Card. Ranjith: Abbiamo spogliato e ridotto le nostre liturgie ad “azione”: ecco perchè la gente le trova noiose

Così dice e il cardinale e arcivescovo di Colombo Malcolm Ranjith (intervistato dal Timone nel numero di novembre): «Dopo le riforme del Concilio, non a causa dei padri riformatori ma di singoli individui che hanno deciso di prendere in mano la questione e hanno fatto cose piuttosto superficialmente, la Chiesa ha gradualmente perso l’elemento mistico, che riguarda ciò che è nascosto. Ed è questo il motivo per cui oggi la gente trova le nostre liturgie noiose, perché le abbiamo private di simbolismo, per ridurle ad azioni. Ma l’azione non è la cosa più importante. La cosa più importante è l’essere. Non l’azione, il fare, ma l’essere. La liturgia è essere alla presenza di Dio, aperti a Lui e alla lingua non scritta con cui ci parla, una forza che ci trasforma in profondità, anche se non comprendiamo tutto quello che stiamo facendo».

fonte: iltimone.it

Pio IX: «Combattiamo, figli miei, e non abbiamo timore di nulla. I nemici di Dio passano, la Chiesa resta»

Da un discorso del beato Pio IX tenuto nel gennaio 1873, durante la sua “prigionia” in Vaticano.

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«Combattiamo, combattiamo, figliuoli miei, e non abbiamo timore di niente. Ricordatevi che i nemici di Dio spariscono e la Chiesa resta.

Gesù Bambino fugge in Egitto per evitare la rabbia di Erode, ma poi è avvertito di notte per ritornare:defuncti sunt enim qui quaerebant animam pueri, son morti quelli che attentavano alla vita del bambino.

Oh quanti sono i persecutori della Chiesa che sono defunti! e dopo aver sfogato la loro rabbia, dopo aver decimato le anime dei fedeli che servivano a Dio, son morti. E la Chiesa? La Chiesa RIMANE.

Sì, sono morti ma Voi, Diletta sposa di Gesù Cristo, [il Santo Padre nel pronunciare queste parole si commosse in modo tale che le lacrime sgorgavano dai suoi occhi e stringendo insieme le mani in atto pietosissimo, per alquanti secondi apparve assorto in una profonda preghiera: un silenzio profondo nella sala era rotto solo da qualche singhiozzo… poi continuò], Voi, Chiesa formata da Dio, Voi rimanete e rimarrete. Ipsi peribunt, Tu autem permanebis.

E rimanete giovane, forte, costante a fronte delle persecuzioni che vi purgano, vi lavano da ogni macchia, vi rendono più forte e diventate sempre quella Chiesa che a giusto titolo si chiama MILITANTE per combattere costantemente sino alla morte.

Rimanete con l’insegnamento della Verità, rimanete con l’insegnamento della morale, rimanete con l’insegnamento dei sacramenti, rimanete in tanti modo, in tante guise: costoro peribunt sed Tu autem permanebis».

Pio IX

Benedetto XVI: la vera “fede adulta” secondo San Paolo

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“Paolo desidera che i cristiani abbiano una fede “matura”, una “fede adulta”. La parola “fede adulta” negli ultimi decenni è diventata uno slogan diffuso. Ma lo s’intende spesso nel senso dell’atteggiamento di chi non dà più ascolto alla Chiesa e ai suoi Pastori, ma sceglie autonomamente ciò che vuol credere e non credere – una fede “fai da te”, quindi. E lo si presenta come “coraggio” di esprimersi contro il Magistero della Chiesa. In realtà, tuttavia, non ci vuole per questo del coraggio, perché si può sempre essere sicuri del pubblico applauso. Coraggio ci vuole piuttosto per aderire alla fede della Chiesa, anche se questa contraddice lo “schema” del mondo contemporaneo. È questo non-conformismo della fede che Paolo chiama una “fede adulta”. È la fede che egli vuole. Qualifica invece come infantile il correre dietro ai venti e alle correnti del tempo. Così fa parte della fede adulta, ad esempio, impegnarsi per l’inviolabilità della vita umana fin dal primo momento, opponendosi con ciò radicalmente al principio della violenza, proprio anche nella difesa delle creature umane più inermi. Fa parte della fede adulta riconoscere il matrimonio tra un uomo e una donna per tutta la vita come ordinamento del Creatore, ristabilito nuovamente da Cristo. La fede adulta non si lascia trasportare qua e là da qualsiasi corrente. Essa s’oppone ai venti della moda. Sa che questi venti non sono il soffio dello Spirito Santo; sa che lo Spirito di Dio s’esprime e si manifesta nella comunione con Gesù Cristo”.

Benedetto XVI, 28 giugno 2009.

