Il Santo Sacrificio della Messa

Birnau 3

I. Nozioni preliminari

Alcune nozioni dogmatiche:
La Messa è sostanzialmente lo stesso sacrificio della croce. E’ diverso solo il modo dell’offerta (Denz. 940)
Essendo un vero sacrificio la Messa ne realizza in modo proprio le finalità: adorazione, ringraziamento, riparazione e petizione (Denz. 948 e 950).
Il valore della Messa è in se stesso rigorosamente infinito. Però i suoi effetti in quanto dipendono da noi non ci vengono applicati se non nella misura delle nostre interne disposizioni.

II. Finalità ed effetti della Santa Messa

La Messa ha gli stessi fini e produce gli stessi effetti del sacrificio della croce, che sono quelli del sacrificio in generale come atto supremo di religione, però di grado infinitamente superiore.

Adorazione.

Il sacrificio della Messa rende a Dio un’adorazione degna di Lui, rigorosamente infinita. Questo effetto è prodotto infallibilmente ex opere operato, anche se celebra un sacerdote in peccato mortale, perché questo valore latreutico o di adorazione dipende dalla dignità infinita del Sacerdote principale che lo offre e dal valore della Vittima offerta.
Con la Messa possiamo dare a Dio tutto l’onore che Gli è dovuto in riconoscimento della Sua infinita maestà e del Suo supremo dominio, nella maniera più perfetta possibile e in grado rigorosamente infinito. Una sola Messa glorifica più Iddio di quanto lo glorificheranno in cielo, per tutta l’eternità, tutti gli angeli, i santi e i beati insieme, compresa Maria Santissima.
Dio risponde a questa incomparabile glorificazione curvandosi amorosamente verso le Sue creature. Di qui l’immenso valore di santificazione che racchiude per noi il santo sacrificio della Messa.

Ringraziamento.

Gli immensi benefici di ordine naturale e soprannaturale che abbiamo ricevuto da Dio ci hanno fatto contrarre verso di Lui un debito infinito di gratitudine che possiamo saldare soltanto con la Messa. Infatti per mezzo di essa offriamo al Padre un sacrificio eucaristico, cioè di ringraziamento,  che supera infinitamente il nostro debito; perché è Cristo stesso che, immolandosi per noi, ringrazia Iddio per i benefici che ci concede. A sua volta il ringraziamento è fonte di nuove grazie perché al benefattore piace la gratitudine. Questo effetto eucaristico è sempre prodotto infallibilmente ex opere operato indipendentemente dalle nostre disposizioni.

Riparazione.

Dopo l’adorazione e il ringraziamento non c’è dovere più urgente verso il Creatore che la riparazione delle offese che da noi ha ricevuto. Anche sotto questo aspetto il valore della Messa è assolutamente incomparabile, giacché con essa offriamo al Padre l’infinita riparazione di Cristo con tutta la sua efficacia redentrice.
Questo effetto non ci viene applicato in tutta la sua pienezza – basterebbe infatti una sola Messa per riparare tutti i peccati del mondo e liberare dalle loro pene tutte le anime del Purgatorio – ma ci viene applicato in grado limitato secondo le nostre disposizioni.

Tuttavia:
a. ci ottiene, per sé ex opere operato, se non incontra ostacoli, la grazia attuale necessaria per il pentimento dei nostri peccati. Lo insegna il Concilio di Trento: «Hujus quippe oblatione placatus Dominus, gratiam et donum paenitentiae concedens, crimina et peccata etiam ingentia dimittit» (Denz. 940).
b. rimette sempre, infallibilmente se non incontra ostacoli, almeno la parte della pena temporale che si deve pagare per i peccati in questo mondo o nell’altro. La Messa è quindi utile anche alle anime del Purgatorio (Denz. 940 e 950). Il grado e la misura di questa remissione dipende dalle nostre disposizioni.

Petizione.

Gesù Cristo si offre al Padre nella Messa per ottenerci con il merito della Sua infinita oblazione tutte le grazie di cui abbiamo bisogno. «Semper vivens ad interpelladum pro nobis» (Ebr. 7, 25), e valorizza le nostre suppliche con i Suoi meriti infiniti. La Messa di per sé, ex opere operato, muove infallibilmente Dio a concedere agli uomini tutte le grazie di cui hanno bisogno, ma il dono effettivo di queste grazie dipende dalle nostre disposizioni, la mancanza delle quali può impedire completamente che queste grazie giungano fino a noi.

III. Disposizioni per il Santo Sacrificio della Santa Messa. 

Le disposizioni principali per la Santa Messa sono di due specie: esterne ed interne.

Disposizioni esterne

Il sacerdote che celebra dovrà osservare le rubriche e le cerimonie stabilite dalla Chiesa come se quella fosse la prima, l’ultima e l’unica Messa della sua vita.
Il semplice fedele assisterà alla Messa in silenzio, con rispetto e attenzione.

Disposizioni interne

La migliore disposizione interna è quella di identificarsi con Gesù Cristo che si immola sull’altare, offrendoLo al Padre ed offrendosi con Lui, in Lui e per Lui. ChiediamoGli che converta anche noi in pane per essere così a completa disposizione dei nostri fratelli mediante la carità. Uniamoci intimamente con Maria ai piedi della croce, con San Giovanni il discepolo prediletto, col sacerdote celebrante, nuovo Cristo in terra. Uniamoci a tutte le Messe che si celebrano nel mondo intero. La santa Messa celebrata o ascoltata con queste disposizioni è indubbiamente tra i principali strumenti di santificazione.

Tratto da:
Antonio Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana,
ed. Paoline, 1987, pagg. 548-554

La Messa cattolica: sacrificio e non cena

«Fino a Lutero non vi è mai stato dubbio: l’Eucaristia è sacrificio e ad esso vi è una partecipazione conviviale, da intendersi sempre come sacro convito. Quindi, nella Tradizione della Chiesa, la Messa è stata sempre soprattutto sacrificio e poi anche convito. Lutero, invece, che riteneva che la nozione di Messa come sacrificio mettesse in pericolo l’unicità salvifica del sacrificio della croce, negò il carattere sacrificale dell’Eucaristia in favore del solo aspetto conviviale. È da questo momento in poi che si sviluppa l’idea di costruire gli altari a forma di mense e di far celebrare il sacerdote verso il popolo e in lingua volgare: per Lutero la Messa deve essere un incontro fraterno. La Chiesa cattolica si è opposta strenuamente a queste idee fino al post-concilio. Il Vaticano II non ha parlato in nessun testo di costruire nuovi altari, di staccarli dalla parete, di farli a forma di tavola e di celebrare verso il popolo. Nel post-concilio si è diffusa questa tendenza in seguito alla normativa che è stata via via stabilita, e moltissimi altari sono oggi a forma di tavola e li si chiama spesso “mensa” anche nei testi ufficiali. Non solo a causa di ciò, ma anche grazie a questo, si registra un forte calo di comprensione del fatto che la liturgia eucaristica è soprattutto il sacrificio di Cristo e poi anche una mensa conviviale, un banchetto fraterno in cui ci alimentiamo al suo corpo e sangue».

