Pellegrinaggio a Roma: la conferenza stampa del COETUS INTERNATIONALIS SUMMORUM PONTIFICUM

Conferenza Stampa del Coetus Internationalis Summorum Pontificum

Roma, 10 settembre 2012, Ss.ma Trinità dei Pellegrini

Intervento di don Claude Barthe, cappellano del Pellegrinaggio

Il pellegrinaggio Summorum Pontificum di Ognissanti 2012, all’inizio dell’Anno della fede, che culminerà in una Messa nella Basilica Vaticana, ha un quadruplice scopo:

1°. Sarà un rendimento di grazie. I pellegrini offriranno innanzi tutto una messa nella forma straordinaria di ringraziamento e di sostegno filiale al Santo Padre in occasione del 5° anniversario del Motu Proprio Summorum Pontificum, che, come è noto, è entrato in vigore il 14 settembre 2007. Per moltissimi sacerdoti, diocesani e religiosi, che ormai celebrano la loro messa quotidiana nella forma straordinaria, è un beneficio spirituale davvero immenso, come pure per i fedeli di quelle parrocchie – sfortunatamente ancora troppo rare – che possono così godere di questa liturgia e della sua mistica. Si può dire che questo atto di Benedetto XVI ha fatto nascere un vero popolo Summorum Pontificum. Questo popolo vuole ringraziarlo di tutto ciò.

2°. Sarà una dimostrazione di fedeltà a Pietro. Il secondo scopo è manifestare in questo modo il nostro amore per la Chiesa e la nostra fedeltà alla Sede di Pietro, particolarmente nell’attuale amara e difficile congiuntura. Siamo ben consapevoli che le fatiche che oggi affronta il Santo Padre sono pesanti. La messa romana tradizionale, in particolare nel Canone, è sempre stata considerata di per sé stessa una magnifica professione di fede della Chiesa Mater et Magistra: è questo credo liturgico che vorremmo esprimere sulla Tomba degli Apostoli, presso il Successore di Pietro.

3°. Sarà un’offerta e una supplica. Vogliamo fare questo particolare dono al Signore soprattutto per domandarGli le grazie necessarie al Sovrano Pontefice per proseguire nell’opera meravigliosa che egli compie sin dall’inizio del suo pontificato, e, specialmente oggi, in mezzo a croci e prove.

4°. Infine, sarà un’espressione di partecipazione alla missione della Chiesa. Vorremmo apportare alla nuova evangelizzazione che il Santo Padre intende promuovere con l’Anno della Fede il contributo della sempre giovane liturgia tradizionale. È ben chiaro che essa è il sostegno di un gran numero di famiglie cosi come di tante organizzazioni e iniziative cattoliche, specialmente rivolte ai giovani (oratori, scuole, corsi di catechismo) e che è fonte di vocazioni religiose e sacerdotali in costante crescita, cosa che oggi, nel mondo occidentale, si rivela estremamente preziosa.

Mi sembra che occorra insistere su quest’ultimo punto. Per grazia di Dio, in certi paesi come la Francia e gli Stati Uniti – ma il fenomeno potrebbe estendersi – la liturgia tradizionale, purtroppo senza colmare tutti i vuoti, conserva una crescita vocazionale importante. In Francia, per esempio, a fronte di 710 seminaristi diocesani, ci sono 140 seminaristi francesi (di cui 50 della FSSPX) in seminari dedicati alla forma straordinaria, vale a dire il 16%. Questo rapporto si ritrova nel numero delle ordinazioni: quest’anno 21 novelli sacerdoti straordinari contro 97 diocesani. Inoltre, la configurazione spirituale di questo nuovo clero diocesano è in piena mutazione: i giovani preti delle diocesi e i seminaristi diocesani sono attratti dalla celebrazione delle due forme del rito e lo dicono espressamente (in Francia, non è esagerato sostenere che almeno un terzo dei candidati al sacerdozio diocesano possa essere considerato come Summorum Pontificum).

