cristo precede e non è solo mediata dai segni visibili.

d. l’altare è la stessa cosa della mensa.

L’Institutio  Generalis  Missalis  Romani  prescrive:  “L’altare,  sul  quale  si  rende presente  nei  segni  sacramentali  il  sacrificio  della  Croce,  è  anche  la  mensa  del Signore…”.17 L’altare si chiama così perché, in continuità col culto giudaico, è alta res, ossia “luogo alto” per offrire (da offerre, levare in alto)il pane e il vino scelti e consacrati per rendere presente il  sacrificio del Calvario, ‘luogo alto’ ove Cristo è stato innalzato. Nella riforma liturgica ha molto nociuto aver  ignorato che il culto cristiano è in continuità col culto del Tempio; così c’è stata una corsa ad “adeguare” l’altare ad una tavola, staccandolo dalla parete e abbassandolo in piano. Ma, dopo il Motu Proprio Summorum Pontificum, non è più necessario “adeguare” altari e chiese: semmai dobbiamo “adeguare” noi stessi alla sacra liturgia. E poi, dobbiamo chiederci: il cosiddetto adeguamento liturgico ha avvicinato la gente alla fede?

Dunque, l’altare non è la stessa cosa della mensa, ma è “anche mensa”, cioè la include in se stesso.

e. le norme e rubriche sono state abolite.

Il fatto che esse siano più numerose e minuziose nei Messali precedenti, fino a quello del 1962, ha garantito la Messa cattolica, sia che la celebrasse un prete dotto, sia un curato di campagna. Esse sono come il riporto di un fiume,  che  certo va sempre ripulito per farlo scorrere; sono come gli argini che frenano gli abusi e reati,come da Paolo VI ad oggi i papi hanno richiamato. Si sostiene che il ritorno all’uso del rito dovrebbe prevalere sul timore dell’abuso: precisiamo: purché sia il ritus servandus, senza del quale non sussiste l’ordo celebrandi: è l’osservanza obbediente che porta ad evitare gli abusi della celebrazione. A questo servono i libri liturgici con le loro prescrizioni e norme, che traducono e garantiscono l’osservanza dello ius divinum e dello ius liturgicum.

Dunque, non è vero che norme e rubriche siano abolite, ma vanno osservate nei nuovi come negli antichi libri  liturgici, come segno di obbedienza a Dio che ha il diritto, solo lui, di stabilire come essere adorato dalla Chiesa.

f. la tradizione antica è stata conservata nel Novus Ordo.

Il Messale pubblicato nel 1965 proponeva l’antico rito romano ritoccato in alcune parti, senza ricorrere a cambiamenti non necessari per la Chiesa 18 e i padri del sinodo del 1966 lo approvarono in maggioranza. Ma qualcuno tirò fuori nel 1969 la messa “normativa” che venne così imposta a tutti. Che poi il Novus Ordo sia più antico del Messale  tridentino, è discutibile in quanto        mancano     elementi    antichi      come l’orientamento del sacerdote ad Dominum e  la lingua latina, che la  Costituzione liturgica non aveva aboliti. Pensino anche a tali fatti taluni vescovi quando affermano che la Messa in latino divide la Chiesa.

Dunque, in realtà nel Novus Ordo sono stati ripristinati alcuni elementi antichi e eliminati altri del Vetus Ordo, secondo criteri non sempre chiari.

g. la lingua latina non è più lingua d’uso e riduce i fedeli a muti spettatori.

Giovanni  XXIII,  la  riteneva  lingua  liturgica  oggettiva  e  universale, immutabile  e sacra. 19  Col  latino,  la  Chiesa  ha  simbolicamente  sconfitto  Babele  mediante  la Pentecoste  dell’unico  linguaggio  universale.  Infatti,  la  Costituzione  liturgica  del concilio Vaticano II incastonava l’uso della lingua parlata nella Messa, in proporzioni di un terzo (letture e preghiera dei fedeli) in rapporto alla latina (ordinario, orazioni, preghiera eucaristica, riti di comunione); tali proporzioni sono state squilibrate, sì che la lingua parlata o vernacola ha corroso i termini e i significati dei testi liturgici. Poi, sostenendo la tesi che le traduzioni della  liturgia sono inadeguate e che ogni cultura avrebbe dovuto comporre le sue preghiere,20 si è incentivato il  relativismo nelle traduzioni: è accaduto che tutto ciò che nei testi era rivolto essenzialmente verso Dio, lo si è piegato in direzione dell’amicizia comunitaria.

Dunque, il latino è stato lasciato in uso dal concilio Vaticano II nella liturgia e i fedeli possono parlarlo o ascoltarlo, senza per questo essere spettatori.

h. Esiste una tradizione rinnovata e una tradizione vecchia.

La tradizione si sviluppa organicamente come il corpo umano o il paesaggio, non destrutturandosi. La riforma  postconciliare si presenta come una storia di resistenza e indulti. Negli anni  ’50,  prima  del  concilio,  c’erano  liturgisti  che  parlavano  di  necessità  della “restaurazione”  liturgica;  poi  cambiarono  termine  e  usarono  “riforma”,  fino  ad opporsi al papa supremo legislatore: a Giovanni Paolo II, che nel 1988 tolse la proibizione al Messale del 1962 consentendo la celebrazione del Vetus Ordo, e ora a Benedetto XVI. L’indulto non vuol dire che un rito sia stato abolito e sostituito dal nuovo, ma che accanto al primo è permesso il secondo (v. la Comunione in mano o sulla lingua). Quindi, il Messale “tridentino” non era stato abrogato, né quel pontefice consentì a una finzione giuridica. Nemmeno si deve sostenere che il Messale di Giovanni XXIII del 1962 fosse “di passaggio”: nessun libro liturgico di per sé è definitivo  e  nemmeno   provvisorio,  a  meno  che  non  se  ne  dichiari  l’uso  ad experimentum. Pertanto, ciò che è proibito non necessariamente è abrogato: proibire vuol dire vietare l’uso, che poi  può tornare in vigore; mentre abrogare vuol dire annullare  del  tutto.  Ciò  è  inconsistente  sul  piano  giuridico?  Tanto  meno,  come chiariremo più avanti, la riforma liturgica ha voluto e dovuto superare quel rito che ora le viene riaffiancato.  Si dimentica che vi sono state  deformazioni della riforma “al  limite  del  sopportabile”?  Paolo      VI   nella   Costituzione  apostolica  Missale Romanum ha parlato di “renovatio”. Pertanto ci si chieda: si è voluta la revisione o la demolizione del Messale? Ora, l’Istruzione Universae Ecclesiae interviene a sanare ciò che ha portato alla rottura invece che alla continuità.