Mons. Mauro Gagliardi, “Liturgia fonte di vita. Prospettive teologiche”, pp. 137-138.

dal sito papalepapale.com

Il Giuramento antimodernista

IL GIURAMENTO ANTIMODERNISTA
Acta Apostolicæ Sedis, 1910, pp. 669-672

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IO (NOME) fermamente accetto e credo in tutte e in ciascuna delle verità definite, affermate e dichiarate dal magistero infallibile della Chiesa, soprattutto quei principi dottrinali che contraddicono direttamente gli errori del tempo presente.
Primo: credo che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza e può anche essere dimostrato con i lumi della ragione naturale nelle opere da lui compiute (cf Rm 1,20), cioè nelle creature visibili, come causa dai suoi effetti.
Secondo: ammetto e riconosco le prove esteriori della rivelazione, cioè gli interventi divini, e soprattutto i miracoli e le profezie, come segni certissimi dell’origine soprannaturale della religione cristiana, e li ritengo perfettamente adatti a tutti gli uomini di tutti i tempi, compreso quello in cui viviamo.
Terzo: con la stessa fede incrollabile credo che la Chiesa, custode e maestra del verbo rivelato, è stata istituita immediatamente e direttamente da Cristo stesso vero e storico mentre viveva fra noi, e che è stata edificata su Pietro, capo della gerarchia ecclesiastica, e sui suoi successori attraverso i secoli.
Quarto: accolgo sinceramente la dottrina della fede trasmessa a noi dagli apostoli tramite i padri ortodossi, sempre con lo stesso senso e uguale contenuto, e respingo del tutto la fantasiosa eresia dell’evoluzione dei dogmi da un significato all’altro, diverso da quello che prima la Chiesa professava; condanno similmente ogni errore che pretende sostituire il deposito divino, affidato da Cristo alla Chiesa perché lo custodisse fedelmente, con una ipotesi filosofica o una creazione della coscienza che si è andata lentamente formando mediante sforzi umani e continua a perfezionarsi con un progresso indefinito.
Quinto: sono assolutamente convinto e sinceramente dichiaro che la fede non è un cieco sentimento religioso che emerge dall’oscurità del subcosciente per impulso del cuore e inclinazione della volontà moralmente educata, ma un vero assenso dell’intelletto a una verità ricevuta dal di fuori con la predicazione, per il quale, fiduciosi nella sua autorità supremamente verace, noi crediamo tutto quello che il Dio personale, creatore e signore nostro, ha detto, attestato e rivelato.
Mi sottometto anche con il dovuto rispetto e di tutto cuore aderisco a tutte le condanne, dichiarazioni e prescrizioni dell’enciclica Pascendi e del decreto Lamentabili, particolarmente circa la cosiddetta storia dei dogmi.
Riprovo altresì l’errore di chi sostiene che la fede proposta dalla Chiesa può essere contraria alla storia, e che i dogmi cattolici, nel senso che oggi viene loro attribuito, sono inconciliabili con le reali origini della religione cristiana.
Disapprovo pure e respingo l’opinione di chi pensa che l’uomo cristiano più istruito si riveste della doppia personalità del credente e dello storico, come se allo storico fosse lecito difendere tesi che contraddicono alla fede del credente o fissare delle premesse dalle quali si conclude che i dogmi sono falsi o dubbi, purché non siano positivamente negati.
Condanno parimenti quel sistema di giudicare e di interpretare la sacra Scrittura che, disdegnando la tradizione della Chiesa, l’analogia della fede e le norme della Sede apostolica, ricorre al metodo dei razionalisti e con non minore disinvoltura che audacia applica la critica testuale come regola unica e suprema.
Rifiuto inoltre la sentenza di chi ritiene che l’insegnamento di discipline storico-teologiche o chi ne tratta per iscritto deve inizialmente prescindere da ogni idea preconcetta sia sull’origine soprannaturale della tradizione cattolica sia dell’aiuto promesso da Dio per la perenne salvaguardia delle singole verità rivelate, e poi interpretare i testi patristici solo su basi scientifiche, estromettendo ogni autorità religiosa e con la stessa autonomia critica ammessa per l’esame di qualsiasi altro documento profano.
Mi dichiaro infine del tutto estraneo ad ogni errore dei modernisti, secondo cui nella sacra tradizione non c’è niente di divino o peggio ancora lo ammettono ma in senso panteistico, riducendolo ad un evento puro e semplice analogo a quelli ricorrenti nella storia, per cui gli uomini con il proprio impegno, l’abilità e l’ingegno prolungano nelle età posteriori la scuola inaugurata da Cristo e dagli apostoli.
Mantengo pertanto e fino all’ultimo respiro manterrò la fede dei padri nel carisma certo della verità, che è stato, è e sempre sarà nella successione dell’episcopato agli apostoli (1), non perché si assuma quel che sembra migliore e più consono alla cultura propria e particolare di ogni epoca, ma perché la verità assoluta e immutabile predicata in principio dagli apostoli non sia mai creduta in modo diverso né in altro modo intesa (2).
Mi impegno ad osservare tutto questo fedelmente, integralmente e sinceramente e di custodirlo inviolabilmente senza mai discostarmene né nell’insegnamento né in nessun genere di discorsi o di scritti.
Così prometto, così giuro, così mi aiutino Dio e questi santi Vangeli di Dio.

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Note:
1 Ireneo, Adversus haereses, 4, 26, 2: PG 7, 1053.
2 Tertulliano, De praescriptione haereticorum, 28: PL 2, 40
da amiciziacristiana.it

“PROFESSIO FIDEI” tridentina

Ego N. firma fide credo et profiteor omnia et singula, quae continentur in symbolo fidei, quo sancta Romana Ecclesia utitur, videlicet:

Credo in unum Deum, Patrem omnipotentem, factorem coeli et terræ, visibilium omnium et invisibilium. Et in unum Dominum Jesum Christum, Filium Dei unigenitum. Et ex Patre natum ante omnia sæcula. Deum de Deo, lumen de lumine, Deum verum de Deo vero. Genitum, non factum, consubstantialem Patri: per quem omnia facta sunt. Qui propter nos homines, et propter nostram salutem fdescendit de coelis. Et incarnatus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine: et homo factus est. Crucifixus etiam pro nobis; sub Pontio Pilato passus, et sepultus est. Et resurrexit tertia die, secundum Scripturas. Et ascendit in coelum: sedet ad desteram Patris. Et iterum venturus est cum gloria judicare vivos et mortuos: cujus regni non erit finis. Et in Spiritum Sanctum, Dominum et vivificantem: qui ex Patre Filioque procedit. Qui cum Patre, et Filio simul adoratur et conglorificatur: qui locutus est per Prophetas. Et unam, sanctam, catholicam et apostolicam Ecclesiam. Confiteor unum baptisma in remissionem peccatorum. Et exspecto resurrectionem mortuorum. Et vitam venturi sæculi. Amen.

Apostolicas et ecclesiasticas traditiones reliquasque eiusdem Ecdesiae observationes et constitutiones firmissime admitto et amplector. Item sacram Scripturam iuxta eum sensum, quem tenuit et tenet sancta mater Ecclesia, cuius est iudicare de vero sensu et interpretatione sacrarum Scripturarum admitto, nec eam umquam, nisi iuxta unanimem consensum patrum accipiam et interpretabor.

Profiteor quoque septem esse vere et proprie sacramenta Novae Legis a Iesu Christo Domino nostro instituta atque ad salutem humani generis, licet non omnia singulis necessaria, scilicet Baptimam, Confirmationem, Eucharistiam, Poenitentiam, extremam Unctionem, Ordinem et Matrimonium, illaque gratiam conferre, et ex his Baptismum, Confirmationem et Ordinem sine sacrilegio reiterari non posse. Receptos quoque et adprobatos Ecclesiae catholicae ritus in supradictorum omnium sacramentorum sollemni administratione recipio et admitto.

Omnia et singola, quae de peccato originali et de iustificatione in sacrosancta Tridentina synodo definita et declarata fuerunt, amplector et recipio.

Profiteor pariter in missa offerri Deo verum, proprium et propitiatorium sacrificium pro vivis et defunctis, atque in sanctissimo Eucharistiae sacramento esse vere, realiter et substantialiter corpus et sanguinem una cum anima et divinitate Domini nostri Iesu Christi, fierique conversionem totius substantiae panis in corpus, et totius substantiae vini in sanguinem, quam conversionem catholica Ecclesia transsubstantiationem ap pellat. Fateor etiam sub altera tantum specie totum atque integrum Christum verumque sacramentum sumi.