Tracce della ghigliottina hegeliana nella riforma liturgica

di Alessandro Gnocchi
Sancta Missa 232
Nessun grande uomo, diceva Hegel, sfugge al biasimo del cameriere che ne governa le stanze nascoste. Ugualmente, le rivoluzioni e i loro traumi riformatori non si sottraggono al giudizio del robivecchi che ne frequenta il retrobottega in cui giacciono le vestigia del tempo andato e dell’ordine travolto. Per quanto sia nascosto, c’è sempre un luogo in cui l’individuo d’eccezione e l’evento epocale sono costretti a mostrare la propria natura più intima, fosse solo in un dettaglio.
La riforma liturgica operata nella Chiesa cattolica alla fine degli anni Sessanta non sfugge alla ghigliottina hegeliana. Anche quel grande balzo verso il mondo, che si può chiamare rivoluzione considerando l’orientamento del pregare invertito rispetto al passato, ha il suo retrobottega rivelatore. Basta andare per canoniche, conventi e sacrestie in cerca di antichi paramenti rituali per averne la prova. Con un po’ di pazienza e tanta disposizione all’umiltà, in questo tour della memoria liturgica si trovano sempre un sacerdote, una suora, più di frequente un vecchio sacrestano, che scovano pianete, dalmatiche, tunicelle, cotte e berrette, sospirando sui tempi in cui la messa era davvero la messa. Ma anche loro, salvo rare eccezioni, non sono in grado di recuperare il manipolo, quell’esile drappo simile a una piccola stola che il celebrante porta sul braccio sinistro.[1]
Per disegni oscuri, pare quasi si sia voluta cancellare la memoria di questo paramento originato dalla mappula, il fazzoletto di lino che la nobiltà romana portava al braccio sinistro, usato per detergere lacrime e sudore e per dare il segno dell’inizio dei combattimenti nel Circo. “Merear, Domine, portare manipulum fletus et doloris; ut cum exsultatione recipiam mercedem laboris” recita il sacerdote mentre lo indossa durante la vestizione, “O Signore, che io meriti di portare il manipolo del pianto e del dolore, affinché riceva con gioia la mercede del mio lavoro”: e, ancora una volta, ha principio il combattimento contro il mondo e il suo principe, in cui misticamente il sacerdote suda, piange, sanguina e lotta fin sulla croce come alter Christus. Ma serve la dolorosa e virile compenetrazione nel sacrificio, di cui l’esile manipolo è segno e strumento. Là dove, invece, se ne è persa volentieri la memoria per dedicarsi al banchetto festante di una salvezza priva di fatiche non vi è luogo per i segni della battaglia a cui si deve consegnare il proprio corpo.
Lo strazio di padre Pio e della sua carne stigmatizzata, le estasi di San Filippo Neri che affondava i denti nel calice per bere avidamente tutto il suo Signore, le visioni di San Giovanni Crisostomo che assisteva al discendere della folgore sull’altare, e poi tutte le messe fino a quelle del più indegno dei sacerdoti che avesse anche solo un po’ fede nel miracolo della transustanziazione sono sempre state, allo stesso tempo, il cuore e il frutto della battaglia contro il principe di questo mondo.
Impone, Dómine, cápiti meo gáleam salútis, ad expúgnandos diabolicós in cursus”, “Metti, o Signore, sulla mia testa l’elmo della salvezza per vincere gli assalti del demonio” prega il sacerdote quando, preparandosi alla celebrazione, indossa l’amitto, altro indumento che richiama la battaglia e il sacrificio caduto in disuso nella messa riformata. Oggi, nella Chiesa postconciliare, si preferisce parlare per parlare, dialogare per dialogare, conversare amabilmente con il mondo inebriati di un illusorio potere seduttivo della chiacchiera. Non serve più un indumento come l’amitto che, oltre all’elmo del guerriero, simboleggia anche la “castigatio vocis” e bandisce dall’atto di religione ogni parola che non sia rituale e, quindi, inesorabilmente di troppo. Si è persa l’attitudine al rito e, dunque, si è persa l’attitudine al comando, e perciò i sacerdoti hanno rinunciato alla veste talare. “Quando gli uomini vogliono apparire senza fallo solenni” scrive Gilbert Keith Chetserton in “ciò che non va nel mondo” commentando la stupidità delle donne che preferiscono i pantaloni “come nel caso di giudici, sacerdoti e re, allora indossano la gonna, il lungo frusciante abito della dignità femminile. Il mondo intero è retto dalle sottane, poiché persino gli uomini le indossano, quando desiderano governare”.