È proprio questo che vorremmo esprimere religiosamente con il pellegrinaggio e la Messa a San Pietro del 3 novembre: quello che si può chiamare il popolo Summorum Pontificum, il popolino (le petit peuple) come si dice in francese per indicare la gente comune, è oggi a disposizione del Santo Padre per la missione della Chiesa.

contatto: barthe.cisp@mail.com

Pellegrinaggio a Roma: parla il Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum

Intervista ad Emanuele Fiocchi del Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum

1- Qual è il ruolo del CNSP nel pellegrinaggio del 3 novembre a Roma?
CNSP: Il “Coordinamento nazionale del Summorum Pontificum” è solo uno dei promotori dell’iniziativa, la quale va ben oltre i confini nazionali ed ha un respiro davvero “cattolico”. Al nostro fianco sono scesi in campo organizzazioni di assoluto prestigio come la Fedezione Internazionale “Una Voce”, la Federazione Internazionale dei giovani di “Juventutem” e la grande “Notre-Dame-de-Chrétienté” di Versailles che organizza il pellegrinaggio a Chartres con migliaia di fedeli ogni anno.

2- Le opinioni contro il Coordinamento a cosa si devono?
CNSP: Credo ad una interpretazione parziale dello spirito con cui il Coordinamento è stato concepito. Il Coordinamento nasce per coordinare quei gruppi di fedeli che si ritrovano nell’interpretrazione “benedettiana” della questione liturgica ereditata dall’ultima riforma. Una questione da riaprire con carità, coraggio e pazienza sotto la guida di questo Papa.
L’unione che gli aderenti cercano nel Coordinamento è per far la loro piccola parte in questo nuovo e profondo movimento liturgico che è in atto nella Chiesa. Ora, tener viva la fiamma della liturgia nella forma straordinaria davanti ai quei fratelli che non capiscono questa scelta e non la condividono – quando proprio non la ostacolano, cioè spessissimo – è la nostra personale testimonianza di fede, il nostro contributo a questo movimento.

3- Perché questa scelta, diciamolo pure, difficile e controcorrente?
CNSP: Perché scegliere di celebrare in rito antico è un martirio bianco che risponde alla grande domanda del Papa.

4- Quale domanda?
CNSP: “La crisi della Chiesa nasce dalla liturgia”.

5- Ma questa non è una domanda, fu una affermazione di Benedetto XVI!
CNSP: Certo, ma rimase una frase sospesa nel vuoto, molti la derubricarono a semplice provocazione, perchè sottintendeva un pragmatico “quindi adesso che facciamo?” che spaventava. In realtà il Papa ha posto una domanda teologica fondamentale che picchia in testa ad ogni Vescovo, ad ogni prete e ad ogni laico ogni giorno: se l’Eucarestia, nella liturgia, genera la Chiesa allora perché certa parte di Chiesa trascura liturgia ed Eucarestia?

6- Già, perché?
CNSP: Forse perché quella non è più Chiesa, ma un’altra cosa: una specie di mutazione genetica della fede, che ha mantenuto il nome di “cattolica” ma dopo anni di brage trascurate ha spento il fuoco dello Spirito e celebra altro.

7- E perché quella parte di Chiesa ce l’ha tanto con il rito antico?
CNSP: Perché quella cosa mutante che s’aggira nella Chiesa Cattolica digrigna i denti contro la splendente luce di milleseicento anni di sacri riti e sante preghiere, come un demonio contro un esorcismo. La liturgia cattolica celebra una Presenza e quando celebra questa Presenza con la “devotio”, ovvero con quella pia virtù di cui molte liturgie sono prive, irrita a morte il Nemico, perché vede che l’uomo riconosce con onore e decoro la Maestà del suo vero Dio. Il rito antico favorisce in maniera certissima – per la postura, la teologia e la sacralità di cui è intriso – questa sacra devozione e qualcuno proprio non lo sopporta.

8- E quindi?
CNSP: E quindi la forma straordinaria della Sacra Liturgia, laddove viene celebrata, diventa la pietra di scandalo che rivela il pensiero di molti. Un pensiero per niente cattolico, mi creda.

9- Ma la Messa di Paolo VI, che viene chiamata ora “forma ordinaria” della liturgia, non bastava?
CNSP: Quella è la forma ordinaria, appunto. Eppure secondo il Papa era necessario riaccendere anche l’altra fiamma, quella delle radici da cui proveniamo, perché era stata quasi spenta e nemmeno il beato Giovanni Paolo II era riuscito a riaccenderla con la Quattuor abhinc annos e l’Ecclesia Dei adflicta, a causa delle ostilità di molti vescovi. Ecco, allora, che Benedetto XVI ha donato alla Chiesa il Summorum Pontificum, un documento che dona d’autorità il diritto universale e permanente a celebrare anche secondo la forma antica. Noi ci appelliamo a questo diritto e lo difendiamo per tenere accesa quella fiamma.

