«C’è bisogno come minimo di una nuova consapevolezza liturgica che sottragga spazio alla tendenza a operare sulla liturgia come se fosse un oggetto della nostra abilità manipolatoria.
La cosa più importante oggi è riacquistare il rispetto della liturgia e la consapevolezza della sua non manipolabilità. Reimparare a riconoscerla nel suo essere una creatura vivente che cresce e che ci è stata donata, per il cui tramite noi prendiamo parte alla liturgia celeste.
Questa, credo, è la prima cosa: sconfiggere la tentazione di un fare dispotico, che concepisce la liturgia come oggetto di proprietà dell’uomo, e risvegliare il senso interiore del sacro. Tutto ciò deve essere preceduto da un processo educativo che argini la tendenza a mortificare la liturgia con invenzioni personali.
Per una retta presa di coscienza in materia liturgica è importante che venga meno l’atteggiamento di sufficienza per la forma liturgica in vigore fino al 1970. Chi oggi sostiene la continuità con questa liturgia viene messo all’indice; ogni tolleranza viene meno a questo riguardo. Nella storia non è mai accaduto niente di questo genere; così è l’intero passato della Chiesa a essere disprezzato. Come si può confidare nel suo presente, se le cose stanno così? Non capisco nemmeno, a essere franco, perchè tanta soggezione, da parte di molti confratelli Vescovi, nei confronti di questa intolleranza, che pare essere un tributo obbligato allo spirito dei tempi, e che pare contrastare, senza un motivo comprensibile, il processo di necessaria riconciliazione all’interno della Chiesa.
Oggi il latino nella Messa ci pare quasi un peccato. Ma così ci si preclude anche la possibilità di comunicare tra parlanti di lingue diverse, che è così preziosa in territori misti. Se nessuno sa più nemmeno cosa significhi “Kyrie” o “Gloria”, allora si è verificato un depauperamento culturale e il venire meno di elementi comuni. Ci dovrebbe anche essere una parte recitata in latino che garantisca la possibilità di ritrovarci in qualcosa che ci unisce.» (Benedetto XVI, Teologia della Liturgia)
Benedetto XVI: Una Chiesa sempre più umana e sempre meno divina
«La mia impressione è che tacitamente si vada perdendo il senso autenticamente cattolico della realtà “Chiesa” senza che lo si respinga espressamente. Molti non credono più che si tratti di una realtà voluta dal Signore stesso. Anche presso alcuni teologi, la Chiesa appare come una costruzione umana, uno strumento creato da noi e che quindi noi stessi possiamo riorganizzare liberamente a seconda delle esigenze del momento. Si è cioè insinuata in molti modi nel pensiero cattolico, e perfino nella teologia cattolica, una concezione di Chiesa che non si può neppure chiamare protestante, in senso ” classico “. Alcune idee ecclesiologiche correnti vanno collegate piuttosto al modello di certe “chiese libere” del Nord America, dove si rifugiavano i credenti per sfuggire al modello oppressivo di “chiesa di Stato” prodotto in Europa dalla Riforma. Quei profughi, non credendo più nella Chiesa come voluta da Cristo e volendo nello stesso tempo sfuggire alla chiesa di stato, creavano la loro chiesa, un’organizzazione strutturata secondo i loro bisogni. Per i cattolici la Chiesa è composta sì da uomini che ne organizzano il volto esterno; ma, dietro di questo, le strutture fondamentali sono volute da Dio stesso e quindi sono intangibili. Dietro la facciata umana sta il mistero di una realtà sovrumana sulla quale il riformatore, il sociologo, l’organizzatore non hanno alcuna autorità per intervenire. Se la Chiesa è vista invece come una costruzione umana, come un nostro artifizio, anche i contenuti della fede finiscono per diventare arbitrari: la fede, infatti, non ha più uno strumento autentico, garantito, attraverso il quale esprimersi. Così, senza una visione che sia anche soprannaturale e non solo sociologica del mistero della Chiesa, la stessa cristologia perde il suo riferimento con il Divino: a una struttura puramente umana finisce col corrispondere un progetto umano. Il Vangelo diventa il progetto-Gesù, il progetto liberazione-sociale, o altri progetti solo storici, immanenti, che possono sembrare anche religiosi in apparenza, ma sono ateistici nella sostanza»
(Joseph Ratzinger in “Rapporto sulla Fede”, 1985).
Differenze tra la Chiesa Cattolica e le chiese ortodosse
di Corrado Gnerre
Il Cristianesimo ortodosso (“ortodossia” significa “corretta opinione”) si chiama così perché convinto di applicare la vera volontà di Gesù Cristo. Esso si esprime in comunità autocefale (cioè aventi in sé il proprio capo), che solitamente vengono erette al rango di patriarcato. Queste comunità sono in comunione fra loro, ma agiscono indipendentemente le une dalle altre. Vi sono poi alcune comunità autonome e semiautonome che hanno un notevole grado di autogoverno, ma non possono definirsi di governo proprio nel vero senso della parola, perché l’elezione del loro primate viene formalmente approvata dal sinodo della “chiesa” autocefala da cui dipendono.
All’interno dell’Ortodossia vi sono varie controversie giurisdizionali, e ciò per diversi motivi. In alcuni casi le questioni si legano all’autodeterminazione nazionale di un popolo, come nel caso delle “chiese” ucraina, montenegrina e macedone, le quali non sono in comunione con le principali chiese ortodosse.
Le comunità ortodosse più importanti sono quelle greca, russa, serba, bulgara e rumena. Complessivamente l’Ortodossia è per dimensioni la terza maggiore confessione cristiana, contando circa 250 milioni di fedeli, sia in Oriente che in Occidente.