L’idea del comando e della battaglia, delle armi e dell’armatura dello spirito, sono state dismesse da cristiani che amano farsi cullare dall’accidia, il più perverso dei vizi capitali. Quella trappola mortale che gli antichi padri chiamavano akedia o acedia, si è trasmesso di credente in credente fino a infettare il corpo ecclesiale. Ne è sortito un mal d’essere, un’eresia della forma che prelude agli errori più diversi e persino contrari tra di loro, in estremo sberleffo al virile e guerreggiante principio di non contraddizione. Malata di acedia, la Chiesa ha finito per concepirsi e presentarsi come problema invece che come soluzione dell’intimo male dell’uomo. Anche quando parla del mondo lascia trasparire la consapevolezza della propria inefficacia a indicare una via di salvezza, quasi a scusarsi di averci provato per tanti secoli. Dubita per prima dei propri fondamenti intellettuali e ascetici e, proprio mentre proclama di aprirsi al secolo, si dichiara incapace di conoscerlo, di definirlo e, quindi, di educarlo e convertirlo. Al più, si rende disponibile a interpretarlo.
“L’acedia” scrive San Giovanni Climaco nella “Scala del Paradiso”, e sembra descrivere la Chiesa di questi decenni invece che il singolo monaco prostrato davanti alla fatica della religione, “è abbattimento dell’anima, indebolimento della mente, negligenza dell’ascesi, odio della professione, è ritenere beati coloro che vivono  nel mondo, è calunniatrice di Dio, come privo di compassione e di amore per gli uomini. È atonia nella salmodia, debolezza nella preghiera”. Poi, da vero uomo di Dio, e quindi conoscitore dell’essere umano, l’antico padre mostra quali effetti effimeri e traditori produce l’acedia, malattia talmente subdola da presentarsi come illusorio rimedio a se stessa. È “ferrea nel servizio, attiva nel lavoro, manuale, pronta all’obbedienza. (…) L’accoglienza degli ospiti è un suggerimento dell’acedia, ed essa esorta a compiere lavori manuali per fare elemosine, invita calorosamente a far visita ai malati, ricordando colui che dice: Ero malato e siete venuti da me; esorta ad andare da coloro che sono scoraggiati e d’animo debole dicendo di confortare coloro che sono d’animo debole, proprio come lei è d’animo debole. Mentre ce ne stiamo in preghiera ci fa venire in mente incarichi urgenti e attua ogni stratagemma per trascinarci via di lì con un motivo ragionevole, come con una cavezza, proprio lei che è irragionevole”.
Ciò che, nel VII secolo era ammonimento per le singole membra, oggi vale per l’intero corpo ecclesiale, preda di quella malattia del fare, un po’ tango y corazón, ispirata al movimentismo mediatico e al minimalismo intimista dell’attuale pontificato. Ma non è con il farsi simile al mondo e impalmandone il linguaggio che lo si seduce, non è esaltando il gesto e la parola di cui il rito è “castigatio” che si conquista il secolo: perché il mondo ha innanzi tutto orrore di se stesso e non è secolarizzandosi che il cristiano lo conquista. “Va” dice Mosè il forte, un altro padre del deserto, al monaco accidioso “entra nella tua cella e siediti, e la tua cella ti insegnerà ogni cosa”. E nel saggio sui “Sensi soprannaturali” Cristina Campo scrive: “Non impunemente si pratica la torva omeopatia  che consiglia di curare un mondo perdutamente ammalato di squallore, anonimato, profanità e licenza per mezzo di squallore, anonimato, profanità e licenza”. E ancora: “attendersi che la rigenerazione del profano, la ‘consacrazione del mondo’ possa compiersi altrove che nelle regioni vertiginose, sulle vette del Sinai, è puerile. Mangiare tra amici un pasto simbolico, dove e come fantasia lo detti, in memoria di un filantropo dei tempi antichi è insieme la putrefazione del sacro e la perdita del profano (…). Heschel ricorda che se noi cessiamo di chiamare Dio sui nostri altari li occuperanno ineluttabilmente i demoni”.
Ma l’altare, la grande prova davanti alla quale è chiamato l’uomo nell’atto di religione, è intimamente legato al dogma, la grande prova a cui l’uomo è chiamato nell’atto di intelligenza. Se fallisce una, cade anche l’altra innescando un circolo che si autoalimenta perversamente. Il benedettino dom Prosper Guéranger, scriveva nelle sue “Institutions liturgiques”: “Venne infine Lutero, il quale non disse nulla che i suoi precursori non avessero detto prima di lui, ma pretese di liberare l’uomo nello stesso tempo dalla schiavitù del pensiero rispetto al potere docente e dalla schiavitù del corpo rispetto al potere liturgico”.