Constanter teneo purgatorium esse, animasque ibi detentas fidelium suffragiis iuvari; similiter et sanctos una cum Christo regnantes venerandos atque invocandos esse, eosque orationes Deo pro nobis offerre, atque eorum reliquias esse venerandas. Firmiter assero, imagines Christi ac Deiparae semper virginis, nec non aliorum sanctorum, habendas et retinendas esse, atque eis debitum honorem ac venerationem impertiendam; indulgentiarum etiam potestatem a Christo in Ecclesia relictam fuisse, illarumque usum Christiano populo maxime salutarem esse affirmo.

Sanctam catholicam et apostolicam Romanam Ecclesiam omnium Ecclesiatum matrem et magistram agnosco; Romanoque pontifici, beati Petri apostolorum principis successori ac Iesu Christi vicario veram oboedientiam spondeo ac iuro.

Cetera item omnia a sacris canonibus et oecumenicis conciliis, ac praecipue a sacrosaneta Tridentina synodo [et ab oecumenico concilio Vaticano, tradita, definita ac declarata, praesertim de Romani pontificis primatu et infallibili magisterio], indubitanter recipio atque profiteor; simulque contraria omnia, atque haereses quascumque ab Ecclesia damnatas et reiectas et anathematizatas ego pariter damno, reicio et anathematizo.

Hanc veram catholicam fidem, extra quam nemo salvus esse potest, quam in praesenti sponte profiteor et veraciter teneo, eamdem integram et immaculatam usque ad extremum vitae spiritum constantissime, Deo adiuvante, retinere et confiteri atque a meis subditis vel illis, quorum cura ad me in munere meo spectabit, teneri, doceri et praedicari, quantum in me erit, curaturum, ego idem N. spondeo, voveo ac iuro: sic me Deus adiuvet, et haec sancta Dei Evangelia.

ITALIANO

Io N. con fede sicura credo e professo tutto e singolarmente quanto è contenuto nel simbolo di fede di cui fa uso la santa romana Chiesa, cioè:

Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili ed invisibili; ed in un solo Signore Gesù Cristo, Figlio unigenito di Dio, e nato dal Padre prima di tutti i secoli, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato, non fatto, consustanziale al Padre; per mezzo di lui furono create tutte le cose; egli per noi uomini e per la nostra salvezza discese dai cieli, e s’incarnò per opera dello Spirito Santo da Maria Vergine, e si fece uomo; fu anche crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, patì e fu sepolto; e risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture, e salì al cielo, siede alla destra del Padre, e tornerà di nuovo con gloria a giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà mai fine; (credo) nello Spirito Santo, Signore e vivificante, che procede dal Padre e dal Figlio; il quale è adorato e glorificato insieme col Padre e col Figlio; il quale parlò per mezzo dei profeti; e (credo) nella Chiesa una, santa cattolica e apostolica. Professo esservi un solo Battesimo per la remissione dei peccati, ed aspetto la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.

Fermissimamente ammetto ed accetto le tradizioni ecclesiastiche e le altre osservanze e costituzioni della stessa Chiesa. Ammetto pure la sacra Scrittura secondo l’interpretazione che ne ha dato e ne dà la santa madre Chiesa, alla quale compete giudicare del senso genuino e dell’interpretazione delle sacre Scritture, né mai l’intenderò e l’interpreterò se non secondo l’unanime consenso dei padri.

Confesso anche che sono sette i veri e propri sacramenti della Nuova Legge istituiti da Gesù Cristo nostro Signore e necessari, sebbene non tutti a tutti, per la salvezza del genere umano, cioè: battesimo, confermazione, eucaristia, penitenza, estrema unzione, ordine e matrimonio; e che infondono la grazia, e che di essi il battesimo, la confermazione e l’ordine non si possono reiterare senza sacrilegio. Accetto e riconosco inoltre i riti ammessi ed approvati della Chiesa cattolica per la solenne amministrazione di tutti i sacramenti sopra elencati.

Accolgo e accetto in ogni parte tutto quanto è stato definito e dichiarato nel sacrosanto concilio di Trento riguardo il peccato originale e la giustificazione.

Parimenti credo che nella messa viene offerto a Dio un sacrificio vero, proprio e propiziatorio per i vivi e i defunti, e che nel santissimo sacramento dell’eucaristia c’è veramente, realmente e sostanzialmente il corpo e il sangue assieme all’anima e alla divinità di nostro Signore Gesù Cristo, e che avviene la conversione di tutta la sostanza del pane in corpo e di tutta la sostanza del vino in sangue, la qual conversione la Chiesa cattolica chiama transustanziazione. Confesso anche che sotto una sola specie si riceve tutto integro Cristo e un vero sacramento.

Ritengo senza esitazione che esiste il purgatorio e che le anime ivi rinchiuse sono aiutate dai suffragi dei fedeli; similmente poi che si devono venerare e invocare i santi che regnano con Cristo, che essi offrono a Dio le loro preghiere per noi e che le loro reliquie devono essere venerate. Dichiaro fermamente che si possono ritrarre e ritenere le immagini di Cristo e della sempre vergine Madre di Dio, come pure degli altri santi, e che ad esse si deve tributare l’onore dovuto e la venerazione. Affermo inoltre che da Cristo è stato conferito alla Chiesa il potere delle indulgenze e che il loro uso è della massima utilità al popolo cristiano.

Riconosco la santa, cattolica ed apostolica Chiesa romana come madre e maestra di tutte le Chiese, e prometto e giuro obbedienza al romano Pontefice, successore di san Pietro principe degli apostoli e vicario di Gesù Cristo.

Accetto e professo ancora senza dubbi tutte le altre cose insegnate, definite e dichiarate dai sacri canoni e in particolare dal sacrosanto concilio di Trento [e dal concilio ecumenico Vaticano] [specialmente quanto al primato e al magistero infallibile del romano Pontefice]: nel contempo anch’io condanno, rigetto e anatematizzo tutte le dottrine contrarie e qualunque eresia condannata, rigettata ed anatematizzata dalla Chiesa.

Io N. prometto, mi impegno e giuro, con l’aiuto di Dio, di mantenere e conservare tenacissimamente integra ed immacolata fino all’ultimo respiro di vita questa stessa vera fede cattolica, fuori della quale nessuno può essere salvo, che ora spontaneamente professo e ammetto con convinzione, e di procurare, per quanto sta in me, che sia ritenuta, insegnata e predicata ai miei soggetti e a coloro di cui mi sarà affidata la cura nel mio ministero. Così faccio voto, così prometto e giuro; così mi aiutino Dio e questi santi Vangeli di Dio.

da amiciziacristiana.com

Pio XII: Enciclica “MUSICAE SACRAE DISCIPLINA”

PIO XII

LETTERA ENCICLICA

MUSICAE SACRAE DISCIPLINA

LA MUSICA SACRA

 

L’ordinamento della musica sacra Ci è stato sempre sommamente a cuore; Ci è pertanto sembrato opportuno riprenderne un’ordinata trattazione e insieme illustrare con una certa ampiezza molte questioni sorte e discusse in questi ultimi decenni, affinché questa nobile e ragguardevole arte giovi sempre più allo splendore del culto divino e a promuovere più efficacemente una più intensa vita spirituale dei fedeli. Abbiamo voluto allo stesso tempo venire incontro ai voti che molti di voi, venerabili fratelli, nella loro saggezza, hanno espresso e che anche insigni maestri di quest’arte liberale ed esimi cultori di musica sacra hanno formulato in occasione di congressi su tale materia, e infine a quanto hanno consigliato al riguardo l’esperienza della vita pastorale e i progressi della scienza e degli studi su quest’arte. In tal modo nutriamo speranza che le norme saggiamente fissate da san Pio X nel documento da lui a buon diritto chiamato “codice giuridico della musica sacra”(2) saranno di nuovo confermate e inculcate, riceveranno nuova luce e saranno corroborate da nuovi argomenti, in modo tale che la nobile arte della musica sacra, adattata alle presenti condizioni e in certo qual modo arricchita, sempre più risponda al suo alto fine.