La storia
Diamo qualche notizia sulla storia dell’Ortodossia. Le radici dello scisma sono nella decisione dell’Imperatore Costantino di fare di Costantinopoli (nell’anno 330) la “nuova Roma” e di renderla capitale dell’Impero. Fu così che nel 381 il vescovo di quella città pretese per il suo seggio un primato d’onore immediatamente dopo quello di Roma. A questo poi si aggiunse il fatto che l’Imperatore Teodosio si stabilì a Costantinopoli e alla sua morte l’Impero si divise in Impero d’Occidente e Impero d’Oriente. Quest’ultimo divenne la residenza stabile dell’imperatore d’Oriente.
Ciò accrebbe le pretese del Vescovo di Costantinopoli, che, al Concilio di Calcedonia (451), ottenne non soltanto la conferma del suo posto d’onore, ma un’effettiva giurisdizione sulle diocesi di Tracia, d’Asia, del Ponto e su altri Paesi vicini. Questa decisione fu adottata dopo la partenza dei legati romani e non fu mai riconosciuta dal Papato. Non fu così a Costantinopoli dove, poco a poco, si sviluppò quella convinzione che in germe contiene tutto lo “scisma” bizantino: il vescovo di Costantinopoli avrebbe dovuto avere sul Patriarcato un’autorità assoluta, ma avrebbe dovuto comunque riconoscersi, a livello onorifico, inferiore al Vescovo di Roma, il quale – evidentemente – anch’egli avrebbe dovuto esercitare un’autorità assoluta sui territori dell’Occidente.
È ovvio che alla base della separazione non vi fu solo l’ambizione dei patriarchi di Costantinopoli. Giocarono anche altri fattori. Per esempio: la diversità culturale latina rispetto a quella greco-orientale, la diversa mentalità teologica, la politica degli imperatori d’Oriente, i quali, non vedendo di buon occhio che la Chiesa del loro impero dipendesse da un’autorità straniera, appoggiavano e stimolavano le pretese dei vari patriarchi.
Dopo un breve scisma (863-867), operato dal patriarca di Costantinopoli Fozio, che tra l’altro lanciò anche l’argomento del Filioque (di cui parleremo in un successivamente), lo scisma definitivo avvenne nel 1054 con il patriarca Michele Cerulario. Questi salì alla sede di Costantinopoli il 25 marzo del 1043. Le relazioni con Roma erano già sospese da tempo. Il Papato attraversava uno dei periodi più tristi. Dal 901 al 1059 si contano una quarantina di papi di fronte a soli quindici patriarchi di Costantinopoli. Michele Cerulario non ruppe le relazioni con Roma, che di fatto non esistevano più, quanto fece fallire ogni tentativo di riprenderle. Riaprì la polemica contro i riti e gli usi latini, che Fozio aveva già cominciata. Per suo ordine furono chiuse tutte le chiese latine di Costantinopoli. Fece poi lanciare da Leone di Ocrida un manifesto offensivo contro gli usi latini.
Al papa Leone IX non restò che inviare a Costantinopoli una delegazione di legati con a capo il cardinale Umberto. Il tentativo fallì. Alla fine, ai legati pontifici non restò che deporre sull’altare della celebre basilica di Santa Sofia la bolla con cui veniva scomunicato Michele Cerulario. Era il 16 luglio del 1054. Cerulario ovviamente rispose scomunicando i legati. Al ritorno a Roma, il cardinale Umberto e i legati seppero che il Papa era morto il 19 aprile e le Sede era ancora vacante. Ma la loro sentenza fu accolta da tutti. Da quel momento lo scisma era un fatto compiuto.
Non solo scisma … ma anche eresia
La versione ufficiale vuole che il Cristianesimo ortodosso sia classificato come scismatico e non eretico. Ricordiamo la differenza tra eresia e scisma.
L’eresia è un errore che si pone sul piano della dottrina, lo scisma invece è un errore che si pone sul piano della disciplina. Dal momento che il Cristianesimo ortodosso viene ricordato soprattutto per il suo rifiuto alla sottomissione al Papa, in quanto Vescovo di Roma avente un potere di giurisdizione su tutti gli altri vescovi, esso viene considerato come una comunità scismatica. È un giudizio che convince poco e diciamo subito il perché.
Prima di tutto: già il rifiuto del primato petrino ha implicazioni non solo sul piano disciplinare ma anche su quello dottrinale. Secondo: è riduttivo ritenere che il Cristianesimo ortodosso si differenzi da quello cattolico solamente per la non accettazione del primato del Vescovo di Roma. Infatti, vi sono diverse differenze. Parliamone.
Chiesa e primato petrino
Gli ortodossi ritengono – a proposito della costituzione della Chiesa – che san Paolo sia stato del tutto pari a san Pietro (tesi del “duplice capo della Chiesa”, già condannata da Innocenzo X). Ovviamente questo comporta anche il rifiuto del dogma dell’infallibilità pontificia.
Gli ortodossi ritengono che nei primi secoli la Chiesa Cattolica non fosse “monarchica” e ritengono che il Primato della Chiesa Romana non poggi su validi argomenti.