10- Ma questo non crea divisioni tra i fedeli? In fondo anche nelle critiche al Coordinamento c’è l’accusa di voler dividere il tradizionalismo tra posizioni “concilianti” e posizioni “puriste”…
CNSP: Come mi dice sempre un carissimo amico: il pensiero del Papa è chiaro, chi la pensa come il Papa sia il benvenuto.
Nella Chiesa, se si presta fede al Magistero di Benedetto XVI – soprattutto quello liturgico –, queste divisioni non dovrebbero sussistere: ciò che è sempre stato continua a valere anche oggi. Ciò che si fa oggi, invece, potrebbe non essersi sempre fatto, pertanto “nihil innovetur nisi in Traditione”…
Eventuali divisioni, invece, del cosiddetto “tradizionalismo” (che, detto per inciso, credo non dispiacciano affatto a qualcuno), non saranno certo provocate dal Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum. Questa è una iniziativa che non pretende né di dare patenti di cattolicità, né di comandare sui gruppi stabili che celebrano il rito antico, né di imporre loro alcun “pensiero unico”. Per due semplicissimi motivi.
Primo, perché – e lo diciamo espressamente – non siamo un’associazione con delle tessere o dei capi. Abbiamo una struttura ultraleggera, fatta al massimo di alcuni portavoce e moderatori; ci basiamo su una libera e spontanea partecipazione dei gruppi stabili; proponiamo lavori e progetti che il Coordinamento sviluppa su input dei gruppi stessi. Per questo, pur augurandoci di crescere, – già oggi abbiamo una rappresentanza in tutte le regioni italiane – non abbiamo pretese di esclusività, e siamo pronti ad affiancarci ad ogni realtà che sia sulla nostra stessa lunghezza d’onda, come avviene – per fare un esempio – con il Coordinamento Toscano Benedetto XVI.
Secondo motivo: i nostri contenuti sono quelli espressi da Benedetto XVI nel Summorum Pontificum e nel suo Magistero, noi lavoriamo su quello, e ci confrontiamo strenuamente con gli oppositori della liturgia tradizionale. E’ per questo che proponiamo agli aderenti la condivisione di un patto di punti in comune che si richiama pressoché testualmente al Summorum Pontificum e alla Universae Ecclesiae. La nostra unione non vuol far la nostra forza, ma la forza del Papa.

11- Non c’è il rischio di costruire l’ennesima sovrastruttura?
CNSP: No, perchè il nostro scopo è pratico e non ideologico. Il coetus fidelium è e rimane l’unità di misura del Summorum Pontificum: solo il coetus, infatti, può “chiedere una Messa” o appellarsi alla Pontificia Commissione Ecclesia Dei. Noi come Coordinamento regionale e nazionale affianchiamo, consigliamo, uniamo gli sforzi, soprattutto quando il coetus incontra difficoltà od opposizioni, ma nulla più.

12- E chi vi accusa di edulcorare la liturgia antica, di favorire le contaminazioni tra i riti?
CNSP: Una grande falsità nata da un grande equivoco. Il Coordinamento è costruito sul testo del Summorum Pontificum così come esso è stato impostato: possono non star bene certi termini o certe scelte, ma il documento papale è quello. Un solo rito, due forme separate. Da nessuna parte si parla di sperimentare sulla pelle del rito antico, riabilitare messali del ’65 o legittimare contaminazioni casalinghe tra vecchio e nuovo. Potrei affermare, in concreto, che l’idea del Coordinamento è nata anche dalla necessità di alcuni gruppi di resistere a pressioni che invitavano a far strane commistioni dei messali.
Questi abusi hanno la stessa radice di tutti gli abusi: si profana lo ius divinum. Ci si impadronisce delle cose sante di Dio, anche con le migliori intenzioni, e si finisce per violare il Suo sacro diritto ad essere adorato come Egli ha stabilito. Ed Egli lo ha stabilito attraverso la Sua Chiesa.

13- Niente pasticci insomma…
CNSP: La forma ordinaria è “ordinaria”, quella straordinaria è “straordinaria”: sul campo nessuna contaminazione è accettabile.
Messe in rito antico con le letture nuove “così il prete prepara una sola predica”, preti che per negligenza rasano allegramente le rubriche per evitare la fatica di impararle, quelli che hanno deciso che nel Summorum Pontificum c’è scritto 1920 o 1965 e non 1962 – per quanto la discussione è assolutamente legittima e deve rimanere aperta – sono di una creatività liturgica di segno contrario che non è ammissibile neanche per l’Ecclesia Dei, figuriamoci per il Coordinamento.
Il nostro principale dovere è di dare sostegno e decoro alla forma straordinaria, che spesso ha bisogno ancora di un’adeguata catechesi tra i fedeli e tra gli organizzatori, ed è a questo che stiamo lavorando.