I

Fra i molti e grandi doni di natura dei quali Dio, in cui è armonia di perfetta concordia e somma coerenza, ha arricchito l’uomo, creato a sua “immagine e somiglianza” (cf. Gn 1,26), deve annoverarsi la musica, la quale, insieme con le altre arti liberali contribuisce al gaudio spirituale e al diletto dell’animo. A ragione così scrive di essa Agostino: “La musica, cioè la dottrina e l’arte del ben modulare, a monito di grandi cose è stata concessa dalla divina liberalità anche ai mortali dotati di anima razionale”.(3)

Nessuna meraviglia, dunque, che il sacro canto e l’arte musicale siano stati usati, come consta da molti documenti antichi e recenti, anche per ornamento e decoro delle cerimonie religiose sempre e dovunque, anche presso i popoli pagani; e che il culto soprattutto del vero e sommo Dio si sia avvalso fin dall’antichità, di quest’arte. Il popolo di Dio, scampato incolume dal Mar Rosso per miracolo della divina potenza, cantò a Dio un canto di vittoria; e Maria, sorella del condottiero Mosè dotata di spirito profetico, cantò al suono dei timpani accompagnata dal canto del popolo (cf. Es15,1-20). In seguito, mentre si conduceva l’arca di Dio dalla casa di Abinadab alla città di Davide, il re stesso e “tutto Israele danzavano davanti a Dio con strumenti di legno lavorato, cetre, lire, timpani, sistri e cembali” (2 Sam 6,5). Lo stesso re Davide fissò le regole della musica da usarsi nel culto sacro e del canto (cf. 1 Cron 23,5; 25,2-31); regole che furono ristabilite dopo il ritorno del popolo dall’esilio e conservate fedelmente fino alla venuta del divin Redentore. Che nella chiesa, poi, fondata dal divin Salvatore, il canto sacro fosse fin da principio in uso e onore viene chiaramente indicato da san Paolo apostolo, quando agli efesini così scrive: “Siate ripieni di Spirito Santo recitando tra voi salmi e inni e canti spirituali” (Ef 5,18s; cf. Col 3,16); e che quest’uso di cantare salmi fosse in vigore anche nelle adunanze dei cristiani egli indica con queste parole: “Quando vi adunate alcuni tra voi cantano il salmo” (1 Cor 14,26). Che lo stesso avvenisse dopo l’età apostolica è attestato da Plinio, il quale scrive che coloro che avevano rinnegato la fede avevano affermato “che questa era la sostanza della colpa di cui erano accusati, essere soliti adunarsi in un dato giorno prima dell’apparire della luce e cantare un inno a Cristo come a Dio”.(4) Queste parole del proconsole romano di Bitinia mostrano chiaramente che neppure al tempo della persecuzione taceva del tutto la voce del canto della chiesa; ciò conferma Tertulliano quando narra che nelle adunanze dei cristiani “si leggono le Scritture, si cantano salmi, si tiene la catechesi”.(5)

Restituita alla chiesa la libertà e la pace, si hanno molte testimonianze dei padri e degli scrittori ecclesiastici, le quali confermano essere i salmi e gli inni del culto liturgico di uso pressoché quotidiano. Anzi a poco a poco si sono create anche nuove forme ed escogitati nuovi generi di canti, sempre più perfezionati dalle scuole di musica, specialmente a Roma. Il nostro predecessore di f.m. san Gregorio Magno, secondo la tradizione, radunò con cura quanto era stato tramandato e vi diede un saggio ordinamento, provvedendo con opportune leggi e norme ad assicurare la purezza e l’integrità del canto sacro. Dall’alma città la modulazione romana del canto a poco a poco s’introdusse in altre regioni dell’occidente, e non solo vi si arricchì di nuove forme e melodie, ma si incominciò anche a usare una nuova specie di canto sacro, l’inno religioso, talora in lingua volgare. Lo stesso canto corale, che dal suo restauratore san Gregorio cominciò a chiamarsi “gregoriano”, a partire dai secoli VIII e IX in quasi tutte le regioni dell’Europa cristiana acquistò nuovo splendore, con l’accompagnamento dello strumento musicale chiamato “organo”.

A cominciare dal secolo IX a poco a poco a questo canto corale si aggiunse il canto polifonico, di cui nei secoli successivi sempre più si precisarono la teoria e la pratica e che, soprattutto nei secoli XV e XVI, raggiunse per opera di sommi artisti ammirabile perfezione. La chiesa ebbe sempre in grande onore anche questo canto polifonico e di buon grado lo ammise a maggior decoro dei sacri riti nelle stesse basiliche romane e nelle cerimonie pontificie. Se ne accrebbero l’efficacia e lo splendore, perché alla voce dei cantori si aggiunse, oltre l’organo, il suono di altri strumenti musicali.

In tal modo, per impulso e sotto l’auspicio della chiesa, l’ordinamento della musica sacra nel decorso dei secoli ha fatto lungo cammino, in cui, sebbene talvolta con lentezza e a fatica, tuttavia è salito a poco a poco a maggior perfezione: dalle semplici ed ingenue melodie gregoriane fino alle grandi e magnifiche opere d’arte, nelle quali non solo la voce umana, ma altresì l’organo e gli altri strumenti aggiungono dignità, ornamento e prodigiosa ricchezza. Il progresso di quest’arte musicale, mentre chiaramente dimostra quanto la chiesa si sia preoccupata di rendere sempre più splendido e gradito al popolo cristiano il culto divino, d’altra parte spiega come mai la chiesa medesima abbia talvolta dovuto impedire che si oltrepassassero i giusti limiti e che, insieme con il vero progresso, s’infiltrasse nella musica sacra, depravandola, alcunché di profano e alieno dal culto sacro.

A tale dovere di premurosa vigilanza sempre furono fedeli i sommi pontefici; anche il concilio di Trento saggiamente proscrisse “quelle musiche in cui o nell’organo o nel canto si mescola qualcosa di sensuale o impuro”.(6) Per tralasciare non pochi altri papi, il nostro predecessore di f.m. Benedetto XIV con lettera enciclica del 19 febbraio 1749, in preparazione all’anno giubilare, con abbondante dottrina e copia di argomenti, esortò in modo particolare i vescovi a proibire con ogni mezzo i riprovevoli abusi che si erano indebitamente introdotti nella musica sacra.(7) Seguirono la stessa via i nostri predecessori Leone XII, Pio VIII,(8) Gregorio XVI, Pio IX, Leone XIII.(9) Tuttavia si può affermare a buon diritto che è stato il Nostro predecessore di i.m. san Pio X a compiere un’organica restaurazione e riforma della musica sacra, tornando a inculcare i principi e le norme tramandati dall’antichità e opportunamente riordinandoli secondo le esigenze dei tempi moderni.(10) Infine, come il nostro immediato predecessore Pio XI di f.m., con la costituzione apostolica Divini cultus sanctitatem del 20 dicembre 1929,(11) così Noi stessi, con l’enciclica Mediator Dei del 20 novembre 1947, abbiamo ampliate e corroborate le prescrizioni dei precedenti pontefici.(12)

II

A nessuno certamente recherà meraviglia il fatto che la chiesa con tanta vigilanza s’interessi della musica sacra. Non si tratta, infatti, di dettare leggi di carattere estetico o tecnico nei riguardi della nobile disciplina della musica; è intenzione della chiesa, invece, che questa venga difesa da tutto ciò che potrebbe menomarne la dignità, essendo chiamata a prestare servizio in un campo di così grande importanza qual è quello del culto divino.