Dio
Gli ortodossi, ovviamente, concepiscono Dio in maniera molto simile a come viene concepita dai cattolici, ma attenzione: non identica. Gli ortodossi credono sì in un solo Dio in tre persone (Padre, Figlio e Spirito Santo), ma per quanto riguarda il rapporto tra Dio e la creazione i loro teologi distinguono fra essenza eterna di Dio ed energie divine. L’essenza divina sarebbe inconoscibile, mentre possono essere conosciute le energie o atti divini. Ora, un conto è dire che il mistero di Dio non potrà mai essere completamente compreso dall’intelligenza delle creature (angelo o uomo che sia), altro è affermare una completa inconoscibilità dell’essenza divina. Ciò infatti può comportare la convinzione secondo cui Dio non sarebbe costitutivamente logos, bensì potrebbe essere concepito volontà pura indipendente da qualsiasi logica. Si tratterebbe, ovviamente, di un effetto del rifiuto del metodo analogico, cioè della possibilità di conoscere la natura di Dio anche attraverso la ragione umana.
Dunque, una tale convinzione (la completa non conoscibilità dell’essenza divina) può portare a delle conseguenze ben precise. Prima fra tutte quella di “separare” (e non solamente “distinguere”) il piano naturale da quello soprannaturale. Ovvero di ritenere il piano naturale giudicato da leggi completamente diverse rispetto all’essenza della realtà soprannaturale. Tanto è vero questo, che l’Ortodossia pone poca attenzione al rapporto tra fede e scienza, rapporto che è invece è sempre stato ed è tuttora importante per il Cattolicesimo. Altra conseguenza è il fenomeno del cesaropapismo, ovvero la sottomissione del potere religioso rispetto a quello politico. È vero che questo fenomeno è legato primariamente alla rinuncia da parte dell’Ortodossia del potere temporale, ma non ne è estranea anche la singolare concezione di Dio di cui abbiamo appena parlato.
Gli ortodossi ritengono che il dogma della processione dello Spirito Santo anche dal Figlio (“Filioque”) non sia contenuto nelle parole del Vangelo o non sia stato accettato dalla fede degli antichi Padri. Al limite, dichiarano di essere disposti ad affermare l’espressione secondo cui lo Spirito Santo procederebbe dal Padre attraverso il Figlio, ma non dal Figlio. Le conseguenze di una convinzione di questo tipo sono molto importanti. Infatti, negare che lo Spirito Santo proceda logicamente dal Figlio, vuol dire negare che l’amore proceda dalla verità. È quella negazione di Dio come logos a cui abbiamo già fatto cenno.
La Vergine Maria
Per quanto riguarda la Vergine Maria, gli ortodossi negano il dogma dell’Immacolata Concezione, affermando che la Vergine sarebbe stata concepita con il peccato originale, ma che poi sarebbe stata purificata al momento del concepimento del Verbo Incarnato.
Si insiste, invece, sul fatto che Maria non commise mai peccato, che rimase sempre vergine e che, ovviamente, è vera Madre di Dio. Si afferma anche che Maria fu assunta in Cielo, ma non se ne fa una verità vincolante.
I sacramenti
Per quanto riguarda i sacramenti, il Cristianesimo ortodosso non ne ha mai definito dogmaticamente il numero. In tempi recenti ha riconosciuto di fatto i sette sacramenti della Chiesa Cattolica ai quali ha aggiunto altri come: la tonsura monastica, la benedizione delle acque, la consacrazione delle icone… Insomma, l’Ortodossia non riconosce una vera differenza tra sacramenti e sacramentali.
Per quanto riguarda il Battesimo, a differenza della Chiesa Cattolica dove questo può essere amministrato anche per infusione, nelle comunità ortodosse esso deve invece essere amministrato per immersione.
Per quanto riguarda la Cresima, il rito ortodosso è esteso a tutto il corpo con una serie di unzioni col crisma benedetto dal vescovo. A differenza del Cattolicesimo, il ministro può anche essere il sacerdote, anche se il crisma deve essere comunque consacrato da un vescovo.
Per quanto riguarda l’Eucaristia, nell’Ortodossia non si utilizza il termine transustanziazione ma trasmutazione. Teologicamente non cambia nulla. L’Eucaristia è celebrata con pane di frumento fermentato e non azimo (questa è una differenza) e vino rosso mescolato con acqua tiepida all’interno del calice. La Comunione è distribuita sempre sotto le due specie. Per riceverla non si esige la capacità di distinguere il pane comune da quello “trasmutato”, infatti la Comunione può essere amministrata anche ai bambini molto piccoli dopo il Battesimo. Altra differenza: mentre i cattolici identificano la transustanziazione con le parole di Cristo all’Ultima Cena, gli ortodossi identificano la trasmutazione con la conclusione del canone eucaristico, ovvero con l’epiclesi o invocazione allo Spirito Santo.
Per quanto riguarda il sacramento della Penitenza, esso è molto simile a quello cattolico. Però nell’Ortodossia ognuno deve confessarsi col proprio “padre spirituale” e senza il confessionale a grata. Alcuni affermano che nell’Ortodossia la Confessione verrebbe vista soprattutto come una sorta di “terapia dell’anima”. Infatti, a differenza di ciò che accade nel Cattolicesimo, il confessore non “assolve” il penitente dai peccati bensì recita una preghiera invocando il perdono divino.
Per quanto riguarda l’Unzione degli infermi, nell’Ortodossia questo sacramento può essere amministrato anche a coloro che soffrono solo spiritualmente e non è stato mai solo riservato agli ultimi momenti della vita.
Per quanto riguarda l’Ordine, anche nell’Ortodossia esso permette la creazione dei ministri della Chiesa, nei tre gradi di vescovo, presbitero e diacono. Solo il vescovo è eletto fra i celibi (specificamente fra i monaci), mentre sacerdoti e diaconi possono essere scelti tanto fra celibi quanto tra sposati, per quest’ultimi però è necessario che non siano in seconde nozze e non si sposino dopo l’ordinazione. I ministri sono eletti solo fra i maschi.