14- Eppure nella lettera introduttiva al Summorum Pontificum si dice che “le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda ”… 
CNSP: Sì, ma subito dopo dice anche “nel Messale antico potranno e dovranno essere inseriti nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi. La Commissione Ecclesia Dei, in contatto con i diversi enti dedicati all’usus antiquior, studierà le possibilità pratiche”, limitando espressamente i campi e la competenza di questi eventuali interventi. Sono auspici ragionevoli, ma senza arbitrii.
Sinceramente, io non starei a fasciarmi troppo la testa su quella frase: a noi preme che la forma straordinaria della Sacra Liturgia arricchisca la nostra fede e quella delle realtà ecclesiali in cui viviamo. Per questo auspichiamo che la liturgia tradizionale si diffonda sempre più e i gruppi si inseriscano pienamente nella vita delle diocesi.
Quanto al resto, mettiamoci in braccio allo Spirito Santo come dei bambini, convinti che, quando e come la Provvidenza vorrà, anche la crisi liturgica che affligge la Chiesa verrà riassorbita.
Per ora, felicitiamoci, piuttosto, dei sapienti interventi che il Santo Padre ha chiesto all’ultima edizione del Messale della forma ordinaria, come l’aggiustamento del “pro multis” nella traduzione, per esempio. Per questo grande Papa la “dottrina della Fede”, innazitutto.

dal sito paix-liturgique.org

Pellegrinaggio a Roma dei “pro Summorum Pontificum”: intervista al portavoce ufficiale

Intervista a Thomas Murphy,
portavoce ufficiale del Pellegrinaggio Internazionale pro Summorum Pontificum
del 3 novembre a Roma
(traduzione di Francesco R. di M.i.L. – Messainlatino.it)


1) Sig. Thomas Murphy, lei è il portavoce ufficiale del Coetus Internationalis pro Summorum Pontificum: qual è l’obiettivo di questo comitato?Il Coetus Internationalis riunisce vari gruppi di fedeli che lavorano, ciascuno a modo proprio, a sostegno del Summorum Pontificum. Unire questi gruppi nella carità e lavorare insieme è il nostro primo scopo. L’obiettivo principale del Coetus Internationalis è organizzare un pellegrinaggio a Roma il prossimo fine settimana di Ognissanti.

Abbiamo colto l’occasione dell’Anno Santo della Fede e il 5 ° Anniversario del ‘Summorum Pontificum’ per invitare associazioni, gruppi e movimenti di fedeli, provenienti da tutta Europa e dal Mondo, ad unirsi a noi a Roma per una manifestazione di sostegno al Santo Padre e per rendergli grazie per la “Magna Carta” con cui ha “liberalizzato” il Rito Gregoriano. Questo è il nostro invito a tutti i fedeli ad affermare la nostra Fede Cattolica e la nostra fedeltà al Romano Pontefice ed esprimere il nostro convincimento che anche la liturgia tradizionale in latino è uno strumento idoneo per la Nuova Evangelizzazione, compresi il suo fascino sui giovani e la sua universalità.
Il pellegrinaggio si concluderà con una Messa Pontificale nella Forma Straordinaria del Rito Romano sabato 3 novembre alle ore 10:00 nella Basilica di San Pietro, cuore pulsante del Cattolicesimo.

2) Quali sono i movimenti che hanno aderito all’iniziativa?

La lista dei movimenti si allunga quasi ogni giorno. Abbiamo intenzione di presentarne un elenco iniziale in occasione dell’annuncio ufficiale del pellegrinaggio, il 10 settembre, ma alcuni movimenti meritano particolare menzione sin da ora. Parlo anche in qualità di Segretario della Federazione Internazionale “Una Voce“, che ha dato il suo notevole sostegno al Coetus Internationalis. Le Associazioni membri della nostra Federazione presenti in tutti e cinque i Continenti, in particolare Una Voce Italia, hanno apportato il loro prezioso contribuito ai lavori del Coetus Internationalis.

Un’eccellente contributo è stato apportato anche dal Coetus nationalis pro Summorum Pontificum (CNSP), che riunisce i gruppi e le organizzazioni della penisola italiana tra cui alcune delle nostre associazioni di Una Voce. Vorrei anche rivolgere una menzione d’onore alla magistrale e ben nota associazione francese Notre-Dame-de-chrétienté, organizzatrice dell’annuale pellegrinaggio a Chartres, e alla Foederatio Internationalis Juventutem, i giovani a sostegno del Summorum Pontificum che si son fatti conoscere in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù; associazioni queste che hanno confermato la loro adesione al Coetus Internationalis nei giorni scorsi.