In ciò la musica sacra non ubbidisce a leggi e norme diverse da quelle che regolano ogni arte religiosa, anzi l’arte stessa in generale. Invero non ignoriamo che in questi ultimi anni alcuni artisti, con grave offesa della pietà cristiana, hanno osato introdurre nelle chiese opere prive di qualsiasi ispirazione religiosa e in pieno contrasto anche con le giuste regole dell’arte. Essi cercano di giustificare questo deplorevole modo di agire con argomenti speciosi, che pretendono far derivare dalla natura e dall’indole stessa dell’arte. Vanno, infatti, dicendo che l’ispirazione artistica è libera, che non è lecito sottoporla a leggi e norme estranee all’arte, siano queste morali o religiose, perché in tal modo si verrebbe a ledere gravemente la dignità dell’arte e a ostacolare con vincoli e legami il libero corso dell’azione dell’artista sotto il sacro influsso dell’estro.

Con tali argomenti viene sollevata una questione senza dubbio grave e difficile, che riguarda qualsiasi manifestazione d’arte e ogni artista; questione che non può essere risolta con argomenti tratti dall’arte e dall’estetica, ma che invece dev’essere esaminata alla luce del supremo principio del fine ultimo, regola sacra e inviolabile di ogni uomo e di ogni azione umana. L’uomo, infatti, dice ordine al suo fine ultimo – che è Dio – in forza di una legge assoluta e necessaria fondata sulla infinita perfezione della natura divina, in maniera così piena e perfetta che neppure Dio potrebbe esimere qualcuno dall’osservarla. Con questa legge eterna ed immutabile viene stabilito che l’uomo e tutte le sue azioni devono manifestare, a lode e gloria del Creatore, l’infinita perfezione di Dio e imitarla per quanto è possibile. L’uomo, perciò, destinato per natura sua a raggiungere questo fine supremo, nel suo operare deve conformarsi al divino archetipo e orientare in questa direzione tutte le facoltà dell’animo e del corpo, ordinandole rettamente tra loro e debitamente piegandole verso il conseguimento del fine. Pertanto anche l’arte e le opere artistiche devono essere giudicate in base alla loro conformità con il fine ultimo dell’uomo; e l’arte certamente è da annoverarsi fra le più nobili manifestazioni dell’ingegno umano, perché riguarda il modo di esprimere con opere umane l’infinita bellezza di Dio, di cui essa è quasi il riverbero. Per la qual cosa, la nota espressione “l’arte per l’arte” – con cui, messo in disparte quel fine che è insito in ogni creatura, erroneamente si afferma che l’arte non ha altre leggi che quelle che promanano dalla sua natura – o non ha valore alcuno o reca grave offesa a Dio stesso, creatore e fine ultimo. La libertà poi dell’artista – che non è un istinto cieco nell’azione, regolato solo dall’arbitrio o da una certa sete di novità – per il fatto che è soggetta alla legge divina, in nessun modo viene coartata o soffocata, ma piuttosto nobilitata e perfezionata.

Ciò, se vale per ogni opera d’arte, è chiaro che deve applicarsi anche nei riguardi dell’arte sacra e religiosa. Anzi l’arte religiosa è ancor più vincolata a Dio e diretta a promuovere la sua lode e la sua gloria, perché non ha altro scopo che quello di aiutare potentemente i fedeli a innalzare piamente la loro mente a Dio, agendo per mezzo delle sue manifestazioni sui sensi della vista e dell’udito. Perciò l’artista senza fede o lontano da Dio con il suo animo e con la sua condotta, in nessuna maniera deve occuparsi di arte religiosa; egli, infatti, non possiede quell’occhio interiore che gli permette di scorgere quanto è richiesto dalla maestà di Dio e dal suo culto. Né si può sperare che le sue opere prive di afflato religioso – anche se rivelano la perizia e una certa abilità esteriore dell’autore – possano mai ispirare quella fede e quella pietà che si addicono alla maestà della casa di Dio; e quindi non saranno mai degne di essere ammesse nel tempio dalla chiesa, che è la custode e l’arbitra della vita religiosa.

L’artista invece che ha fede profonda e tiene una condotta degna di un cristiano, agendo sotto l’impulso dell’amore di Dio e mettendo le sue doti a servizio della religione, per mezzo dei colori, delle linee e dell’armonia dei suoni farà ogni sforzo per esprimere la sua fede e la sua pietà con tanta perizia, eleganza e soavità, che questo sacro esercizio dell’arte costituirà per lui un atto di culto e di religione, e stimolerà grandemente il popolo a professare la fede e a coltivare la pietà. Tali artisti sono stati e saranno sempre tenuti in onore dalla chiesa; essa aprirà loro le porte dei templi, poiché si compiace del contributo non piccolo che essi con la loro arte e con la loro operosità danno per un più efficace svolgimento del suo ministero apostolico.

Queste leggi dell’arte religiosa vincolano con un legame ancora più stretto e più santo la musica sacra, poiché essa è più vicina al culto divino che le altre arti belle, come l’architettura, la pittura e la scultura; queste cercano di preparare una degna sede ai riti divini, quella invece occupa un posto di primaria importanza nello svolgimento stesso delle cerimonie e dei riti sacri. Per questo la chiesa deve con ogni diligenza provvedere a rimuovere dalla musica sacra, appunto perché questa è l’ancella della sacra liturgia, tutto ciò che disdice al culto divino o impedisce ai fedeli di innalzare la mente a Dio.

E, infatti, in ciò consiste la dignità e l’eccelsa finalità della musica sacra, che cioè per mezzo delle sue bellissime armonie e della sua magnificenza apporta decoro e ornamento alle voci sia del sacerdote offerente sia del popolo cristiano che loda il sommo Dio eleva i cuori dei fedeli a Dio per una sua intrinseca virtù rende più vive e fervorose le preghiere liturgiche della comunità cristiana, perché Dio uno e trino da tutti possa essere lodato e invocato con più intensità ed efficacia. Per opera della musica sacra, dunque, viene accresciuto l’onore che la chiesa porge a Dio in unione con Cristo suo capo; e viene altresì aumentato il frutto che i fedeli, stimolati dai sacri concenti, percepiscono dalla sacra liturgia e sogliono manifestare con una condotta di vita degnamente cristiana, come dimostra l’esperienza quotidiana e confermano molte testimonianze di scrittori antichi e recenti. Sant’Agostino, parlando dei canti “eseguiti con voce limpida e con appropriate modulazioni”, così si esprime: “Sento che le anime nostre assurgono nella fiamma della pietà con un ardore e una devozione maggiore per quelle sante parole, quando sono accompagnate dal canto, e tutti i diversi sentimenti del nostro spirito trovano nel canto una loro propria modulazione, che li risveglia in forza di non so quale occulto, intimo rapporto”.(13)

Da qui facilmente si può comprendere come la dignità e l’importanza della musica sacra sia tanto più grande, quanto più da vicino la sua azione riguarda l’atto supremo del culto cristiano, cioè il sacrificio eucaristico dell’altare. Essa, dunque, nulla può compiere di più alto e di più sublime dell’ufficio di accompagnare con la soavità dei suoni la voce del sacerdote che offre la vittima divina, di rispondere gioiosamente alle sue domande insieme col popolo che assiste al sacrificio, e di rendere più splendido con la sua arte tutto lo svolgimento del rito sacro. Alla dignità di questo eccelso servizio si avvicinano poi gli uffici che la stessa musica sacra compie quando accompagna ed abbellisce le altre cerimonie liturgiche, e in primo luogo la recita dell’Ufficio divino nel coro. Questa musica “liturgica”, perciò, merita sommo onore e lode.