E infine il Matrimonio. Per l’Ortodossia neppure la morte di uno dei due coniugi può sciogliere il vincolo. Solo il vescovo può decidere se ammettere i suoi diocesani a seconde o terze nozze. A questo però si aggiunge qualcosa che va completamente a discapito di questo sacramento: si afferma che, ove sia assolutamente venuto meno l’amore coniugale per adulterio, può ammettersi il divorzio. Si tratta di un permesso causato da una errata interpretazione di Matteo 19, 9: «Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra, commette adulterio». In realtà, Gesù vuol dire che in caso di concubinato la propria moglie si può ripudiare perché non è davvero moglie, mentre gli ortodossi interpretano, sbagliando, concubinato come adulterio e quindi come una possibile eccezione all’indissolubilità del matrimonio.
La negazione del Purgatorio
Gli ortodossi non credono nel Purgatorio, anche se – contraddittoriamente – invitano a pregare per i defunti. In realtà, si afferma che dopo la morte nel suo avvicinamento verso Dio l’anima dovrebbe superare dei punti di blocco, definiti “stazioni di pedaggio”. In questo avvicinamento l’anima incontrerebbe i cosiddetti “demoni dell’aria” e sarebbe da loro giudicata, provata e tentata. Il giusto che ha vissuto santamente la sua vita terrena supererebbe velocemente queste prove senza timore e terrore.
Le varietà
Una differenza importante è tra chiese ortodosse calcedoniane e chiese ortodosse non calcedoniane.
Le prime costituiscono la realtà più comunemente nota con il nome di Ortodossia. Esse sono: gli antichi patriarcati di Gerusalemme, Antiochia, Alessandria e Costantinopoli e diverse altre chiese autocefale. Pur nel rispetto di una forte autonomia, queste “chiese” sono in una forte comunione.
Le seconde (le chiese non calcedoniane) o antico-orientali sono diffuse dall’Armenia fino all’Africa orientale e all’India del Sud. Si tratta di “chiese” che si sono poste al di fuori dell’antico Impero Romano d’Oriente, di cui hanno rifiutato le formulazioni di fede cristologica definite dal Concilio di Calcedonia del 451.
Inoltre va detto che esistono chiese che hanno riti pressoché identici all’Ortodossia, ma che riconoscono l’autorità di Roma. Queste chiese sono dette solitamente uniate, ma i loro fedeli preferiscono definirsi cattolici di rito orientale.
Bisogna convertire gli ortodossi
Purtroppo in non pochi ambienti cattolici si è diffusa la convinzione secondo cui non sarebbe necessario convertire gli ortodossi, perché Ortodossia e Cattolicesimo sarebbero due parti dell’unica Chiesa Corpo Mistico di Cristo.
Prima di vedere quanto errata sia una simile convinzione, ricordo che i santi hanno sempre preteso che gli ortodossi si convertissero al Cattolicesimo. Nestor Caterinovich apparteneva alla Ortodossia russa. Quando incontrò san Pio da Pietrelcina si convertì con tutta la sua famiglia alla fede cattolica e sottolineò sempre la felicità che ne derivò: «Padre Pio – soleva dire commosso ai suoi amici – ha trionfato sul nostro cuore, ma col suo trionfo ha procurato a noi una tale felicità, che non possiamo fare a meno di recarci il più sovente possibile al suo convento, per dimostrargli l’inalterabile riconoscenza dell’animo nostro».
Veniamo adesso a confutare la tesi secondo cui Chiesa Cattolica e Chiesa ortodossa sarebbero due parti di un’unica chiesa. Offriamo alcune citazioni importanti.
- Sant’Ambrogio (339-397) afferma chiaramente: «Ubi ergo Petrus ibi Ecclesia» ovvero: “Perciò dov’è Pietro ivi è la Chiesa.”
- La professione di fede di Michele Paleologo, accettata dagli orientali nel 1274, afferma chiaramente: «la santa Chiesa romana ha anche primato ed autorità sovrana su tutta la Chiesa cattolica (…). Ad essa sono sottomesse tutte le Chiese e i loro prelati le prestano obbedienza e riverenza».
- Nei decreti del Concilio di Firenze (secolo XV), firmati dagli orientali, è scritto: «Definiamo anche che la Santa Sede apostolica e il Pontefice romano posseggono il primato su tutta la terra; che questo pontefice romano è il successore del beato Pietro, il capo degli Apostoli e il vero vicario di Cristo, la testa di tutta la Chiesa, il padre e il dottore di tutti i cristiani; che a lui, nella persona del beato Pietro, è stato affidato da Nostro Signore Gesù Cristo il pieno potere di pascere, reggere e governare tuta la Chiesa, come dicono gli atti dei concili ecumenici e i sacri canoni».
- Il Concilio Vaticano I (1870), nella costituzione Pastor aeternus, afferma: «Affinché l’episcopato fosse uno ed indiviso, affinché, grazie all’unione stretta e reciproca dei Pastori, l’intera moltitudine dei credenti fosse custodita nell’unità della fede e della comunione, Cristo, collocando il beato Pietro a capo degli altri Apostoli, stabilì nella sua persona il principio duraturo e il fondamento visibile di questa duplice unità».
- Leone XIII scrive nella Satis cognitum: «Gesù Cristo non ha affatto concepito ed istituito una Chiesa formata da più comunità, simili per alcuni caratteri generali, ma distinte le une dalle altre e non unite da quei legami che soli possono dare alla Chiesa l’individualità e l’unità che professiamo nel simbolo della fede: “Credo la Chiesa…una”». E ancora: «E dunque proprio di Pietro sorreggere e conservare unita e ferma con indissolubile compagine la Chiesa. Ma come potrebbe egli adempiere questo compito, se non avesse il potere di comandare, vietare, giudicare; in una parola, senza un vero e proprio potere di giurisdizione? Infatti solo in virtù di questo potere si conservano gli Stati e le società. Un primato d’onore o anche quel modesto potere di consigliare ed ammonire, detto potere di direzione, non possono conferire a nessuna società umana un elemento efficace d’unità e di solidità».