Il vizio dell’acedia che ammalia il popolo di Dio facendogli perdere il confine tra ortodossia ed eresia ha le sue radici nel dramma religioso dell’agostiniano tedesco, tradotto in aggressione alla liturgia e alla ragione, all’altare e al dogma, alla lex orandi e alla lex credendi. Nulla di strano, se si tiene conto che l’uomo è un essere razionale perché è un essere liturgico e ha come fine ultimo l’adorazione: come non può eliminare il rito dal proprio orizzonte e dunque deve limitarsi a distrarlo dal legittimo oggetto e pervertirlo, allo stesso modo si rapporta con la ragione e, quando non la santifica, la prostituisce. Gli attacchi al Corpo mistico di Cristo passano sempre attraverso la demolizione della liturgia: il genio eretico di Ario si diffuse grazie a inni religiosi, e quello ortodosso di Sant’Ambrogio lo vinse grazie ad altri inni religiosi.
Connaturali all’essenza liturgica e razionale dell’uomo, l’altare e il dogma sono la prova su cui misurare la salvezza che una creatura non può darsi da sola: chiedono un atto supremo di fiducia poiché velano ciò che ogni essere umano vorrebbe evidente. Questa velatura, considerata odiosa dall’uomo moderno, è frutto dell’incapacità di cogliere naturalmente l’essenziale da parte di chi ha perduto lo stato di Grazia. Da solo, l’uomo non è più in grado di percepire il senso ultimo delle cose e per questo la liturgia, fino a quando non si è arresa al fascino dei lumi, lo ha sempre aiutato rivestendo la materia di significati ulteriori. Attraverso i drappeggi posti sul limitare tra finito e infinito, l’atto di adorazione conduce l’intelligenza a intuire, quanto meno, la bella ragionevolezza del dogma. E il velo diventa il segno visibile della Grazia e di una santità invisibili agli occhi dell’uomo, mostra l’essenza intima delle cose.
Ma serve fede, come dice San Tommaso nel suo sublime inno eucaristico “Adóro te devóte”: Visus, tactus, gustus, in te fállitur,/ Sed audítu solo tuto créditur:/ Credo quidquid díxit Dei Fílius;/ Nil hoc verbo veritátis vérius”, “La vista, il tatto, il gusto, in Te si ingannano/ Ma solo con l’udito si crede con sicurezza:/ Credo tutto ciò che disse il Figlio di Dio,/ Nulla è più vero di questa parola di verità”. Solo in queste regioni così rarefatte, eppure così concrete da poter essere toccate, mangiate, bevute, è possibile trovare il punto archimedico in cui dimora la salvezza, la Croce: follia per il mondo, che considera il cristiano un pazzo destinato a vivere a testa in giù. Eppure, è proprio così, come San Pietro nell’istante supremo della sua crocifissione con la testa rivolta verso il basso, che il seguace della Croce ha in ricompensa la visione meravigliosa e infantile in cui il mondo appare veramente come è: con le stelle simili a fiori e le nubi come colline e tutti gli uomini sospesi nel vuoto alla mercé di Dio.
Una tale visione produce uno sguardo che sgomenta il mondo, tanto da conquistarlo, senza una parola e un gesto mondani. È il balenìo dipinto con devozione perfetta nel San Francesco di Francisco de Zubarán, su cui dominano due occhi spiritualizzati, uno penetrato dalla luce e l’altro immerso nell’ombra, che appartengono a un altro mondo e non vedono altro. E quando si posano sulle cose materiali lo fanno solo per dirne la bellezza velata e inattingibile a occhi profani. L’immagine dell’uomo in piedi, con la testa coperta dal cappuccio, le mani nascoste nelle maniche dell’abito e lo sguardo al cielo dipinta dal pittore spagnolo non rappresenta il santo da vivo, ma il suo corpo incorrotto dopo la morte, come fu trovato nella cripta di Assisi. Abitualmente, il ritrovamento di Francesco viene dipinto come un episodio narrativo. Zubarán, invece, mostra il santo eretto in un eterno istante liturgico, modellato dalla luce e dall’ombra, dalla Grazia e dal velo. Solo il viso, la cui metà è immersa nell’ombra, appare di carne, ma concorre a testimoniare la manifestazione corporea di qualcuno che torna dal mondo dei morti in una epifania priva di note terrifiche, poiché l’anima è colma di serenità soprannaturale e beatitudine.