Ciononostante si deve tenere in grande stima anche quella musica che, pur non essendo destinata principalmente al servizio della sacra liturgia, tuttavia, per il suo contenuto e per le sue finalità reca molti vantaggi alla religione, e perciò a buon diritto viene chiamata musica “religiosa”. Invero anche questo genere di musica sacra – che è detto “popolare” e che ebbe origine in seno alla chiesa e sotto i suoi auspici poté felicemente svilupparsi – è in grado, come l’esperienza dimostra, di esercitare negli animi dei fedeli un grande e salutare influsso, sia che venga usata nelle chiese durante le funzioni e le sacre cerimonie non liturgiche, sia fuori di chiesa nelle varie solennità e celebrazioni. Infatti, le melodie di questi canti, composti per lo più in lingua volgare, si fissano nella memoria quasi senza sforzo e fatica e nello stesso tempo anche le parole e i concetti si imprimono nella mente, sono spesso ripetuti e più profondamente vengono compresi. Ne segue che anche i fanciulli e le fanciulle, imparando nella tenera età questi canti sacri, sono molto aiutati a conoscere, a gustare e a ricordare le verità della nostra fede e così l’apostolato catechistico ne trae non lieve vantaggio. Questi canti religiosi, poi, agli adolescenti e agli adulti, mentre ricreano l’animo, offrono un puro e casto diletto, danno un certo tono di maestà religiosa ai convegni e alle adunanze più solenni, e anzi nelle stesse famiglie cristiane apportano santa letizia, dolce conforto e spirituale profitto. Per la qual cosa anche questo genere di musica religiosa popolare costituisce un valido aiuto per l’apostolato cattolico, e quindi deve con ogni cura essere coltivato e sviluppato.

Pertanto, quando esaltiamo i pregi molteplici della musica sacra e la sua efficacia nei riguardi dell’apostolato, facciamo cosa che può tornare di sommo gaudio e conforto a tutti coloro che in qualsiasi maniera si sono dedicati a coltivarla e a promuoverla. Infatti, quanti o compongono musica, secondo il proprio talento artistico, o la dirigono, o la eseguono sia vocalmente sia per mezzo di strumenti musicali, tutti costoro senza dubbio esercitano un vero e proprio apostolato, anche se in modo vario e diverso, e riceveranno perciò in abbondanza da Cristo Signore le ricompense e gli onori riservati agli apostoli, nella misura con cui ognuno avrà fedelmente adempiuto il suo ufficio. Essi perciò stimino grandemente questa loro mansione, in virtù della quale non sono solamente artisti e maestri di arte, ma anche ministri di Cristo Signore e collaboratori nell’apostolato, e si sforzino di manifestare anche con la condotta della vita la dignità di questo loro ufficio.

III

Tale essendo, come abbiamo ora detto, la dignità e l’efficacia della musica sacra e del canto religioso, è oltremodo necessario curarne diligentemente la struttura in ogni parte, per ricavarne utilmente i salutari frutti.

È necessario anzitutto che il canto e la musica sacra, più intimamente congiunti con il culto liturgico della chiesa, raggiungano l’alto fine loro prefisso. Perciò tale musica – come già saggiamente ammoniva il Nostro predecessore san Pio X – “deve possedere le qualità proprie della liturgia, in primo luogo la santità e la bontà della forma; onde di per sé si raggiunge un’altra caratteristica, la universalità”.(14)

Deve essere santa; non ammetta in sé ciò che sa di profano, né permetta che si insinui nelle melodie con cui viene presentata. A questa santità soprattutto si presta il canto gregoriano, che da tanti secoli si usa dalla chiesa, sì da poterlo dire di suo patrimonio. Questo canto, per la intima aderenza delle melodie con le parole del sacro testo, non solo vi si addice pienamente; ma sembra quasi interpretarne la forza e l’efficacia, istillando dolcezza all’animo di chi ascolta; e ciò con mezzi musicali semplici e facili, ma pervasi di così sublime e santa arte, da suscitare in tutti sentimenti di sincera ammirazione e da divenire per gli stessi intenditori e maestri di musica sacra fonte inesauribile di nuove melodie. Conservare con cura questo prezioso tesoro del canto gregoriano e farne ampiamente partecipe il popolo spetta a tutti coloro, ai quali Gesù Cristo affidò di custodire e di dispensare le ricchezze della chiesa. Però, quello che i Nostri predecessori san Pio X, a buon diritto chiamato restauratore del canto gregoriano,(15) e Pio XI(16) hanno sapientemente ordinato e inculcato, ancor Noi vogliamo e prescriviamo che si faccia, portando l’attenzione a quelle caratteristiche che sono proprie del genuino canto gregoriano; che cioè nella celebrazione dei riti liturgici si faccia largo uso di tale canto, e si provveda con ogni cura affinché sia eseguito con esattezza, dignità e pietà. Che se per le feste introdotte di recente si debbano comporre nuove melodie, ciò si faccia da maestri veramente competenti, in modo da osservare fedelmente le leggi proprie del vero canto gregoriano e le nuove composizioni gareggino per valore e purezza con le antiche.

Se queste norme saranno realmente osservate in tutto, si verrà altresì a soddisfare nel modo dovuto a un’altra proprietà della musica sacra, che sia cioè vera arte; e se in tutte le chiese cattoliche del mondo risonerà incorrotto e integro il canto gregoriano, esso pure, come la liturgia romana, avrà la nota di universalità, in modo che i fedeli in qualunque parte del mondo sentano come familiari e quasi di casa propria quelle armonie, sperimentando così con spirituale conforto la mirabile unità della chiesa. È questo uno dei motivi principali per cui la chiesa mostra così vivo desiderio che il canto gregoriano sia intimamente legato con le parole latine della sacra liturgia.

Sappiamo bene che dalla stessa sede apostolica sono state concesse al riguardo per gravi motivi alcune ben determinate eccezioni, le quali peraltro vogliamo che non siano estese e applicate ad altri casi, senza la debita licenza della medesima Santa Sede. Anzi anche là dove ci si può avvalere di tali concessioni, gli ordinari e gli altri sacri pastori curino attentamente che i fedeli fin dall’infanzia imparino le melodie gregoriane più facili e più in uso e se ne sappiano valere nei sacri riti liturgici, di modo che anche in ciò sempre più risplenda l’unità e l’universalità della chiesa.

Dove, tuttavia, una consuetudine secolare o immemorabile permette che nel solenne sacrificio eucaristico, dopo le parole liturgiche cantate in latino, si inseriscano alcuni canti popolari in lingua volgare, gli ordinari permetteranno ciò “qualora giudichino che, per le circostanze di luogo e di persone, tale (consuetudine) non possa prudentemente venire rimossa”,(17) ferma restando la norma che non si cantino in lingua volgare le parole stesse della liturgia, come già sopra è stato detto.

Affinché poi i cantori e il popolo cristiano capiscano bene il significato delle parole liturgiche legate alla melodia musicale, facciamo Nostra l’esortazione rivolta dai padri del concilio di Trento specialmente “ai pastori e ai singoli aventi cura di anime, che spesso durante la celebrazione della messa spieghino o direttamente o per mezzo di altri qualche parte di ciò che si legge nella messa, e tra l’altro illustrino qualche mistero di questo santo sacrificio, specialmente la domenica e nei giorni festivi”,(18) e ciò facciano soprattutto nel tempo in cui si spiega il catechismo al popolo cristiano. Ciò diviene più facile e agevole oggi che non nei secoli passati, perché si hanno le parole della liturgia tradotte in volgare e la loro spiegazione in manuali e libriccini, che, preparati da competenti in quasi tutte le nazioni, possono efficacemente aiutare e illuminare i fedeli, affinché anch’essi comprendano e quasi prendano parte a quanto dicono i ministri sacri in lingua latina.

È ovvio che quanto abbiamo qui esposto brevemente circa il canto gregoriano riguarda soprattutto il rito latino romano della chiesa; ma può rispettivamente applicarsi ai canti liturgici di altri riti, sia dell’occidente, come l’ambrosiano, il gallicano, il mozarabico, sia ai vari riti orientali. Tutti questi riti, infatti, mentre dimostrano la mirabile ricchezza della chiesa nell’azione liturgica e nelle formule di preghiera, d’altra parte per i diversi canti liturgici conservano tesori preziosi, che occorre custodire e impedirne non solo la scomparsa, ma anche ogni attenuazione e depravazione. Tra i più antichi e importanti documenti della musica sacra, hanno senza dubbio un posto considerevole i canti liturgici nei vari riti orientali, le cui melodie ebbero molto influsso nella formazione di quelle della chiesa occidentale, con i dovuti adattamenti all’indole propria della liturgia latina. È Nostro desiderio che una scelta di canti dei riti sacri orientali – a cui sta alacremente lavorando il Pontificio Istituto per gli studi orientali, con l’aiuto del Pontificio Istituto per la musica sacra – sia felicemente condotta a termine, tanto per la parte dottrinale quanto per quella pratica; di modo che i seminaristi di rito orientale, ben preparati anche nel canto sacro, divenuti un giorno sacerdoti, possano validamente contribuire anche in questo ad accrescere il decoro della casa di Dio.