- Pio XI è di una chiarezza inequivocabile. Scrive nella Mortalium animos: «Il corpo mistico di Cristo, cioè la Chiesa, è omogeneo e perfettamente articolato, come un corpo fisico; è perciò illogico e ridicolo pretendere che il Corpo Mistico possa essere formato da membra sparse, isolate le une dalle altre; perciò chi non gli è unito non può essere suo membro, né saldato al capo che è Cristo. Nessuno si trova e permane in quest’unica Chiesa di Cristo, se non riconosce ed accetta con ubbidienza l’autorità e il potere di Pietro e de suoi legittimi successori».
Per concludere, pensiamo piuttosto ai tanti martiri della Chiesa uniate, che, pur di rimanere fedeli a Roma, hanno offerto la loro vita. A che pro se essere ortodossi equivale ad essere cattolici? Il grande cardinale Joseph Slipyi, prigioniero per diciotto anni in un gulag, lo ricordò: «I nostri predecessori si sono sforzati per mille anni di conservare il legame con la Sede apostolica romana, e negli anni 1595 e 1596 hanno consolidato l’unione con la Chiesa cattolica romana a certe condizioni che i Papi hanno solennemente promesso di rispettare. Durante quattro secoli, questa unione è stata autenticata da un gran numero di martiri ucraini e ancora oggi questa difesa della santa unione da parte dei nostri fratelli è gloriosamente iscritta negli annali della Chiesa».
Nell’Ortodossia c’è solo una successione apostolica materiale, ma non formale ed essenziale
Certamente non si può negare che nella Chiesa ortodossa vi sia una reale successione apostolica. Ma tale constatazione merita però un approfondimento per evitare delle pericolose semplificazioni.
Cristo ha istituito una Chiesa gerarchica e monarchica fondando un collegio apostolico sotto l’autorità di Pietro. A loro volta gli Apostoli hanno fondato chiese locali. Con il passare dei secoli i successori degli Apostoli hanno ricevuto i poteri per governare quelle chiese.
Questo aspetto materiale della successione dei vescovi non deve però far passare in secondo piano un altro aspetto, ovvero quello formale ed essenziale. Infatti, l’episcopato può essere ricevuto materialmente ma non formalmente se si è separati dalla Chiesa e dal suo capo in Terra, che è il Vescovo di Roma.
Certamente, la sola successione materiale comporta la validità dei sacramenti, ma non esprime la purezza di tale successione.
fonte: ilgiudiziocattolico
Benedetto XVI: cos’è la Tradizione
La Tradizione apostolica… non è una collezione di cose, di parole, come una scatola di cose morte; la Tradizione è il fiume della vita nuova che viene dalle origini, da Cristo fino a noi, e ci coinvolge nella storia di Dio con l’umanità.
Il Concilio Vaticano II ha rilevato, al riguardo, che la Tradizione è apostolica anzitutto nelle sue origini: “Dio, con somma benignità, dispose che quanto egli aveva rivelato per la salvezza di tutte le genti, rimanesse per sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni. Perciò Cristo Signore, nel quale trova compimento tutta la rivelazione del sommo Dio, ordinò agli Apostoli di predicare a tutti, comunicando loro i doni divini, il Vangelo come fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale” [Dei Verbum].
La Chiesa trasmette tutto ciò che è e che crede, lo trasmette nel culto, nella vita, nella dottrina. La Tradizione è dunque il Vangelo vivo, annunciato dagli Apostoli nella sua integrità, in base alla pienezza della loro esperienza unica e irripetibile: per opera loro la fede viene comunicata agli altri, fino a noi, fino alla fine del mondo. La Tradizione, pertanto, è la storia dello Spirito che agisce nella storia della Chiesa attraverso la mediazione degli Apostoli e dei loro successori, in fedele continuità con l’esperienza delle origini. E’ quanto precisa Papa san Clemente Romano verso la fine del I secolo: “Gli Apostoli – egli scrive – ci annunziarono il Vangelo inviati dal Signore Gesù Cristo, Gesù Cristo fu mandato da Dio. Cristo viene dunque da Dio, gli Apostoli da Cristo: entrambi procedono ordinatamente dalla volontà di Dio… I nostri Apostoli vennero a conoscenza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo che sarebbero sorte contese intorno alla funzione episcopale. Perciò, prevedendo perfettamente l’avvenire, stabilirono gli eletti e diedero quindi loro l’ordine, affinché alla loro morte altri uomini provati assumessero il loro servizio”.
Questa catena del servizio continua fino ad oggi, continuerà fino alla fine del mondo. Infatti il mandato conferito da Gesù agli Apostoli è stato da essi trasmesso ai loro successori. L’invio apostolico implica un servizio pastorale (“fate discepole tutte le nazioni…”), liturgico (“battezzandole…”) e profetico (“insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato”), garantito dalla vicinanza del Signore fino alla consumazione del tempo (“ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”). Così, in un modo diverso dagli Apostoli, abbiamo anche noi una vera e personale esperienza della presenza del Signore risorto. Attraverso il ministero apostolico è così Cristo stesso a raggiungere chi è chiamato alla fede. La distanza dei secoli è superata e il Risorto si offre vivo e operante per noi, nell’oggi della Chiesa e del mondo. Questa è la nostra grande gioia. Nel fiume vivo della Tradizione Cristo non è distante duemila anni, ma è realmente presente tra noi e ci dona la Verità, ci dona la luce che ci fa vivere e trovare la strada verso il futuro.