Dunque, non esiste nella Chiesa e nella liturgia una tradizione rinnovata e una vecchia: la vera tradizione,  innova in modo sano, cioè dall’interno, non cambiando continuamente: non sarebbe tradizione né riforma, ma rivoluzione.

i. prima del concilio la liturgia versava in grave crisi.

Se è  così,  non  vi  è  stata  continuità  della  riforma  liturgica  dal  1948  al  1988, contrariamente a quanto  sostiene Bugnini nel suo libro e come sta a dimostrare il fatto della repentina rimozione di lui da parte di Paolo VI. Invece, una riforma della liturgia non sostituisce la vecchia forma a causa di carenze, ma la rimette in forma – ri-forma  –dalle  deformazioni  subite  inevitabilmente. I  progressisti  hanno  voluto creare una liturgia “del concilio” attraverso una loro lettura dei “bisogni pastorali” dei contemporanei;  ciò  ha  portato  alla  liturgia  da  intrattenimento  o  happening;  i “regressisti” invece hanno reagito all’opposto, sviluppando un conservatorismo delle forme rituali.

Dunque, se si vuole sostenere che il vecchio rito era deformato,  si deve ammettere che ciò è avvenuto anche per il nuovo.

l. la riforma liturgica doveva generare nel corpo ecclesiale una forma diversa di partecipazione,corporea e simbolica,comunitaria e dialogica.

Ciò  contraddice  la  continuità.  Invece,  il  rito  romano  è  la  condensazione  della tradizione viva ed è linguaggio comune nella misura in cui le singole persone entrano in rapporto con la presenza divina; proprio questa esigenza induce non pochi fedeli a preferire  la  forma  extraordinaria  del  rito  romano.  In  genere,  oggi  si  intende  la partecipazione come comprensione dei  riti: questo è giusto; tuttavia la comprensione dei riti non coincide con quella del mistero nella liturgia, che non sarà mai piena: in questo ci aiuta sant’Agostino: “La comprensione è la ricompensa della fede. Non tentare  di  comprendere  per   arrivare  a  credere,  ma  abbi  fede  per  arrivare  a comprendere”.21

Dunque,   la   riforma   liturgica    non   doveva   generare   una   forma   diversa   di partecipazione, ma incentivare quella di sempre che consiste nell’aiutare l’uomo ad entrare nel Mistero.

m. la riforma liturgica era una scelta irrevocabile.

Credo che ci sia alla base un equivoco su cosa sia una riforma: si dimentica che essa deve cominciare da sé, dalla  propria conversione. Se la riforma rimane nell’ambito sociologico, genera da un lato rottura e dall’altro resistenza.

Se invece  andiamo  allo  scopo  della  liturgia,la  santificazione  dell’uomo  e  la glorificazione di Dio, allora si comprende che essa, come spesso ricorda Benedetto XVI, sia soggetto da vivere più che da riformare. La liturgia,  è  parlare di Dio e operare con lui: per questo san Benedetto ammoniva:Operi Dei nihil praeponatur! Paolo VI aveva la preoccupazione della continuità ecclesiologica nella liturgia, quindi dell’unità. Infatti il papa non è padrone della liturgia, ma solo custode,né può limitarsi ad appoggiare una riforma o contraddirla, in quanto è il supremo legislatore. Si deve convenire con quanto ha detto il cardinale Koch: “proprio i teologi che si erano impegnati nel  movimento liturgico o che avevano partecipato ai lavori del concilio sono presto divenuti seri critici degli sviluppi  liturgici postconciliari”22. Si pensi a Klaus Gamber, Andreas Jungman, Louis Bouyer e lo stesso Josef Ratzinger. Nel mio piccolo, posso confermare che è così. Dunque, solo la riforma in capite et in membris è una “scelta” irrevocabile della Chiesa, non una riforma liturgica.

5.  La continuità della sacra liturgia

La riforma deve servire a riaffermare i valori preesistenti all’oggi: la tradizione della Chiesa è anche una interpretazione teologica della storia, uno sviluppo organico, che implica il passato. La domanda da porsi, afferma il liturgista Enrico Mazza, è: con quale criterio si sia fatta la riforma liturgica postconciliare.23 E nel dibattito seguito alla tavola rotonda, ha riferito di averla posta a Neunheiser, uno degli esperti, che rispose: “ci sembrava che fosse giusto così”. Si deduce che la riforma non ha indicato quali fossero i criteri di scelta dell’antico da conservare o da tralasciare. Certamente la crisi ecclesiale manifestatasi nel post-concilio dipende dal crollo della liturgia: non lo pensano  solo ambienti del tutto minoritari o “lefebvriani”; se anche fosse così, ci si dovrebbe ricordare che la verità non risiede nella maggioranza. E’ ora di rispettare il confronto tra posizioni, maggioritarie o minoritarie che siano, mettendo  da  parte  le  letture e  i  conteggi. Non  serve  fare “dietrologia”  da parte progressista e regressista, come ai tempi di Paolo VI, circa la solitudine del papa a fronte dei collaboratori che sarebbero disorientati sulla liturgia; o circa le componenti della Curia Romana pro e contra la riforma liturgica. Questo nuoce alla valutazione obbiettiva della  riforma. Si accetti invece il dibattito ampio e rispettoso; vi sono vescovi e teologi che hanno le idee abbastanza chiare e vogliono stare col papa e non senza di lui, procedendo a piccoli passi. La dottrina cattolica insegna che lo Spirito non passa nella Chiesa solo durante un concilio, ma l’accompagna ordinariamente col magistero del papa e dei vescovi uniti con lui. Affermare dunque, che la Messa in latino divida la Chiesa significa innanzitutto andare contro l’impulso dello Spirito. Su qualche sito è riportato un intervento di Paolo VI al concistoro del 24 maggio 1976 che stigmatizzava quanti dividevano la Chiesa, perché rifiutavano l’ossequio alle norme liturgiche. Bisogna dirla tutta: egli, in nome della Tradizione, chiedeva di celebrare con dignità la liturgia rinnovata, ricordando che “l’adozione del nuovo Ordo Missae non è lasciata certo all’arbitrio dei sacerdoti o dei fedeli”, riferendosi a quanti volevano continuare nell’antica forma e ai quali l’aveva concesso, solo se sacerdoti anziani o infermi, ma sine populo. Il punto è che poi, proprio il Novus Ordo che egli aveva promulgato è stato oggetto di arbitri, abusi e reati;  quindi l’auspicio che il Novus Ordo  fosse  stato  promulgato  per  sostituirsi  all’antico,  –  in  nome  della Tradizione – non è stato centrato,  in  quanto è venuto meno il presupposto: il ritus servandus, l’osservanza, ossia il principio dello ius divinum da cui  deriva lo ius liturgicum. Sull’argomento Paolo VI è intervenuto altre volte. Così accade che molti cristiani che partecipano alla liturgia si trovano costretti non dalla legge della Chiesa universale, ma dalle pretese arbitrarie di una determinata diocesi, parrocchia o gruppo che vanno contro la liturgia “normativa”. Ora, come ha ricordato con  franchezza Benedetto XVI: “Riscoprire e apprezzare l’ubbidienza alle norme liturgiche da parte dei Vescovi, come  “moderatori della vita liturgica della Chiesa”, significa rendere testimonianza della Chiesa stessa, una ed universale, che presiede nella carità.” .24 Pertanto il Papa, prendendo atto della situazione, ha ripristinato il Messale del 1962. Si sa, che ogni pontefice perfeziona o rivede la legislazione precedente. Perché dunque rimanere un papa indietro? Se Paolo VI “rivede” Pio V, non può Benedetto XVI “rivedere” Paolo VI? Sono prevalentemente giovani  i  promotori della forma extraordinaria, non anziani nostalgici. Non ha scritto san Benedetto nella Regola che lo Spirito può parlare attraverso il più giovane? La Chiesa è giovane e viva.