Anche nell’ultima cappella di campagna, dove il profumo di povero incenso si confonde a quello della cera stantìa, l’ingresso del sacerdote pronto alla celebrazione del sacrificio ha la stessa radice sacra intuita dal visionario spagnolo, fatta di divino che irrompe nel tempo. “Introibo ad altáre Dei. Ad Deum qui laetificat juventútem meam”, e mentre si accosta all’altare di Dio, al Dio che letifica la sua giovinezza, il sacerdote, se anche non può rivestirsi della gloria dipinta da Zubarán, parla a ogni a creatura dell’universo velandosi con i segni che portano le vestigia della gloria. E diventa davvero lietamente giovane, che sia indegno peccatore, come racconta Graham Greene nel “Potere e la gloria”, o che sia martire, come racconta Robert Hugh Benson, in “Con quale autorità”.
“Uno dei servi, accortosi, accortosi che non aveva la forza di indossare da solo le vesti sacerdotali” narra Benson descrivendo la messa di un sacerdote torturato dai carnefici anglicani “gli pose intorno al collo l’amitto; poi gli mise il camice raccogliendolo intorno ai fianchi col cingolo; gli dette la stola da baciare, gli adattò il manipolo al braccio sinistro e per ultimo lo coprì con la rossa pianeta e il prete fu di nuovo, come la domenica precedente, in rossi paramenti; ma ahimè, quanto cambiato! Quindi il servo gli si inginocchiò accanto e il sacerdote incominciò a recitare le preghiere che servono di preparazione all’atto più grande della religione; accostatosi poi all’altare, si inchinò lentamente, lo baciò e la Messa ebbe principio”.
[Fonte il Foglio, 10 aprile 2014]
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Note
1. Il manipolo è un paramento liturgico ormai adoperato soltanto nelle celebrazioni della Santa Messa secondo la forma straordinaria del Rito Romano. Si dice derivi da un fazzoletto (mappula) portato dai romani annodato al braccio sinistro. Poiché la mappula si utilizzava per detergere il viso da lacrime e sudore, gli scrittori ecclesiastici medievali hanno assegnato al manipolo il simbolismo delle fatiche del sacerdozio. Esso tuttavia ricorda anche l’asciugamano che cingeva il braccio del sacerdote ebreo durante il sacrificio.
Si ricorda anche il doppio senso della parola manipulum (che indica i fasci di grano di chi miete). Così infatti la Vulgata rende il Salmo 125,5-6: «Qui seminant in lacrimis in exultatione metent; euntes ibant et flebant portantes semina sua, venientes autem venient in exultatione portantes manipulos suos» (corsivo nostro).
Era consegnato nel conferimento del suddiaconato con l’eloquente formula, recitata dal sacerdote durante la vestizione: « Merear, Domine, portare manipulum fletus et doloris: ut cum exultatione recipiam mercedem laboris.» « Che io sia degno, o Signore, di portare il manipolo di pianto e dolore: così con orgoglio raccoglierò la mercede del lavoro. » e mantenuto in tutti gli altri gradi del Sacramento dell’Ordine (diaconato, presbiterato, episcopato).
L’abolizione degli Ordini Minori (trasformati in ministeri laicali) dalla Ministeria Quaedam di Paolo V non lo nomina. Tuttavia il suo uso è stato reso facoltativo dal 1967 dall’Istruzione Tres abhinc annos. Anche il Novus Ordo non ne fa cenno e il suo uso può essere considerato facoltativo ma di fatto, nella liturgia riformata, è stato abbandonato. [Maria Guarini, “La questione Liturgica. Il Rito Romano usus antiquior e il Novus Ordo Missae a 50 anni dal Concilio Vaticano II”, in corso di riedizione]. Da notare che nella liturgia riformata il servizio all’Altare sostituito dalla tavola non è più previsto. Chi volesse approfondire cosa ho scritto su questo e sue implicazioni può farlo [qui]. Riporto solo un punto essenziale, per sapere cosa si perde. Secondo la Tradizione della Chiesa:
1. l’episcopato si identifica nel sacerdozio di Melchisedech (Sommo ed eterno Sacerdozio di Cristo) e ricorda quello di Aronne
2. i sacerdoti – presbiteri (anziani) (come i 72 mandati da Gesù) sono come i 70 anziani (i cohanim ebraico=cohen è “colui che sta in piedi” davanti e alla guida dell’Assemblea); gli ordini maggiori o sacri sono: suddiacono, diacono, sacerdote
3. tutti gli altri ordini minori (accolito, esorcista, lettore, portiere) si identificano con i leviti, e cioè gli aggiunti, gli aiutanti