Papa Benedetto XVI, Udienza generale 3 maggio 2006
Castel San Giovanni: S. Messa di Sessagesima
Al Family Day con il Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum!
Facciamo nostro l’appello del Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum a partecipare al Family Day del prossimo 30 gennaio
Il CNSP – Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum aderisce con convinzione al“Family Day” del prossimo 30 gennaio, ed invita tutti i fedeli del Populus Summorum Pontificum ad accorrere numerosi a Roma a difesa della famiglia e per opporsi strenuamente al ddl Cirinnà ed a qualunque altra ipotesi di riconoscimento delle cosiddette unioni civili.
Il CNSP esorta caldamente tutti i fedeli italiani che vivono la loro fede al ritmo della liturgia tradizionale, ad unirsi nella preghiera per supplicare Colui che tutto può concedere, con l’intercessione di Colei che tutto può ottenere, di illuminare e convertire i legislatori nazionali, e preservare la nostra Patria dalla minacciata offesa alla famiglia ed al mirabile disegno di Dio Creatore, che “maschio e femmina li creò” (Gen., 1, 27).
Chi si avvicina alla Messa tradizionale finisce per innamorarsene
Il rito antico della Santa Messa e la purificazione della Chiesa
Il motu proprio (Summorum Pontificum – ndr) del Santo Padre offre quindi la possibilità di beneficiare dei tesori della liturgia antica e ricuperare così il senso del Sacro e del Mistero, che spesso si è perduto, ridando alla liturgia la dignità che le è propria. […] E’ chiaro, quindi l’auspicio del Papa affinché sia recuperato questo tesoro, innanzitutto per il bene della anime, che vi potranno attingere grazie su grazie. Non si tratta semplicisticamente della ‘messa in latino’ dove il celebrante ‘dà le spalle ai fedeli’: stiamo parlando invece di un rito antichissimo, in cui tutti sono rivolti al Signore e dove si gusta e si sperimenta una Presenza silenziosa che parla la lingua del mistero!
Si impara così che la Chiesa non è un ideale stare in cerchio a guardarsi l’uno in faccia all’altro, chiusi in se stessi, bensì è un popolo che, insieme, compatto, guarda al Sole che mai tramonta, all’Oriente da cui solo viene la salvezza. Il bello è che se non hai un messalino per seguirla, puoi uscire dalla messa antica senza aver capito nulla, ma hai scoperto… di aver capito tutto: parli con Qualcuno usando una lingua che non appartiene all’uso quotidiano – una lingua sacra, sperimenti una centralità che non è del prete né dell’assemblea che partecipa, ma di Colui che è Grande e a cui spetta l’Adorazione. Allora vedi che la liturgia non è questione di comprensione intellettuale e linguistica, bensì di adorazione. Se la liturgia non veicola l’incontro verso Dio e perde conseguentemente la sua sacralità, semplicemente fallisce, non serve, diventa un’evasione inutile, una cabala, mero teatro o, come disse ancora una volta il Cardinal Ratzinger, “una danza vuota intorno al vitello d’oro che siamo noi stessi. Celebrare se stessi senza neanche rendersi conto di Lui” (Via Crucis 2005).
La difficoltà di tornare ad apprezzare questo tesoro si capisce facilmente, ed è né più né meno la stessa difficoltà che l’uomo di oggi trova nell’aprirsi al mistero della Redenzione. L’uomo del nostro mondo ama il protagonismo, è assolutamente convinto della propria autosufficienza: egli può tutto, non ha bisogno di nessuno, non ha bisogno di nessuno per essere salvato. Egli si salva da sé, con le proprie forze. Così egli mal tollera un rito in cui gli si chiede di mettere da parte questa superbia e di farsi solo adoratore, in ginocchio, del mistero che gli è donato. Eppure, quello che è successo dopo il Motu Proprio di Benedetto XVI sembra andare in una direzione contraria: chi si avvicina, senza pregiudizi e con cuore aperto, alla Messa tradizionale, finisce per innamorarsene. E la spiegazione è semplice: il Dio che parla nel silenzio non intavola discussioni con la mente dell’uomo, sempre restia ad aprirsi al mistero, ma bussa al Suo cuore, risvegliando la nostalgia del sacro. È proprio per questa sua caratteristica, per questo suo andare direttamente al cuore, che la Messa tridentina attira, e attira molto…[…] soprattutto in un momento in cui la Chiesa ha bisogno di purificarsi e di tornare all’essenziale: preghiera e penitenza, come chiede il Papa, facendo proprio il messaggio della Vergine a La Salette, a Fatima e in molte altre apparizioni del XX secolo. La riscoperta della Messa tradizionale e il suo approfondimento possono aiutare davvero a ‘rimettere ordine’ nel nostro rapporto col sacro, aiutandoci a riconoscere il primato di Dio e dei suoi comandamenti, certi che il Cuore Immacolato di Maria trionferà – secondo il messaggio di Fatima – e che si avvererà il sogno di San Giovanni Bosco, quello in cui egli vide che due colonne salveranno la Chiesa: l’Eucaristia e l’Immacolata!
Luigi Einaudi contro la Messa in volgare
Le parole che seguono sono state vergate da Luigi Einaudi – liberale, primo presidente della Repubblica Italiana – nel 1945 quando ricopriva l’incarico di governatore della Banca d’Italia, in prefazione al volume di monsignor Pietro Barbieri ‘L’ora presente alla luce del Vangelo’.