6. I sentimenti del timore di Dio e del sacro 

Si deve constatare che oggi nella liturgia nuova è venuta meno la riverenza e il sacro,in una parola l’adorazione, perché non si è più consapevoli di stare alla presenza divina. Non si glorifica primariamente Dio, di conseguenza l’uomo non è santificato e il mondo non è “consacrato”. Basilio ricorda: “Tutto ciò che ha un carattere sacro è da lui che lo deriva”25. Ecco che la riforma deve cominciare dalla rinascita del sacro nei cuori e parallelamente del timore di Dio: quel senso di grande rispetto alla Sua infinita maestà che pervade la Sacra Scrittura: da  Abramo che consapevole della Sua onnipotenza e onnipresenza si prostrava col viso a terra (Gen 17,3-17), a Mosè dinanzi al roveto ardente (Es 3,6) ed Elia (cfr 1 Re 19,13): si coprirono il volto quando percepirono la presenza del Signore, pervasi di sacro timore, perché “Il timore di Dio è una scuola di sapienza”(Pr 15,33). Non si dica che questo sia venuto  meno nel Nuovo  Testamento:  da  Maria  che  esulta:  “di  generazione  in  generazione  la  sua misericordia stende su quelli che lo temono”(Lc 1,49), riconoscendo la grandezza di Colui che per amore si è piegato sulla creatura; a  Pietro, Giacomo e Giovanni che nella  Trasfigurazione  “caddero  con  la  faccia  a  terra  e  furono  presi  da  grande timore”(Mt  17,6);  e  Pietro  che  cadde  in  ginocchio  ai  piedi  di  Gesù  al  lago  di Tiberiade,  chiedendogli  di   allontanarsi  da  sé  peccatore(cfr  Lc  5,8);    non   era schiacciato ma partecipe della bellezza e potenza divina. Dinanzi all’immensità di Dio, la gioia di averlo vicino deve tradursi nella massima riverenza; Egli è l’onnipotente Figlio di Dio che si è fatto vicino a noi. Perciò, sono incomprensibili le proteste di chi afferma che dinanzi a Cristo risorto bisogno stare in piedi,non più in ginocchio! Dice il Catechismo: “Il senso del sacro fa parte della virtù della religione”- quindi riporta un pensiero del beato J.H.Newman: «Il  sentimento  di  timore  e  il  sentimento  del  sacro  sono  sentimenti  cristiani  o no?[…]Nessuno può ragionevolmente dubitarne. Sono i sentimenti che palpiterebbero in noi,con una forte intensità,se  avessimo la visione della Maestà di Dio. Sono i sentimenti che proveremmo se ci rendessimo conto della sua presenza. Nella misura in  cui  crediamo  che  Dio  è  presente,dobbiamo  avvertirli.  Se  non  li  avvertiamo,è perché non percepiamo, non crediamo che egli è presente”.26 Di tali sentimenti e dei conseguenti atteggiamenti ha urgente bisogno la liturgia romana per parlare di Dio all’uomo contemporaneo.

7. Conclusione

Cosa fare in concreto? Sono ancora valide le indicazioni che l’allora cardinal Joseph Ratzinger  ha  tracciato:  1.  promuovere  la  corretta  celebrazione  del  Novus  Ordo, secondo le prescrizioni dei libri liturgici, ragion per cui Giovanni Paolo II promulgò l’enciclica  Ecclesia  de  Eucharistia  e  l’Istruzione  Redemptionis  Sacramentum.  2. promuovere  la  corretta  celebrazione  secondo  il  Vetus  Ordo,  come  ora  prescrive l’Istruzione Universae Ecclesiae.  3. compiere la revisione dei nuovi libri liturgici facendo in modo da  reintrodurre alcuni dei tesori che furono a suo tempo scartati. La Congregazione  per  il  Culto  Divino  e  la  Disciplina  dei  Sacramenti,  insieme  alla Pontificia Commissione Ecclesia Dei sono gli strumenti ordinari per promuoverle. Non si attribuisce  allo  Spirito  Santo  sia  la  varietà  dei  carismi  sia  la  loro unità?