Non è Nostra intenzione, con ciò che abbiamo detto per lodare e raccomandare il canto gregoriano, rimuovere dai riti della chiesa la polifonia sacra, la quale, purché ornata delle debite qualità, può giovare assai per la magnificenza del culto divino e per suscitare pii affetti nell’animo dei fedeli. È ben noto infatti che molti canti polifonici, composti soprattutto nel secolo XVI, risplendono per tale purezza d’arte e tale ricchezza di melodie, da essere del tutto degni di accompagnare e quasi illuminare i riti della chiesa. Che se la genuina arte della polifonia nel corso dei secoli a poco a poco è decaduta e non di rado vi si sono mescolate melodie profane, negli ultimi decenni, per l’opera indefessa di insigni maestri, essa felicemente si è come rinnovata, con un più accurato studio delle opere degli antichi maestri, proposte all’imitazione ed emulazione degli odierni compositori.

In tal modo avviene che nelle basiliche, nelle cattedrali, nelle chiese dei religiosi si possono eseguire sia i capolavori degli antichi maestri sia composizioni polifoniche di autori recenti, con decoro del sacro rito; sappiamo anzi che anche nelle chiese minori non di rado si eseguono canti polifonici più semplici, ma composti con dignità e vero senso d’arte. La chiesa favorisce tutti questi sforzi; essa, infatti, secondo le parole del Nostro predecessore di b. m. san Pio X, “sempre ha favorito il progresso delle arti e lo ha aiutato, accogliendo nell’uso religioso tutto ciò che l’ingegno umano ha creato di buono e di bello nel corso dei secoli, purché restassero salve le leggi liturgiche”.(19) Queste leggi esigono che su questa importante materia si usi ogni prudenza e si abbia ogni cura, affinché non si introducano in chiesa canti polifonici che, per il modo turgido e ampolloso, o vengano a oscurare con la loro prolissità le parole sacre della liturgia o interrompano l’azione del sacro rito oppure avviliscano l’abilità dei cantori con disdoro del culto divino.

Queste norme devono applicarsi altresì all’uso dell’organo e degli altri strumenti musicali. Fra gli strumenti a cui è aperto l’adito al tempio viene a buon diritto in primo luogo l’organo, perché è particolarmente adatto ai canti sacri e sacri riti e dà alle cerimonie della chiesa notevole splendore e singolare magnificenza, commuove l’animo dei fedeli con la gravità e la dolcezza del suono, riempie la mente di gaudio quasi celeste ed eleva fortemente a Dio e alle cose celesti.

Oltre l’organo vi sono altri strumenti che possono efficacemente venire in aiuto a raggiungere l’alto fine della musica sacra, purché non abbiano nulla di profano, di chiassoso, di rumoroso, cose disdicevoli al sacro rito e alla gravità del luogo. Tra essi vengono in primo luogo il violino e altri strumenti ad arco, i quali, o soli, o insieme con altri strumenti e con l’organo, esprimono con indicibile efficacia i sensi di mestizia o di gioia dell’animo. Del resto, circa le melodie musicali non ammissibili nel culto cattolico, già abbiamo parlato chiaramente nell’enciclica Mediator Dei. “Quando essi nulla abbiano di profano o disdicevole alla santità del luogo e dell’azione liturgica e non vadano in cerca dello stravagante e dello straordinario, abbiano pure accesso nelle nostre chiese, potendo contribuire non poco allo splendore dei sacri riti, a elevare l’animo verso l’alto e a infervorare la vera pietà dell’animo”.(20) È appena il caso di ammonire che, quando manchino la capacità e i mezzi per tanto impegno, è meglio astenersi da simili tentativi, piuttosto che fare cosa meno degna del culto divino e delle adunanze sacre.

A questi aspetti che hanno più stretto legame con la liturgia della chiesa si aggiungono, come abbiamo detto, i canti religiosi popolari, scritti per lo più in lingua volgare, i quali prendono origine dal canto liturgico stesso, ma, essendo più adatti all’indole e ai sentimenti dei singoli popoli, differiscono non poco tra di loro, secondo il carattere delle genti e l’indole particolare delle nazioni. Affinché tali canti religiosi portino frutto spirituale e vantaggio al popolo cristiano, devono essere pienamente conformi all’insegnamento della fede cristiana, esporla e spiegarla rettamente, usare un linguaggio facile e una melodia semplice, aborrire dalla profusione di parole gonfie e vuote e, infine, pur essendo brevi e facili, avere una certa religiosa dignità e gravità. Quando abbiano tali doti, questi canti sacri, sgorgati quasi dal più profondo dell’anima del popolo, commuovono fortemente i sentimenti e l’animo ed eccitano pii affetti; quando si cantano nelle funzioni religiose dalla folla radunata elevano l’animo dei fedeli alle cose celesti. Perciò, sebbene, come abbiamo detto, nelle messe cantate solenni non possono usarsi senza speciale permesso della Santa Sede, tuttavia nelle messe celebrate in forma non solenne possono mirabilmente giovare, affinché i fedeli assistano al santo sacrificio non tanto come spettatori muti e quasi inerti, ma, accompagnando l’azione sacra con la mente e con la voce, uniscano la propria devozione con le preghiere del sacerdote, purché tali canti siano ben adatti alle varie parti del sacrificio, come Ci è noto che già si fa in molte parti del mondo cattolico con grande gaudio.

Quanto alle cerimonie non strettamente liturgiche, tali canti religiosi, purché corrispondano alle condizioni suddette, possono egregiamente giovare ad attirare salutarmente il popolo cristiano, ad ammaestrarlo, a formarlo a sincera pietà ed a riempirlo di un santo gaudio; e ciò tanto nelle processioni e nei pellegrinaggi ai santuari, quanto pure nei congressi religiosi nazionali ed internazionali. Saranno utili in special modo quando si tratta di istruire nella verità cattolica i fanciulli e le fanciulle, così pure nelle associazioni giovanili e nelle adunanze dei pii sodalizi, come l’esperienza spesso chiaramente dimostra.

Non possiamo perciò fare a meno di esortare vivamente Voi, venerabili Fratelli, a volere con ogni cura e ogni mezzo favorire e promuovere questo canto popolare religioso nelle vostre diocesi. Non vi mancheranno uomini esperti, per raccogliere e riunire insieme, dove già non sia stato fatto, questi canti, perché da tutti i fedeli possano più facilmente venire imparati, cantati con speditezza e bene impressi nella memoria. Coloro cui è affidata la formazione religiosa dei fanciulli e delle fanciulle, non trascurino di avvalersi nel debito modo di questi validi aiuti, e gli assistenti della gioventù cattolica ne usino rettamente nel grave compito loro affidato. In tal modo si può sperare di ottenere anche un altro vantaggio, che è nel desiderio di tutti, che siano tolte di mezzo quelle canzoni profane che o per mollezza del ritmo o per le parole spesso voluttuose e lascive che lo accompagnano, sogliono essere pericolose ai cristiani, ai giovani specialmente, e siano sostituite da quelle altre che danno un piacere casto e puro e insieme nutrono la fede e la pietà; sicché già qui in terra il popolo cristiano incominci a cantare quel canto di lode che canterà eternamente nel cielo: “A Colui che siede sul trono e all’Agnello sia benedizione, onore, gloria e potestà nei secoli dei secoli” (Ap 5,13).