Il supporto di tutti questi gruppi e movimenti è fondamentale se vogliamo raggiungere i nostri obiettivi: non solo creare una caritatevole unità e collaborazione tra quanti sostengono il Summorum Pontificum ma soprattutto rivolgere i nostri ringraziamenti al Romano Pontefice per il Summorum Pontificum e soprattutto professargli la nostra fedeltà durante il prossimo pellegrinaggio a Roma nei primi di novembre. Ripeto l’invito a ciascuno gruppo che sostiene il Summorum Pontificum a unirsi in supporto del Coetus Internationalis.

3) Può dirci altri dettagli riguardo gli sviluppi dell’organizzazione del pellegrinaggio, come esempio, il nome del celebrante?

Stiamo lavorando alacremente, nonostante la pausa estiva sacrosanta, a Roma. Il nome del celebrante sarà reso noto in occasione dell’annuncio ufficiale del pellegrinaggio nel mese di settembre.

Oltre alla Messa nella Basilica di San Pietro, invitiamo ciascun gruppo che ci avrà raggiunto a Roma di organizzare nella Città Eterna una cerimonia religiosa o un incontro di preghiera durante quel fine settimana di Tutti i Santi. A tal fine, il nostro cappellano, l’Abbé Claude Barthe, autore di numerosi libri e articoli in materia di Liturgia, si metterà in contatto coi gruppi di pellegrini e con i sacerdoti presenti a Roma per quell’occasione. Chiunque fosse interessato può già contattare la nostra Segreteria all’indirizzo cisp@mail.com o scrivere a me:secretary@fiuv.org.

4) Si darà l’annuncio ufficiale del pellegrinaggio il 10 settembre, appena otto settimane prima della Messa del 3 novembre. Il tempo è poco. Quanti pellegrini lei si aspetta verranno a Roma?

E ‘vero: i tempi sono brevi. Tuttavia, il Coetus Internationalis ha svolto già molto lavoro, in maniera discreta, nei molti mesi precedenti. Ho saputo che i pellegrini previsti a Roma sono stimati tra 3.000 e 4.000 provenienti da tutto il mondo.

5) Lei ha detto di essere anche il Segretario della F.I.U.V.? Che ruolo ha svolto la F.I.U.V. in questo pellegrinaggio e come si colloca questo pellegrinaggio fra le attività della F.I.U.V.?

In qualità di più antica organizzazione di laici attiva per la conservazione della liturgia tradizionale in latino, la Federazione Internazionale “Una Voce” è stata coinvolta sin dall’inizio nell’organizzazione del pellegrinaggio. La nostra rete di Associazioni e Federazioni in 33 Paesi nei cinque Continenti attribuisce grande importanza alla collaborazione e all’intima unione nella carità. Era naturale quindi che la F.I.U.V. fosse uno dei primi e decisivi sostenitori del Coetus Internationalis.

La nostra Federazione si reca a Roma ogni due anni per un’Assemblea Generale dei Soci, ma eravamo ansiosi di compiere uno sforzo particolare per celebrare il 5 ° Anniversario del Summorum Pontificum e dimostrare la nostra fedeltà al Papa durante l’Anno della Fede. Il pellegrinaggio a Roma del prossimo novembre sarà l’occasione ideale per ripetere ciò che i Cattolici fanno da sempre: un pellegrinaggio sulle tombe degli Apostoli, e dichiarare pubblicamente la loro fedeltà al Papa.

Quanto di peculiare vi è nel Coetus Internationalis, e ciò dovrebbe interessare tutti coloro che supportano il Summorum Pontificum, è il suo essere al di sopra delle divisioni. Si tratta di un semplice atto di amore da parte di molte anime riunite nei diversi movimenti cattolici, che cercano tutte di includersi nella nostra unica e visibile espressione di fede, di ringraziamento e di fedeltà. A tutti coloro che condividono la nostra Fede cattolica, che condividono la nostra gratitudine per il Summorum Pontificum e che condividono la nostra fedeltà al Santo Padre, a loro tutti che ascoltano le mie parole dico: “Venite con noi a Roma!”