Dunque, ebbe  ad  osservare  l’allora  cardinale:  “noi  possiamo  persuadere  i vescovi che la presenza dell’antica liturgia non turba l’armonia dell’unità delle lorodiocesi, ma è piuttosto un dono destinato a edificare il corpo di Cristo di cui noi siamo i ministri”.27

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1 Crescere in saggezza, Gribaudi, Milano 2001, p. 157.
2 Sermoni,348,2;PL 38,1,1527.
3 “Cristiani non per vanto ma per aprire il mondo a Dio”: Omelia della Messa Crismale, L’Osservatore Romano, 22 Aprile 2011, p. 8.
4 Cfr. L. GIUSSANI, Avvenimento di libertà, Marietti, Genova 2002, p. 149.
5 Cfr. Idem, L’io rinasce da un incontro(1986-1987), BUR, Milano 2010, p. 364.
6 Ibidem, p. 247.
7 Idem, L’autocoscienza del cosmo, Bur, Milano 2000, p. 247.
8 TERTULLIANO, De resurrectione carnis, VIII, 10; PL 2,806.
9 Sacrosanctum concilium, n 27.
10 PAOLO VI, Enciclica Mysterium fidei, Città del Vaticano 1965, Enchiridion delle Encicliche 7,876-877.
11  GIOVANNI PAOLO II, Enciclica Ecclesia de Eucharistia, Città del Vaticano 2003, n. 35.
12 Sacrosanctum concilium, n. 9.
13 Ivi, n. 7.
14 PAOLO VI, Enciclica Mysterium fidei, Enchiridion delle Encicliche 7,883.
15 Cfr asterisco in nota al § 21 della Costituzione Dei Verbum.
16 PAOLO VI, Enciclica Mysterium fidei, Enchiridion delle Encicliche 7,855.
17 Ed. typica 2000; ed. it. 2004: n. 296.
18 Sacrosanctum concilium, n 4.
19 Cfr  Costituzione Apostolica Veterum Sapientia, 22.II.1962, Premessa.
20 Cfr A. BUGNINI, La riforma della liturgia, 1948-1975, Roma 1980, p. 238.
21 De Magistro, 11,37; PL 32,1216.
22 Relazione al III Convegno sul Motu Proprio Summorum Pontificum, Roma, 13-15 Maggio 2011:“Dalla Liturgia antica un ponte ecumenico”, L’Osservatore Romano, 15 maggio 2011, p. 7.
23 Cfr. Riflessioni sulle riforme liturgiche nella Chiesa, in N. BUX-E. MAZZA-E. GARZILLO, Liturgia e arte sacra fra innovazione e tradizione, Reggio Emilia 2011.
24 Discorso in occasione dell’incontro e celebrazione dei vespri con i vescovi del Brasile,  Catedral da Sé, Sao Paulo, L’Osservatore Romano, 12 maggio 2007, p. 8.
25 De Spiritu Sancto, c 9, 22; PG 32,107.
26 Catechismo della Chiesa Cattolica, n 2144.
27 J. RATZINGER, Allocuzione nel decennale dell’Ecclesia Dei, 24 ottobre 1998.

L’abito sacerdotale: sua finalità e sua importanza

“Chi non ama la sua talare resisterà ad amare il suo servizio a Dio? Il prossimo non sostituisce Dio! Non è soldato chi non ama la sua divisa.” (Card. Giuseppe Siri)

di Daniele Di Sorco

 

1. Il monaco senza abito.

Si dice che l’abito non fa il monaco, il che è vero, nel senso che non basta mettersi qualcosa addosso per cambiare vita o distinguersi esteriormente dal mondo per operare la propria conversione interiore. D’altra parte, è vero anche il contrario: abbandonare l’abito religioso o deformarlo a mero “segno di riconoscimento” (come il tesserino appuntato sul petto dagli addetti di qualche azienda) può significare due sole cose, entrambe negative: o la vergogna per un modo di essere che si cerca di nascondere ogni qual volta faccia comodo; o l’idea secondo cui tra i consacrati e i laici non vi sia alcuna differenza se non sul piano puramente accidentale. In ultima analisi, è un della fede, occultata o deformata, che provoca l’abbandono, se non addirittura il disprezzo, della veste sacra.

Non è mia intenzione, qui, analizzare minutamente le molteplici ragioni che giustificano l’uso, da parte dei consacrati, di un abito diverso dalle altre persone. Tuttavia, poiché oggi anche il semplice buon senso sembra vacillare, bisognerà per lo meno spendere una parola contro le obiezioni più frequenti.

2. Chiarezza, non finzione.

La prima è quella secondo cui il consacrato, vestendosi come chiunque, sarebbe più vicino alla gente, più capace di mettersi in relazione con loro. Ora, la chiarezza dei ruoli sta alla base del funzionamento di un rapporto. Nessuno, credo, per corteggiare una ragazza si vestirebbe da donna; e sarebbe ridicolo che il capo di un’azienda, per avere migliori relazioni coi propri operai, andasse a visitarli in tuta da lavoro. Anzi, nell’uno e nell’altro caso l’interlocutore si sentirebbe preso in giro dal tentativo di impostare il rapporto su un mezzo inganno. E reagirebbe o allontanando il dissimulatore oppure trattandolo con sufficienza, perché chi si vergogna di un modo di essere perfettamente legittimo non ha alcun diritto ad essere preso sul serio. Con questo cade la prima obiezione all’abito religioso: chi non lo porta per avvicinarsi alla gente, si rende, sia pure involontariamente, artefice di un inganno. Il consacrato deve avvicinare la gente come consacrato, non come finto laico.

3. Il falso spiritualismo si traduce in vero materialismo.

L’altra frequente obiezione viene formulata più o meno in questo modo: uno stato interiore e spirituale non ha bisogno di essere manifestato con segni esteriori e materiali. Distinguo: uno stato interiore e spirituale privato, che non ha riflessi visibili sulla propria condizione pubblica, non ha effettivamente bisogno di essere denotato esteriormente. Non si chiederà ad un laico che si è confessato e ha fatto la Comunione di appendersi una nastrino al collo per far sapere a tutti la grazia che ha ricevuto. Anzi, vantarsi dei propri meriti, ancorché spirituali, significa alienarsi, come dice il Vangelo, la ricompensa che essi avrebbero meritato nell’altra vita. Invece uno stato interiore e spirituale pubblico, che cioè muta la condizione pubblica di una persona, modificandone il suo status, non solo può, ma deve essere manifestato con segni visibili. Ora, il conferimento dei sacri ordini è pubblico, come pubblico è l’ingresso in un istituto religioso mediante la solenne professione dei voti. È necessario, quindi, che il consacrato porti esteriormente un segno di questa sua condizione, che lo distingue dagli altri fedeli e che, essendo pubblica, dev’essere pubblicamente manifestata.