* * * * *
DISSENTO PROFONDAMENTE da coloro i quali desiderano che le cerimonie religiose siano rese più moderne, che non solo la spiegazione del Vangelo e le prediche si tengano, come già accade, nella lingua del paese; ma che anche la messa sia celebrata in volgare e che in volgare si risponda e si canti ogni qualvolta le regole liturgiche comandano l’uso della lingua latina.
Si dice: tutte le cerimonie religiose della Chiesa cattolica sono manifestazioni di una unità di propositi e di opere, per cui i fedeli, insieme convenuti, rendono testimonianza della loro comunione in Cristo e della volontà di vivere insieme in purezza di pensieri e in letizia di opere buone, ubbidendo agli insegnamenti dell’Uomo-Dio che si è sacrificato per redimere in eterno l’umanità, dal peccato ed innalzarla al cielo.
Se così è, perché nascondere il pensiero divino dietro il sipario di parole incomprensibili alla più parte degli uomini viventi, delle anime semplici, alle quali una lingua, morta da millenni non dice nulla che commuova e trascini?
No.
Quella lingua, nella quale parlavano i pretori, i giudici ed i centurioni del tempo di Cristo non è morta.
Ogni qualvolta entriamo in chiesa ed ascoltiamo le parole sublimi dei mirabili canti intonati dai cori, sentiamo che quelle parole, ripetute le centinaia e le migliaia di volte, sono sentite da chi le pronuncia.
Che importa che il senso tecnico letterale talvolta sfugga; che occorra avere, e non molti l’hanno pronto, il testo dinnanzi agli occhi per comprendere appieno quelle parole?
Ma la stessa cosa accade a tutti coloro i quali non abbiano il raro privilegio di una ferrea memoria, anche per le grandi classiche poesie in ogni lingua, anche per la trama poetica delle bellissime fra le audizioni musicali.
Quel che si cerca, ciò a cui aspira l’anima di chi non entra nel tempio per mera curiosità, è di sentirsi parte del tutto, di perdersi, uno tra i molti, nella comunità di coloro i quali intendono vivere secondo la parola del Cristo.
Ma la comunità dei credenti non è composta dei soli uomini viventi oggi.
Essa vive nelle generazioni che si sono succedute da Cristo in poi.
Ognuna di quelle generazioni ha trasmesso quella parola alle generazioni successive; ed ogni generazione ha sentito quella parola e vi ha creduto perché essa era stata sentita e in essa avevano creduto i suoi avi.
La parola di Cristo è viva in noi non perché essa sia stata scritta sulle pergamene e nei libri stampati.
Sarebbe cosa morta se così fosse.
Ma ognuno di noi l’ha sentita dalle labbra della mamma e della nonna.
Mettiamoli in fila questi uomini e queste donne che in ogni famiglia danno trasmesso oralmente gli uni agli altri i comandamenti divini; amatevi gli uni gli altri, non fate agli altri ciò che non vorreste fosse fatto a te stesso.
Non sono molti: da venti a trenta persone bastano a ricondurre la tradizione trasmessa ad ognuno di noi da un antenato il quale viveva al tempo del Messia.
Ogni uomo ed ogni donna vissuto dopo quel giorno ha fatto parte e fa ancora parte della comunione di coloro i quali hanno creduto e credono nel messaggio di bontà di Gesù; ognuno di essi ha interpretato ed ha sentito quel messaggio attraverso ai suoi bisogni, ai suoi dolori, alle sue aspirazioni.
I canti, i cori e le parole in lingua latina che noi ascoltiamo o leggiamo o pronunciamo in chiesa non sono nostri.
Essi sono il retaggio di sessanta generazioni che ci hanno preceduto; ed il toccarli sarebbe un rompere quella continuità di comunione spirituale che lega i viventi a coloro che sono morti e che sono vissuti, errando e ravvedendosi, nella medesima comunità di uomini vissuti dopo che la parola di Cristo ha trasformato il mondo.
Se mutare le parole dei riti religiosi sarebbe un sacrilegio, fare intendere quelle parole è un dovere.
La spiegazione delle parole scritte nei vangeli, la esposizione, anzi, del significato di ognuno dei riti e dei canti che si leggono nei breviari è il primo dovere del sacerdote; è un dovere interpretato dai sacerdoti nel modo più diverso.
Confesso di apprezzare scarsamente la maniera dotta e quella polemica.
L’uomo semplice e la donna umile, i quali sentono la bellezza delle parole latine dei canti imparati a memoria, anche se ripetuti con qualche errore di grammatica, non comprendono le dispute dottrinali e non si interessano alle polemiche contro i miscredenti siano essi protestanti o liberi pensatori o materialisti.
L’uomo semplice e la donna umile chiedono al sacerdote: dimmi come dobbiamo vivere ogni giorno, come dobbiamo interpretare alla luce del Vangelo gli avvenimenti quotidiani, quale è la legge morale alla quale dobbiamo conformarci, quali, fra i comandi ricevuti dai potenti della terra, da coloro che oggi imperano su di noi e sui nostri fratelli viventi nelle più diverse parti del mondo, siano quelli ai quali dobbiamo ubbidire.
Monsignor Barbieri spiega ogni domenica il Vangelo ai suoi uditori della radio.
Più numerosi di quelli che il sacerdote può ordinariamente accogliere in chiesa; e lo spiega con l’intento di applicare il dettato ai fatti del giorno, alle vicende liete e tristi di questa nostra umanità torturata.
Non sono un ammiratore della radio.