Populus Summorum Pontificum: l’omelia del card. Burke

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MISSA DE SANCTA MARIA IN SABBATO, SALVE SANCTA PARENS COETUS INTERNATIONALIS PRO “SUMMORUM PONTIFICUM” BASILICA SANCTI PETRI IN VATICANO XXV OCTOBRIS MMXIV

Sia lodato Gesù Cristo!

Siete partiti dalle vostre case e dalla vostra attività ordinaria per venire in pellegrinaggio ad un luogo straordinario, la Sede di Pietro, ispirati dalla gratitudine al Signore per il dono più bello che ci dà nella Chiesa, qual è la Sacra Liturgia. È il Successore di San Pietro che ha la responsabilità di salvaguardare e promuovere questo dono per il gregge del Signore disperso in tutto il mondo. Ringraziate il Signore, in modo particolare, per la bellezza perenne della tradizionale forma dei riti liturgici della Chiesa latina, della “ricchezza della Liturgia Romana” che Papa Benedetto XVI, con la Lettera Apostolica “Summorum Pontificum”, data motu proprio il 7 luglio 2007, “ha reso più accessibile alla Chiesa universale” (1). Con la Messa Pontificale, secondo la Forma Straordinaria del Rito Romano, celebrata in questa magnifica basilica eretta sopra la tomba di San Pietro, il vostro pellegrinaggio raggiunge il suo culmine. Facendo memoria di San Pietro e implorando la sua intercessione, onoriamo la particolare cura animarum dei suoi Successori, espressa nel modo più alto e pieno nella custodia e nella promozione della Sacra Liturgia. Così Papa Benedetto XVI nella Lettera Apostolica Summorum Pontificum ci ha ricordato: “I Sommi Pontifici fino ai nostri giorni ebbero costantemente cura che la Chiesa di Cristo offrisse alla Divina Maestà un culto degno, ‘a lode e gloria del suo nome’ ed ‘ad utilità di tutta la sua Santa Chiesa’.” (2) Nella stessa Lettera Apostolica Papa Benedetto XVI ha sottolineato, in modo particolare, l’eccezionale cura della Sacra Liturgia da parte dei Papi San Gregorio Magno, San Pio V e San Giovanni Paolo II. Per parte nostra, ricordiamo oggi il contributo, in continuità con questi grandi Pontefici, di Papa Benedetto XVI nella salvaguardia e nella promozione della Sacra Liturgia quale espressione più perfetta e più alta della nostra vita in Cristo nella Sua Santa Chiesa. Celebriamo la Messa votiva di Santa Maria in sabbato, consci che la Madre di Dio sempre ci accompagna nel nostro pellegrinaggio. Con tanto amore materno la Madonna ci ha accompagnato fino a questo tempio sacro per mostrarci la natura straordinaria della nostra vita ordinaria perché è vissuta in Cristo per l’inabitazione dello Spirito Santo nelle nostre anime. Con amore materno ha voluto rispondere alla nostra devozione, conducendoci all’incontro del tutto straordinario con il Suo Figlio divino nella comunione con il Suo Corpo, Sangue, Anima e Divinità. La Santa Comunione è il vero e insostituibile cibo del nostro pellegrinaggio terreno fino alla mèta della vita eterna alla presenza di Dio – Padre, Figlio e Spirito Santo – , in comunione con gli angeli e tutti i santi. In ogni sacro pellegrinaggio scopriamo la nostra profonda identità quali pellegrini e anticipiamo il compimento del nostro pellegrinaggio al Banchetto Nuziale dell’Agnello. (3) Il Signore ha concesso che Sua Madre, come la Divina Sapienza lodata nel Libro del Siracide, dimori in ogni luogo sacro, unito a Gerusalemme, la “città che [il Signore] ama” (4), per servire “davanti a lui” dispensando le Sue molteplici grazie di verità e luce ai pellegrini (5). In questo luogo santo, seguendo l’esempio della Madre di Dio e implorando la Sua intercessione, scopriamo di nuovo che la nostra vera “porzione” e “eredità” è il Signore vivo per noi nella Chiesa e che la nostra dimora permanente è “in mezzo a un popolo santo”, la dimora della piena assemblea dei santi. (6) In pellegrinaggio per celebrare il grande dono della Sacra Liturgia, comprendiamo sempre meglio il senso profondo delle parole del Signore nel Vangelo. Quando “una donna dalla folla” ascoltando il Suo insegnamento “alzò la voce” per lodare la Sua Madre, “il grembo che [Lo] ha portato e il seno che [Lo] ha allattato”, il Signore segnalava la vera fonte della beatitudine della Sua Madre, cioè, la Sua perfetta obbedienza alla Legge di Dio, per la quale era preparata ad essere la Sua Madre. Il Signore dichiarò: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano” (7). In questo nostro pellegrinaggio, la Madre di Dio ci invita ad imitare la Sua obbedienza, cosicché il Signore possa purificare i nostri cuori da ogni affetto disordinato che ci condurrebbe al peccato e alla morte e, allo stesso tempo, infiammare i nostri cuori con l’amore della Sua Legge che ci conduce alla vita virtuosa e alla vita eterna. Pellegrini in compagnia della gran Madre di Dio, preghiamo, per la Sua intercessione, di ottenere la grazia di imitarLa, offrendo i nostri cuori totalmente a Cristo, specialmente con la nostra fedele partecipazione nella Sacra Liturgia, fonte della sapienza e della forza divina delle quali abbiamo bisogno per seguire Cristo con tutto il cuore. Ponendo il nostro cuore, unito al Cuore Immacolato di Maria, nel Sacratissimo Cuore di Gesù tramite il nostro culto a Dio Padre, offriamo a Dio l’amore puro e disinteressato con il quale Egli per primo ci ha amato. Riconosciamo la nostra vera “eredità” nel Cuore di Gesù e rimaniamo saldi lungo la via che ci conduce alla nostra dimora eterna “in mezzo a un popolo glorioso” (8), nella piena assemblea dei santi al Banchetto Nuziale dell’Agnello. Leviamo adesso i nostri cuori, con il Cuore Immacolato di Maria, al glorioso trapassato Cuore di Gesù. Uniti nel Cuore di Gesù, uniamoci con Lui nel Sacrificio Eucaristico che ora Egli offre. Istruiti alla Scuola di Maria, nostra Madre, offriamo con Cristo la nostra vita totalmente a Dio Padre con amore puro e disinteressato. Preghiamo che, tramite il nostro odierno pellegrinaggio, la Madonna ci aiuti a rispondere ogni giorno di nuovo all’invito di Gesù di dare sempre a Lui il nostro cuore e di arrivare, con Lui, alla nostra eterna dimora in Cielo. Cuore di Gesù, casa di Dio e porta del cielo, abbi pietà di noi. O Maria Immacolata, Madre della Grazia Divina, prega per noi. San Pietro, Principe degli Apostoli, prega per noi.