Certo, la sana filosofia ci insegna a subordinare il materiale allo spirituale. Sappiamo perfettamente che il segno esteriore ha senso nella misura in cui riflette uno stato interiore. Attribuire soverchia importanza al segno, a scapito della realtà che esso significa, vuol dire confondere il mezzo col fine, l’accidentale con l’essenziale. Ma nell’uomo, fatto di anima e di corpo, anche la parte materiale ha la sua importanza. È l’istituzione stessa dei Sacramenti a dimostrarcelo. Per veicolarci le sue grazie ex opere operato, nostro Signore avrebbe potuto scegliere qualunque mezzo, anche puramente spirituale. Invece ha deciso di legarle ad un segno tangibile, un segno che, pur essendo in se stesso materiale, produce infallibilmente una grazia spirituale. Perché questa scelta? Per la consapevolezza che l’uomo, non essendo un puro spirito (come gli Angeli), ha bisogno di segni sensibili per accedere più facilmente alle realtà insensibili (cioè non percepibili attraverso i sensi). Ho parlato dell’istituzione dei Sacramenti. Ma avrei potuto menzionare anche l’Incarnazione. Dio poteva redimerci in diversi modi. Se ha scelto di farlo assumendo l’umana natura, è per lo scopo delineato dal prefazio di Natale: “affinché, conoscendo Dio visibilmente, siamo rapiti alla contemplazione delle realtà invisibili”.

Bisogna quindi tenersi egualmente lontani da due opposti eccessi: da un lato, quello del materialismo, che ordina l’inferiore (le realtà corporee) al superiore (le realtà spirituali), comportando il dileguo di queste ultime; e dall’altro quello, non meno deleterio, dello spiritualismo, che, pur riconoscendo la ragionevole supremazia delle realtà spirituali, finisce per misconoscere l’importanza di quelle materiali.

L’uomo, diceva Pascal, è un po’ angelo e un po’ bestia. Quando cerca di diventare solo angelo, finisce per diventare solo bestia. Il protestantesimo ha voluto trasformare la religione del Verbo incarnato in qualcosa di puramente spirituale, senza sacramenti, senza sacrificio, senza sacerdozio, in una parola senza segni visibili che producano la grazia invisibile. Dopo non molto tempo, questo innaturale spiritualismo si è trasformato nel suo contrario, cioè nell’esaltazione della materia a scapito dello spirito. E non può essere altrimenti. Sganciato da uno dei propri elementi costitutivi – il corpo – l’uomo tenta di librarsi nei puri cieli dello spirito; ma, come dice il Poeta, “sua disianza vuol volar sanz’ali”, poiché l’uomo non è un angelo, anche se si sforza di diventarlo. Non nel senso che non possa raggiungere la purezza di un angelo o la santità di un angelo, ma nel senso che non può comportarsi come se non avesse anche una parte materiale, la quale, se non viene usata come mezzo di santificazione, finisce per assumere una propria autonomia, trasformandosi in mezzo di dannazione. Mi spiego con un esempio. Tutti abbiamo bisogno di mangiare: possiamo seguire ciecamente questo istinto, e ammalarci di indigestione; possiamo fingere che non esista, e morire di fame; oppure possiamo mangiare per saziarci, ossia ordinando la realtà corporale (l’istinto) alla realtà spirituale (la ragione). Ora, poiché gli aspiranti suicidi, grazie a Dio, sono pochissimi, le persone che negano al cibo qualunque utilità, piuttosto che morire di fame, finiranno per passare al versante diametralmente opposto, cioè a sostenere la necessità di assecondare irrazionalmente le proprie passioni. È il finto angelo che diventa vera bestia.

4. Tentazioni gnostiche.

L’utilizzo di un segno esteriore che denoti una condizione interiore è dunque connaturale all’essenza dell’uomo, il quale, come abbiamo visto, deve servirsi ragionevolmente delle realtà materiali in modo da ordinarle a quelle spirituali. Di qui la somma importanza dell’abito sacro. Esso, infatti, non si limita ad indicare una condizione qualsiasi, tra le tante che l’uomo può pubblicamente assumere, ma è il segno di uno stato di vita diverso e distinto da quello delle altre persone. In quanto stato, tale condizione non viene mai abbandonata, neppure temporaneamente. Il consacrato non è tale solo quanto è in servizio: per questo i sacerdoti o i religiosi che usano la veste sacra solo durante le funzioni sono da biasimare non meno di quelli che non la usano mai. Anzi, forse sono da biasimare di più, perché, oltre a fraintendere il significato del segno, lo sviliscono a puro elemento di esibizione, come se il sacerdote non avesse alcun bisogno dell’abito e lo indossasse solamente per non deludere gli innocenti e puerili desideri del popolo. Chi si comporta così, riconosce il principio, sopra esposto, secondo cui le cose sensibili vanno utilizzate per favorire la contemplazione delle cose soprasensibili; ma ne limita l’applicazione ad alcune categorie di persone: il popolo, semplice e istintivo, ha bisogno di questi segni; i sacerdoti, i dotti, le persone colte, no. Non è difficile riconoscere in questo una forma velata di gnosi: l’accesso ad una forma di conoscenza riservata a pochi crea l’illusione di trascendere la natura umana, di non aver bisogno di ciò di cui tutti hanno bisogno. Inutile far rilevare come, alla resa dei conti, i consacrati che seguono questo tipo di ragionamento, quando non usano la veste, lo fanno per i discutibili motivi di cui abbiamo parlato all’inizio del presente articolo, se non addirittura per ragioni ancor meno onorevoli. È, ancora una volta, l’angelo (anche se stavolta restringe la possibilità di de-materializzarsi ad una ristretta cerchia di privilegiati) che si rivela bestia.