Da molti anni, da quando sullo orizzonte salì la maligna stella del conformismo politico, che è necessariamente altresì conformismo o totalitarismo spirituale morale religioso ed economico, pensai che la radio era un’invenzione del demonio, intento a trovare il mezzo di abbrutire l’uomo.
Noi soffriamo ancora oggi e soffriremo per lunghi anni – e nessuno sa se riusciremo mai più a guarire da quella lebbra ed a riconquistare la libertà di pensare e di vivere – le conseguente della predicazione conformistica che per due decenni imperversò sui bollettini a cui si dava il nome di giornali e sulla radio.
Questa più pestifera di quelli; che la parola parlata, da uomo a uomo, ha virtù persuasiva grandemente più efficace di quella della parola che il vecchio contadino piemontese mi definiva «stampata nel ferro» dei giornali.
Si fa più fatica a leggere la parola trasferita dai piombi della tipografia sulla carta dei giornali che non ad ascoltare ad ogni ora del giorno il verbo pronunciato dall’ordigno vociferante nella stanza dove si vive.
Quella parola entra come uno stillicidio nel cervello dell’ascoltatore ed a poco a poco lo rende incapace di ragionare e lo inebetisce.
Nessuna invenzione è più spaventosamente atta, quando sia maneggiata dallo spirito del male, a rendere l’uomo un numero, un automa. Per nessuna invenzione si deve, perciò, avere altrettanta cura, affinché essa sia adoperata nello spirito del bene.
V’ha opera di bene la quale superi la spiegazione delle parabole, degli apologhi, del Vangelo, il commento dei casi della vita e delle massime di Cristo?
Molti di noi hanno ascoltato alla radio la voce calda efficace commossa di Monsignor Barbieri quando nel mattino della domenica applica gli insegnamenti del Vangelo ai fatti dell’ora presente.
Ogni volta che penso all’istupidimento cagionato all’umanità dalla nuova diabolica invenzione, auguro che si moltiplichino gli annunciatori i quali si sono assunti la missione di ricordare ad essa che le regole della vita sono poche, che esse furono già scritte in alcuni pochissimi libri e che di questi il più grande è il Vangelo.
Luigi Einaudi
FONTE: www.dissensiediscordanze.it/
Aperite mihi portas iustitiae. Haec porta Domini. Introibo in domum tuam, Domine. COME LUCRARE L’INDULGENZA
Durante l’Anno Santo della Misericordia è possibile ottenere l’Indulgenza giubilare recandosi in pellegrinaggio verso la Porta Santa come segno di profonda conversione.
“…L’Indulgenza – ed è qui la sua preziosità – sta nel fatto di poter essere fruitori della misericordia infinita di Dio che va a pulire tutto – come un aspirapolvere divino, se non fosse irriguardoso dire questo – portando via anche tutti i granelli.
Per cui, quando una persona ha ricevuto l’Indulgenza, dopo la Confessione, effettivamente è come dopo il Battesimo: praticamente ricomincia una nuova vita.
Quindi sarebbe da illustrare e soprattutto da aiutare le persone a porsi nelle condizioni per poter ricevere l’Indulgenza.
Perché è chiaro che ci sono le condizioni per l’Indulgenza e cioè la Comunione e la Confessione nell’arco di tempo conveniente, il fatto di pregare secondo le intenzioni del Santo Padre, il fatto di dire un Padre Nostro e un Credo … ma questo è nulla in confronto a ciò che ci viene donato e questo ci deve anche essere perché in qualche modo struttura il modo di riceverla; però, la sostanza è la contrizione del cuore, cioè un atto d’amore perfetto davanti a Dio e per il prossimo.
E questo ci fa ottenere l’Indulgenza.
E quindi, ecco, l’Anno Santo si focalizza su due punti centrali, che sono la Confessione e l’Indulgenza.
D. – La Porta Santa, durante questo Giubileo, è la porta della Misericordia. Ma che cosa significa?
R. – La porta, in una costruzione, in un edificio ecclesiastico, ha sempre una grande importanza simbolica.
Perché? Qui si dovrebbe andare al Vangelo di San Giovanni, al X capitolo, dove Gesù dice di sé: “Io sono la porta. Se uno entra attraverso di me, sarà salvo”.
E il riferimento è al passaggio dallo stato di peccato allo stato di grazia.
Quindi, il Santo Padre indicando la porta indica questa teologia che sta dentro a questa espressione di Gesù.
E’ chiaro che passare una porta non è un fatto “magico”, ma è un segno religioso se io do un contenuto.
Sa, ogni cosa che noi facciamo come gesti, che so, se metto il dito nell’acqua benedetta e mi segno facendo il segno della croce, non compio un gesto magico ma proporzionatamente alla fede che io metto, ricordando l’acqua del Battesimo in cui mi sono inserito in Cristo, allora mi possono venire cancellati i peccati veniali, tanta è la misericordia di Dio che ci viene incontro.
E così “passo la porta”.
Se io vado con fede, mi raccolgo interiormente e penso e dico: voglio passare da uno stadio di vita a un altro stadio di vita; facendomi l’esame di coscienza mi sono ritrovato questa polvere che mi si è attaccata sui vestiti o sulla pelle durante il pellegrinaggio di questo mondo: allora voglio passare a una visione più strettamente legata al Vangelo.
Allora, in questo senso riconosco che Cristo è la mia porta, che Cristo è la mia liberazione e sento quasi echeggiare nell’anima e nell’orecchio quelle parole di Gesù: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo”.
Ecco che allora siamo in sintonia con quello che il Santo Padre ha voluto dirci indicandoci la porta.”
(Dall’intervista al Cardinale Penitenziere Maggiore Card.Mauro Piacenza)
Fonte : Radio Vaticana 08.12.2015