Raymond Leo Card. BURKE

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1) “Universae Ecclesiae … Romanae Liturgiae divitias reddiderunt propiores”. Pontificia Commissio Ecclesia Dei, Instructio Universae Ecclesiae, “Ad exsequendas Litteras Apostolicas Summorum Pontificum a S.S. Benedicto PP. XVI Motu Proprio datas”, 30 Aprilis 2011, Acta Apostolicae Sedis 103 (2011), 413, n. 1. Versione italiana: Pontificia Commissione Ecclesia Dei, Istruzione sull’applicazione della Lettera Apostolica motu proprio data Summorum Pontificum di S.S. Benedetto PP. XVI (Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 2011), p. 3, n. 1.
2) “Summorum Pontificum cura ad hoc tempus usque semper fuit, ut Christi Ecclesia Divinae Maiestati cultum dignum offerret, «ad laudem et gloriam nominis Sui» et «ad utilitatem totius Ecclesiae Suae sanctae». Benedictus PP. XVI, Epistula Summorum Pontificum, “De usu extraordinario antiquae formae Ritus Romani”, 7 Iulii 2007, Acta Apostolicae Sedis 99 (2007), 777. Versione italiana: Benedetto XVI, Lettera Apostolica «Motu Proprio data» Summorum Pontificum sull’uso della Liturgia Romana anteriore alla Riforma del 1970 (Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 2007), p. 3.
3) Cf. Ap 19, 7. 4) Sir 24, 11. 5) Sir 24, 14-15. 6) Sir 24, 16. 7) Lc 11, 27-28. 8) Sir 24, 16.