In realtà, il consacrato è il primo ad aver bisogno della veste sacra, è il primo ad aver bisogno di un segno esteriore che gli ricordi, anche quando sarebbe più propenso a dimenticarlo, il suo stato di vita. La natura umana, come ben sappiamo, non è distrutta dalla grazia; tanto meno è distrutta dalla conoscenza di certe nozioni o dall’assunzione di uno stato di vita (gnosi). Da questo punto di vista, il sacerdote è un uomo come tutti gli altri, bisognoso, anche lui, di ordinare il corpo mediante il ragionevole utilizzo delle realtà sensibili. Per questo le costituzioni degli Ordini religiosi, fino alla recenti riforme, ordinavano al consacrato di non deporre mai la sacra veste: perfino durante la notte, se non si usava l’abito intero (distinto, ovviamente, da quello impiegato durante il giorno), bisognava portare l’abitino, ossia un piccolo scapolare dello stesso tessuto e colore della veste sacra. Il terzo Concilio plenario di Baltimora stabiliva che i sacerdoti potevano indossare il clergyman solo all’esterno (come d’abitudine nei paesi anglosassoni), mentre in chiesa e in casa (cioè anche nel privato) doveva tassativamente portare la talare. In molti seminari, i candidati ai sacri ordini dormivano con l’abito talare piegato e deposto sul petto: non si trattava, come alcuni vorrebbero, di un semplice memento mori, ma della logica applicazione del principio secondo cui l’abito religioso serve anzitutto al sacerdote per riconoscere se stesso. Nei bui momenti di sconforto, di scoraggiamento, di tentazione, quando la volontà interiore è meno propensa a ricordarsi degli impegni assunti e delle scelte fatte, è spesso un segno esteriore che ci richiama alla realtà e ci salva. Riconoscere questo, non significa trasformare l’uomo in un eterno fanciullo, sempre bisognoso di qualcuno o qualcosa che lo controlli; significa piuttosto prendere atto della natura intima dell’uomo (in cui l’angelo, in alcuni momenti, rischia di essere soppiantato dalla bestia) e predisporre gli opportuni rimedi. Di qui la necessità di usare la veste sacra come memento al consacrato del suo modo di essere. In questo stessa senso va inquadrata la prassi di portare la tonsura o chierica nei capelli, la quale peraltro, a differenza della veste, non poteva essere neppure deposta. L’abito non fa il monaco, ma aiuta ad esserlo.

5. Dignità e bellezza.

C’è poi un’ultima questione da affrontare. Secondo alcuni, il sacerdote deve sì essere identificabile come tale, ma per ottenere questo scopo basta un “segno di riconoscimento” qualsiasi: una crocetta, un tau, un colletto, qualunque cosa possa alludere alla sua funzione. Osserviamo, anzitutto, che un segno, per essere riconoscibile, dev’essere univoco: quindi, parlare di un “segno di riconoscimento” senza stabilire esplicitamente quale, non ha alcun senso. Oggi siamo arrivati al paradosso di sacerdoti i quali pensano di essere riconosciuti per una sorta di telepatia interiore, come se il loro modo di essere ce l’avessero scritto in faccia. Né c’è da stupirsene, visto che alludere ad un “segno di riconoscimento” senza definirlo, significa lasciare aperto il campo alle più disparate interpretazioni, anche a quelle telepatico-sensitive. In secondo luogo, un segno, per essere efficace, deve avere una qualche relazione evidente ed immediata (analogia) con la realtà che vuole significare. Ora, è indubbio che la veste sacra, per il fatto di avvolgere interamente chi la porta, rimanda in modo assai efficace al fatto della totale consacrazione a Dio. Il consacrato, anche esteriormente, è rivestito di Cristo. La sua separazione dal mondo (che non significa estraneità, visto che, tolti i casi di vita assolutamente contemplativa, continua in vario modo ad operare nel mondo) è denotata dall’uso di vesti radicalmente diverse da quelle comuni. I colori sobri e le stoffe poco pregiate rimandano alla scelta dell’umiltà e, per chi ne ha fatto voto, della povertà. Secondo la stessa logica, i Prelati, in ragione del proprio ruolo, indossano vesti dai colori e dai tessuti più preziosi. E tutto questo, senza considerare le simbologie proprie degli abiti dei singoli istituti, ricchissime di significati teologici e spirituali. Come, celebrando la Messa, il sacerdote – anche esteriormente – si spoglia di se stesso e si riveste di Cristo, così nella sua vita quotidiana il consacrato, che ha rinunciato a se stesso abbracciando un determinato stato di vita, deve testimoniare – anche esteriormente – la sua intima identificazione col Salvatore.

Per questo la veste sacra non dev’essere priva di una sua dignità estetica. Trascurare questo aspetto in nome della comodità o del funzionalismo, significa eliminare od oscurare la corrispondenza analogica tra simbolo e significato. Non di rado, oggi, vediamo abiti religiosi striminziti e di tessuto sottilissimo, che lasciano trasparire le vesti borghesi sottostanti e che sembrano fatti apposta per essere frettolosamente indossati quando ci si reca ad una funzione o si esce di casa. Nulla a che vedere rispetto alle vesti ampie, nobili e dignitose, ancorché poverissime, che si usavano prima delle recenti riforme. Le modifiche più notevoli si sono avute negli abiti delle religiose: ai lungi veli, ai soggoli inamidati, alle ampie gonne che scendevano fino al ginocchio, alle cinture, agli scapolari (cose, talvolta, di forma originale o insolita, ma sempre degne di una sposa di Cristo e comunque munite di una loro storia e di un loro significato), si sono sostituiti dei ridicoli tailleur stile anni Cinquanta, con gonna al ginocchio e giacchetta stilizzata. D’estate non è raro vedere le mezze maniche. Il soggolo è completamente scomparso e il velo si è trasformato in un esile fazzoletto, che lascia intravedere più capelli di quanti ne compra. Non è difficile scorgere, in queste stilizzazioni, il passaggio dall’abito come segno “escatologico”, la cui forma suggerisce la realtà che è chiamata a significare, all’abito come segno “di riconoscimento”, dotato di una funzione puramente convenzionale. E tutto questo senza tener conto delle conseguenze psicologiche di simili scelte: infatti, stilizzare o trascurare il segno che denota il proprio modo di essere, viene comunemente interpretato come negligenza e disinteresse verso il modo di essere in quanto tale.