Ciò che abbiamo esposto finora vale soprattutto per quelle nazioni appartenenti alla chiesa, nelle quali la religione cattolica è già saldamente stabilita. Nei paesi di missione non sarà certo possibile mettere tutto ciò in pratica, prima che sia cresciuto sufficientemente il numero dei cristiani, si siano costruite chiese spaziose, le scuole fondate dalla chiesa siano convenientemente frequentate dai figli dei cristiani e infine vi sia un numero di sacerdoti pari al bisogno. Tuttavia esortiamo vivamente gli operai apostolici, che faticano in quelle vaste estensioni della vigna del Signore, a volersi occupare seriamente, tra le gravi cure del loro ufficio, anche di questa incombenza. È meraviglioso vedere quanto si dilettino delle melodie musicali i popoli affidati alla cura dei missionari e quanta parte abbia il canto nelle cerimonie dedicate al culto degli idoli. Sarebbe pertanto improvvido che questo efficace sussidio per l’apostolato venisse tenuto in poco conto o addirittura trascurato dagli araldi di Cristo vero Dio. Perciò i messaggeri dell’evangelo nelle regioni pagane, nell’adempimento del loro ministero, dovranno largamente fomentare questo amore del canto religioso, che è coltivato dagli uomini affidati alle loro cure, in modo che questi popoli, ai canti religiosi nazionali, che non di rado vengono ammirati anche dalle nazioni civili, contrappongano analoghi canti sacri cristiani nei quali si esaltano le verità della fede, la vita del Signore Gesù Cristo, della beata Vergine e dei santi nella lingua e nelle melodie famigliari a quelle genti.

Si ricordino altresì i missionari che la chiesa cattolica, fin dai tempi antichi, inviando gli araldi dell’evangelo in regioni non ancora rischiarate dal lume della fede, insieme con i sacri riti ha voluto che essi portassero anche i canti liturgici, tra cui le melodie gregoriane, e ciò affinché i popoli da chiamare alla fede, allettati dalla dolcezza del canto, fossero più facilmente mossi ad abbracciare le verità della religione cristiana.

IV

Affinché tutto quello che, seguendo le orme dei Nostri predecessori, Noi in questa lettera enciclica abbiamo raccomandato o prescritto ottenga il desiderato effetto, voi, o venerabili fratelli, con premuroso impegno prenderete tutte quelle disposizioni che l’alto ufficio a voi affidato da Cristo e dalla chiesa vi impone e che, come risulta dall’esperienza, con grande frutto in molte chiese del mondo cristiano sono messe in pratica.

Innanzi tutto datevi cura perché nella chiesa cattedrale e, in quanto dalle circostanze è consentito, nelle maggiori chiese della vostra giurisdizione, ci sia una scelta Schola cantorum, la quale riesca agli altri di esempio e di stimolo a coltivare e a eseguire con diligenza il canto sacro. Dove poi non si possono avere le Scholae cantorum né si può adunare un conveniente numero di Pueri cantores, si concede che “un gruppo di uomini e di donne o fanciulle in luogo a ciò destinato, posto fuori della balaustra, possa cantare i testi liturgici della messa solenne, purché gli uomini siano del tutto separati dalle donne e fanciulle e sia evitato ogni inconveniente, onerata in ciò la coscienza degli ordinari”.(21)

Con grande sollecitudine è da provvedere che quanti nei seminari e negli istituti missionari religiosi si preparano ai sacri ordini, siano rettamente istruiti secondo le direttive della chiesa nella musica sacra e nella conoscenza teorica e pratica del canto gregoriano da maestri esperimentati in tali discipline, che apprezzino tradizioni e usi e ubbidiscano in tutto alle norme precettive della Santa Sede.

Che se tra gli alunni dei seminari e dei collegi religiosi ve ne sia qualcuno fornito di particolare tendenza e passione verso quest’arte, i rettori dei seminari o dei collegi non trascurino d’informarvi di questo, perché possiate offrirgli occasione di coltivare meglio tali doti e lo possiate inviare al Pontificio Istituto di musica sacra in questa città o in qualche altro ateneo del genere, purché si distingua per costumatezza e virtù e con ciò dia motivo a sperare che riuscirà ottimo sacerdote.

Oltre a ciò converrà provvedere che gli ordinari e i superiori maggiori degli istituti religiosi scelgano qualcuno del cui aiuto si servano in cosa di tanta importanza, a cui essi, fra tante e così gravi altre loro occupazioni, per forza di circostanze non potranno facilmente attendere. Cosa ottima a questo fine è che nel consiglio diocesano di arte sacra ci sia qualcuno esperto in musica sacra e in canto, che possa solertemente vigilare nella diocesi in tale campo e informare l’ordinario di quanto si è fatto e si debba fare e accogliere e far eseguire le sue prescrizioni e disposizioni. Che se in qualche diocesi esiste qualcuna di quelle associazioni che sono state sapientemente fondate per coltivare la musica sacra, e sono state lodate e raccomandate dai sommi pontefici, l’ordinario nella sua prudenza se ne potrà giovare per soddisfare alle responsabilità di tale suo ufficio.

Tali pii sodalizi, costituiti per l’istruzione del popolo nella musica sacra o per approfondire la cultura di quest’ultima, i quali con la diffusione delle idee e con l’esempio molto possono contribuire a dare incremento al canto sacro, sosteneteli, o venerabili fratelli, e promoveteli col vostro favore, perché essi fioriscano di vigorosa vita e ottengano ottimi valenti maestri, e in tutta la diocesi diligentemente diano sviluppo alla musica sacra e all’amore e alla consuetudine dei canti religiosi, con la debita obbedienza alle leggi della chiesa e alle Nostre prescrizioni.

*****

Tutto questo, mossi da una sollecitudine tutta paterna, abbiamo voluto trattare con una certa ampiezza; e nutriamo piena fiducia che voi, venerabili fratelli, rivolgerete tutta la vostra cura pastorale a tale questione d’interesse religioso, molto importante per la celebrazione più degna e più splendida del culto divino. Quelli poi che nella chiesa, sotto la vostra condotta, hanno nelle loro mani la direzione di quanto concerne la musica, speriamo che da questa Nostra lettera enciclica troveranno incitamento a promuovere con nuovo appassionato ardore e con generosità operosamente solerte tale importante apostolato. Così, come auspichiamo, avverrà che arte tanto nobile molto apprezzata in tutte le epoche della chiesa, anche ai nostri giorni sarà coltivata in modo da essere ricondotta ai genuini splendori di santità e di bellezza e conseguirà perfezione sempre più alta, e col suo contributo produrrà questo felice effetto che i figli della chiesa con fede più ferma, con speranza più viva, con carità più ardente, rendano nelle chiese il dovuto omaggio di lodi a Dio uno e trino, e che anzi anche fuori degli edifici sacri, nelle famiglie e nei convegni cristiani, si avveri quello che san Cipriano a Donato faceva oggetto di una famosa esortazione: “Risuoni di salmi il sobrio banchetto: e se hai tenace memoria e voce canora, assumiti questo ufficio secondo l’invalsa consuetudine: tu a persone a te carissime offri maggior nutrimento, se da parte nostra c’è un’audizione spirituale e se la dolcezza religiosa diletta il nostro udito”.(22)

Frattanto nell’attesa di risultati sempre più ricchi e lieti, che speriamo avranno origine da questa Nostra esortazione, in attestato del Nostro paterno affetto e in auspicio di doni celesti, impartiamo con effusione d’animo la benedizione apostolica a voi, venerabili fratelli, a quanti presi singolarmente e collettivamente appartengono al gregge a voi affidato, e in modo particolare a coloro che, assecondando i Nostri voti, si curano di dare incremento alla musica sacra.

Roma, presso San Pietro, 25 dicembre, Natale di nostro Signore Gesù Cristo, nell’anno 1955, XVII del Nostro pontificato.

PIO PP. XII