Sacerdos in aeternum: Mi spezzo ma non mi piego

Sancta Missa 76
di don Alfredo Maria Morselli
Bravo don Morselli” – dirà qualche mio affezionato lettore, leggendo il titolo di questo articolo – “gli avranno impedito di celebrare in latino, oppure gli avranno imposto le chitarre, ma lui ha tenuto duro e ha proseguito imperterrito…”
 Ecco che vengono a galla i legami tra il tradizionalismo e l’estrema destra… questi sono tutti fascisti…” – dirà invece qualche lurker progressista, spiritualmente resuscitato dopo la rinuncia di Benedetto XVI, venuto qui a curiosare rosicando, tra una speranza e l’altra che Francesco abolisca il motu proprio
Niente di tutto questo, semplicemente non mi piego, anzi, non solo non mi piego, ma non cammino quasi più, a motivo di un’artrosi particolarmente fetente – come direbbero al sud – che non mi lascia un osso libero.
In questi ultimi due anni i medici mi hanno rivoltato come un calzino, esaminato in utroque iure, e si sono rassegnati a una terapia palliativa.
Circa due anni fa ho cominciato rinunciando alle genuflessioni, ma celebravo ancora in piedi: offrivo tra le lacrime la rinuncia alla più bella e santa tra le pur tutte sante e benedette rubriche, che difendono il povero fedele dal libidinoso ad libitum del prete: libidinoso talvolta di arrampicarsi sugli specchi di una verbosità vuota quanto ampia, pur di non dire un semplice “Il Signore sia con voi“… Ma torniamo alla mia rubrica preferita: immediatamente dopo la consacrazione, il sacerdote statim… genuflexus… adorat.
Il Signore mi stava chiedendo, impedendomelo fisicamente, di rinunciare a quella rubrica che segna l’aut aut tra due modi di concepire la liturgia. “Fedeli, ho obbligato Dio a scendere dal Cielo e a nascondersi nell’Ostia, adoriamolo subito… come indugiare…, perché aspettare…”
 Quanto mi costava questa rinuncia!
Poi, dopo le caviglie e le ginocchia, è venuta la zona lombo sacrale, e di lì, come raggi dal sole, dolori ovunque, affezionatissimi, talmente amici che non mi lasciano un istante.
È così ho cominciato a celebrare da seduto, con la mia fedele perpetua Argentina che mi spostava il messale, ed era l’unica che mi aiutava all’altare senza farmi male; e alla fine, il 4 ottobre, I sabato del Mese – lo stesso giorno 34 anni fa in cui partii per il seminario – ho celebrato l’ultima Messa a Stiatico, non permettendomi la salute di reggere ancora la parrocchia.
Mentre facevo il ringraziamento, mi sono immaginato un colloquio con Nostro Signore, un colloquio alla don Camillo; avendo mangiato io in vita troppi tortellini, non potrò mai elevarmi alla mistica vera. “Signore, come mi avete ridotto, io che saltavo i fossi per la lunga, come potrò servirvi adesso che non sarò più neanche parroco…”
Al che, si fa sentire un doloretto alla schiena, ben distinguibile dal background solito.  
“Perché, Signore, che cosa ho detto di male?” 
Non ti ricordi le parole che hai rivolto al papà di quella suora di clausura, Suor ****?”
Gli ho detto che sua figlia potrebbe essere più utile alla Chiesa di mille missionari, perché con la preghiera sarebbe arrivata dappertutto, mentre un missionario non può andare in più di un posto alla volta
E allora, tu prega e vedrai che farai più danni che se fossi solo a Stiatico
Danni al nemico, intendete, vero?
Nessuna risposta.
Allora ho proseguito: “Signore, ma perché questi dolori sono venuti proprio a me, non potevate farli venire a quei cinghiali – parole Vostre – che devastano la vostra vigna – che so, Enzo Bianchi, il Cardinale Kasper… siamo in così pochi noi tradizionalisti…”
Non avevo ancora finito di parlare che una terribile fitta mi fece vedere le stelle…
Ma Signore, dicevo per il loro bene spirituale, naturalmente, voglio che siano santi anche loro…”
Altra stoccata allucinante… “Signore, con Voi non vale, Voi scrutate cuore e reni, è una lotta impari” “Coraggio, don Alfredo, anche il Re David, che – non ti offendere – ti sta molto sopra, una volta si è lamentato con me, dicendomi che per poco non vacillavano i suoi passi al vedere l’empio ergersi come cedro…
“E cosa gli avete risposto?”
Leggi il breviario tutti i giorni e non lo sai…?”
Visto che sono molto sotto il Vostro caro Re David, non potreste supplire con una ripetizione, come per gli studenti rimandati?
Alfredo, non sai che, nelle complesse vicende umane, io vedo anche l’ultima puntata? 
Quando mi hanno crocifisso, chi dei presenti, a parte la nostra Madre (quando ha detto “nostra Madre”, il tono era diverso, dolce e solenne nello stesso tempo), chi poteva prevederne i frutti? 
E quando Longino mi colpì con disprezzo il Cuore, chi poteva prevederne l’esito? 
Vedi, il diavolo è come quel poveretto che ha cercato di rovinare la Pietà di Michelangelo; solo che, se sopportate i suoi colpi nella fede, anziché rovinarvi vi rende più belli; più picchia forte più scolpisce in voi la mia immagine: lui lo sa, ma il suo odio gli impedisce di trattenersi
A quel punto non mi sono trattenuto e l’ho sparata grossa: “Signore, volete forse dire che avete pronta la soluzione Luciani?
Mi aspettavo come minimo un infarto, ma niente: chiusura della comunicazione, nonostante ripetuti atti di contrizione.
E così, veramente con la coda tra le gambe, ho completato i preparativi per la triste partenza. Stamattina ho celebrato la prima Messa nella mia nuova destinazione, un santuarietto – dove sono solo ospite – attiguo alla casa di riposo che mi funge da base d’appoggio.
Non sono riuscito a celebrare sull’Altare, perché la predella era troppo piccola per la sedia; e così ho sistemato la tavola calda (cito Guareschi) davanti all’altare della Madonna del Rosario.
Dopo l’ultima sparata, giustamente, avevo perso la comunicazione con il piano di sopra.
Ho celebrato dunque sulla tavola, guardando però la Madonna.
Alla fine, dopo il Magnificat di ringraziamento, risento la voce della Madre santissima: “Don Alfredo, grazie: erano più di cinquant’anni che non sentivo più la Messa di sempre, e che quest’altare è rimasto inutilizzato; hai celebrato sulla tavola, ma è come se avessi celebrato al mio altare
Madre, avete detto Messa di sempre, allora Voi siete… dei nostri
Nella mia fantasia, mi sono immaginato che la cara Regina del Santissimo Rosario strizzasse l’occhio.
E così ho potuto concludere il ringraziamento: “Grazie, Madre Santa; ma sarà meglio che non lo dica a nessuno, se no Vi mandano il commissario
fonte: messainlatino.it