6. Considerazioni finali.

Concludo con un tentativo di sintesi. L’abito religioso è il segno esteriore di una realtà interiore. Esso non è coessenziale a questa realtà, nel senso che non è indispensabile affinché questa esista (l’abito non fa il monaco), ma ne è la legittima espressione, conformemente alla natura dell’uomo, che essendo composto di anima e di corpo ha bisogno di servirsi delle cose visibili per cogliere meglio quelle invisibili (l’abito aiuta ad essere monaco). Spogliarsi del segno esteriore non implica la cessazione della realtà interiore; ma è visto dagli altri o come un suo svilimento (vergogna per ciò che si è) o come un tentativo di inganno (fingersi ciò che non si è). Quindi non è in alcun modo funzionale alle relazioni col prossimo, che, al contrario, hanno come presupposto la chiarezza, anche esteriore, dei ruoli. Queste considerazioni, se valgono per il prossimo, valgono a maggior ragione per il consacrato stesso, il quale, per primo, ha bisogno di un segno che gli ricordi sempre, anche quando sarebbe più propenso a scordarlo, la propria condizione. In quanto simbolo (realtà materiale che allude ad una realtà spirituale), la veste sacra deve avere una corrispondenza analogica con ciò che significa: in altre parole, deve in qualche modo rimandare, nel colore e nella forma, alle caratteristiche dello stato di vita che è chiamata a rappresentare. I segni di riconoscimento convenzionali (crocette, colletti, tau), come pure gli abiti stilizzati e imbruttiti che hanno rimpiazzato le dignitose vesti tradizionali, non soddisfano questo requisito, quindi sono da scartare. Essi denotano, tutt’al più, una funzione (come quella di un impiegato che porti un cartellino di riconoscimento), ma non un modo di essere: non sono sufficienti a fare della veste religiosa quel “segno escatologico” di cui parlano gli autori di spiritualità. Anzi, a causa della loro bruttezza ed ordinarietà, finiscono per svilire, a livello psicologico, anche la realtà che significano.

L’esperienza dimostra quanto abbiamo tentato di spiegare a parole. Nel corso della storia, l’abbandono della veste sacra è sempre coinciso con periodi di forte decadenza spirituale. Ad avere in uggia la forma tradizionale dell’abito sacro erano, per esempio, i chierici frivoli e libertini del XVIII secolo. Quanto al clero moderno, l’ostentata noncuranza nei confronti dei segni esteriori fa riscontro ad una mondanizzazione e ad una crisi d’identità (disciplinare e dottrinale) senza precedenti.

Del resto, la decadenza della religiosità esteriore è, ad un tempo, causa ed effetto della decadenza della religiosità interiore, poiché la mente umana è fatta in modo tale da conoscere invisibilia per visibilia. Trascurando il segno visibile, si finisce a poco a poco per perdere il contatto con la realtà invisibile da esso rappresentata. Parallelamente, chi non è più in grado di cogliere adeguatamente le cose spirituali non avverte più il bisogno di esprimerle in forma materiale. Si tratta di un circolo vizioso (abyssus clamat abyssum), dal quale è possibile uscire solo col recupero dei sani concetti della filosofia e della teologia tradizionali e col ritorno alla secolare prassi della Chiesa cattolica.

tratto dal sito www.messainlatino.it

Secondo il Papa, la S. Comunione si deve ricevere sulla lingua e in ginocchio

UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE  DEL SOMMO PONTEFICE  

LA COMUNIONE RICEVUTA SULLA LINGUA E IN GINOCCHIO

La più antica prassi di distribuzione della Comunione è stata, con tutta probabilità, quella di dare la Comunione ai fedeli sul palmo della mano. La storia della liturgia evidenzia, tuttavia, anche il processo, iniziato abbastanza presto, di trasformazione di tale prassi. Sin dall’epoca dei Padri, nasce e si consolida una tendenza a restringere sempre più la distribuzione della Comunione sulla mano e a favorire quella sulla lingua. Il motivo di questa preferenza è duplice: da una parte, evitare al massimo la dispersione dei frammenti eucaristici; dall’altra, favorire la crescita della devozione dei fedeli verso la presenza reale di Cristo nel sacramento.

All’uso di ricevere la Comunione solo sulla lingua fa riferimento anche san Tommaso d’Aquino, il quale afferma che la distribuzione del Corpo del Signore appartiene al solo sacerdote ordinato. Ciò per diversi motivi, tra i quali l’Angelico cita anche il rispetto verso il sacramento, che «non viene toccato da nessuna cosa che non sia consacrata: e quindi sono consacrati il corporale, il calice e così pure le mani del sacerdote, per poter toccare questo sacramento. A nessun altro quindi è permesso toccarlo fuori di caso di necessità: se per esempio stesse per cadere per terra, o in altre contingenze simili» (Summa Theologiae, III, 82, 3).

Lungo i secoli, la Chiesa ha sempre cercato di caratterizzare il momento della Comunione con sacralità e somma dignità, sforzandosi costantemente di sviluppare nel modo migliore gesti esterni che favorissero la comprensione del grande mistero sacramentale. Nel suo premuroso amore pastorale, la Chiesa contribuisce a che i fedeli possano ricevere l’Eucaristia con le dovute disposizioni, tra le quali figura il comprendere e considerare interiormente la presenza reale di Colui che si va a ricevere (cf. Catechismo di san Pio X, nn. 628 e 636). Tra i segni di devozione propri ai comunicandi, la Chiesa d’Occidente ha stabilito anche lo stare in ginocchio. Una celebre espressione di sant’Agostino, ripresa al n. 66 della Sacramentum Caritatis di Benedetto XVI, insegna: «Nessuno mangi quella carne [il Corpo eucaristico], se prima non l’ha adorata. Peccheremmo se non l’adorassimo» (Enarrationes in Psalmos, 98,9). Stare in ginocchio indica e favorisce questa necessaria adorazione previa alla ricezione di Cristo eucaristico.

In questa prospettiva, l’allora cardinale Ratzinger aveva assicurato che «la Comunione raggiunge la sua profondità solo quando è sostenuta e compresa dall’adorazione» (Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello Balsamo, San Paolo 2001, p. 86). Per questo, egli riteneva che «la pratica di inginocchiarsi per la santa Comunione ha a suo favore secoli di tradizione ed è un segno di adorazione particolarmente espressivo, del tutto appropriato alla luce della vera, reale e sostanziale presenza di Nostro Signore Gesù Cristo sotto le specie consacrate» (cit. nella Lettera This Congregation della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, del 1° luglio 2002: EV 21, n. 666).

Giovanni Paolo II nella sua ultima enciclica, Ecclesia de Eucharistia, ha scritto al n. 61:

«Dando all’Eucaristia tutto il rilievo che essa merita, e badando con ogni premura a non attenuarne alcuna dimensione o esigenza, ci dimostriamo veramente consapevoli della grandezza di questo dono. Ci invita a questo una tradizione ininterrotta, che fin dai primi secoli ha visto la comunità cristiana vigile nella custodia di questo “tesoro”. […] Non c’è pericolo di esagerare nella cura di questo Mistero, perché “in questo Sacramento si riassume tutto il mistero della nostra salvezza”».

In continuità con l’insegnamento del suo Predecessore, a partire dalla solennità del Corpus Domini del 2008, il Santo Padre Benedetto XVI ha iniziato a distribuire ai fedeli il Corpo del Signore, direttamente sulla lingua e stando inginocchiati.

Il velo muliebre

Perché S. Paolo consiglia alle donne di tenere il capo coperto durante le azioni liturgiche?


Il Codice di Diritto Canonico del 1917 prescriveva alle donne di tenere il capo coperto in Chiesa, soprattutto al momento della Santa Comunione. Nel nuovo Codice non c’è traccia di questa disposizione e ormai questa antica e venerabile usanza è caduta nel dimenticatoio; eppure essa era fondata su una disposizione dello stesso Apostolo San Paolo. Ma, tra l’esegesi razionalista moderna, che tende a storicizzare tutte le disposizioni particolari (“roba d’altri tempi…”), e il famigerato luogo comune per cui “l’uomo di oggi” non sarebbe più in grado ci capire certe cose, anche la consuetudine, per le donne, di coprire il capo in chiesa, è andata perduta.

Per non parlare poi di molte suore, che, un tempo ben vestite (chi non ricorda i cappelloni delle Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli?), oggi espongono il ciuffo, per andar di pari passo con chi ha gettato tonaca e coletto bianco alle ortiche (e qui, visti i magrissimi risultati estetici, avendo tolto il velo, c’è assai spesso da stenderne subito un altro, questa volta pietoso, come si suol dire). Ma guai se ci limitassimo a rimpiangere i tesori che ci hanno scippato: dobbiamo cercare, con l’aiuto della Madonna, anche per questo caso, le ragioni della Tradizione: e allora leggiamo le parole dell’Apostolo, e vediamo come alcuni Padri della Chiesa le hanno interpretate. Dalla prima lettera di S. Paolo Apostolo ai Corinzi: [11,3] “Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. Ma ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di riguardo al proprio capo, poiché è lo stesso che se fosse rasata. Se dunque una donna non vuol mettersi il velo, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra. L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli. Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l’uomo, né l’uomo è senza la donna; come infatti la donna deriva dall’uomo, così l’uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio. Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna faccia preghiera a Dio col capo scoperto? Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli, mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chioma le è stata data a guisa di velo. Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine e neanche le Chiese di Dio”.

Da questo brano, noi possiamo ben comprendere i motivi per cui S. Paolo consiglia alle donne di tenere il capo coperto durante le azioni liturgiche. I motivi sono, essenzialmente, quattro:

1) La simbologia delle nozze tra Cristo e la natura umana. In chiesa, durante la liturgia, l’uomo e la donna non rappresentano solo se stessi, ma l’uomo – ogni uomo – rappresenta Cristo, lo Sposo: la donna rappresenta il genere umano, la natura umana sposa del Verbo. Possiamo comprendere ciò considerando la natura sponsale della fede (Ti sposerò nella fede e tu conoscerai il Signore – Os 2,22), il contesto generale della liturgia (l’atmosfera in cui la fede è esercitata nel modo più perfetto) e l’esplicito richiamo alle nozze di S. Paolo: E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo – 1 Cor 11, 8-9. Cristo sta all’uomo (maschio e femmina) come l’uomo sta alla donna. Inoltre l’uomo, diversamente dalla donna, è “immagine e gloria di Dio”, non per se stesso, ma in quanto rappresenta Cristo: perciò egli non può stare con il capo coperto, perché in questo modo egli “disonora il suo capo” (11,4) il suo proprio rappresentare Cristo: un uomo con il capo coperto non rappresenta bene Cristo, così una donna con il capo scoperto, non rappresenta bene la natura umana ela Chiesasposa di Cristo. In questo senso Tertulliano dice: “Poiché io sono l’immagine del creatore, non c’è posto in me per un altro capo (che non sia Cristo)” (Contro Marcione, V, 8, 1).

2) Un segno della sottomissione a Cristo. Una donna con il capo coperto dal velo, ricorda a tutti coloro che sono in chiesa che la natura umana è sposa di Cristo: perciò la donna, in quanto rappresenta la natura umana, deve avere un segno della sua dipendenza sul suo capo (1 Cor 11,10): questo segno della dipendenza è il segno dell’autorità di Cristo nei confronti della sua Sposa, la natura umana. Perciò il Concilio Gangrense chiama il velo memoriale, ricordo della sottomissione. S. Giovanni Crisostomo lo chiama insegna della sottomissione; Tertulliano giogo della sua umiltà (cf. Cornelius a Lapide, ad loc.).

3) Il rispetto del perfetto equilibrio del cosmo. L’edificio della chiesa rappresenta il cosmo, ricolmato della gloria di Dio, specialmente durante la celebrazione della S. Messa (I cieli e la terra sono pieni della tua gloria…). Il cosmo è perfettamente ordinato (Ma tu hai tutto disposto con misura, calcolo e peso – Sap 11,20). Nessuno può dimenticare la presenza, all’interno della chiesa-cosmo, della gerarchia celeste, perfettamente ordinata (Voi vi siete invece accostati al monte di Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli, all’adunanza festosa… – Eb 12,22). Non è quindi conveniente che in un cosmo perfettamente ordinato qual è la celebrazione liturgica, la ordinata relazione tra Cristo-Sposo e Chiesa-Sposa – la particolare relazione che la celebrazione liturgica ricrea nel modo più perfetto -, non sia mostrata (Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli – 1 Cor 11,10)

4) Un segno naturale di umiltà. Ultimo aspetto, ma non di minore importanza: “Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli, mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chioma le è stata data a guisa di velo” (1 Cor 11, 14-15). È obbligatorio, per le donne, portare il velo in Chiesa? Oggi non più, ma S. Paolo ce ne spiega i sempre validi motivi di convenienza.

Don Alfredo Morselli, 16 giugno 2009