Thomas Murphy, F.I.U.V. e C.I.P.S.

da messainlatino.it

Ordinate in chiesa il cessate le parole!!! Il castigo della “Preghiera dei Fedeli”

di Antonio Margheriti Mastino

QUELLA CHIESA POSTCONCILIARE CHE HA ABOLITO IL SILENZIO

Ero partito con l’intenzione di scrivere un articolo sui generis sul come si prega, per smentire l’idea che la preghiera sia fatta solo di parole, di un fiume di parole, spesso fuoriluogo; e di lì sarei passato a spiegare che c’è un modo “alternativo” di adorare il Sacramento. Ma mentre scrivevo, però, sono stato fulminato da una parola che mi è rimbombata nella memoria: “Preghiera dei Fedeli”, che durante la messa sempre più va degenerando, nei più casi, in veri e propri proclami ideologici, partitici spesso, arroganti e pretenziosi molte volte, demenziali e interminabili quasi sempre. È di questo che voglio parlare adesso.

Se c’è una cosa della quale più d’altre la Chiesa postconciliare, con le manie di protagonismo, presenzialismo, personalismo dei suoi membri s’è scordata, è il silenzio. E, di riflesso, il guardarsi dalle vane parole.

L’ho sempre detto: preferisco frequentare a Roma le messe in rito antico per tante ragioni, una della quali è proprio il silenzio; quella messa lì ha conservato la consapevolezza delle virtù balsamiche per lo spirito del “cessate le parole”. Quelle inutili, almeno. La certezza che non solo la lingua, le parole, il vociare, il clamore possono esprimere la lode a Dio. Ma che anzi, talora possono indurre al contrario: all’esibizione, allo sfoggio, a perdere di vista l’essenziale. In una parola: ad autocelebrarsi, mentre Dio diventa solo il pretesto, l’introduzione al nostro peccato di vanità, e orgoglio poi. O possono diventare un rito sociale: il culto di una comunità che si parla addosso, celebrando se stessa. E il passo verso il comizio è breve assai. Non è un caso che l’allora cardinale Ratzinger parlò delle odierne liturgie come “danze vuote intorno al vitello d’oro che siamo noi stessi”.

LA PREGHIERA DEI FEDELI: LA “MADRE DI TUTTI GLI ECCESSI”

Prendi la preghiera dei fedeli: voluta dalla riforma liturgica, è diventata la “madre di tutti gli eccessi”, il luogo di ogni abuso; nei casi migliori uno sfogatoio, nei peggiori la latrina di ogni verbosità para-ideologica; l’introito, l’allusione neppure troppo velata verso l’opinionismo politico legato alla cronaca, la terra di nessuno dei comitati parrocchiali che hanno fatto di sacrestie proprietà privata e sezione partitica, e che talvolta sembrano fermi psicologicamente all’assetto da guerriglia verbale sindacalizzata anni ’70, con tutti i loro proclami da ambone. Anzi: se negli anni ’60 viravano sul sociologismo, negli anni ’70 al puro ideologismo, negli anni ’80 allo psicologismo, nei ’90 all’umanitarismo, all’inizio del 2000 al buonismo un tantino sincretista, da qualche tempo a questa parte puntano sull’economicismo… che è sempre l’introduzione più nobile verso l’antiberlusconismo tout-court. E ve lo dimostro fra poco.

Vane parole, nelle quali Dio è interpellato per assecondare e ratificare d’ufficio schemi tutti umani, orizzontali. E dove, proprio per ciò, cancellata la spinta verticale, Dio è scomparso dalla loro prospettiva. Tutto è consumato sull’altare pagano del plurale sociologico, dell’astrattezza della “società”. Fateci caso: la maggior parte delle interminabili e soporifere “pregherie dei fedeli” (ossia dei magnaccia di sacrestia) iniziano in due modi: “In questa società”; “in questo mondo”… di ladri! Eppure, se tu vai a guardare le parole del Nazareno, ti rendi conto di una cosa: non sembra mai interessato ai gruppi sociali, non parla mai in astratto, non si rivolge ad entità collettive e anonime, non v’è nella sua predicazione ombra di “peccato sociale” se non come riflesso unico del peccato individuale, che a sua volta è il prezzo di quello originale che tutti ci accomuna. E appunto, il Cristo, nei vangeli si rivolge unicamente al cuore dell’uomo. Cioè del singolo. Perché è il cuore di ogni singolo uomo che gli interessa: per lui tutto da lì parte. Dall’individuo uti singuli. Ossia io, tu. Separatamente. Solo così resta chiara alla nostra coscienza la colpa, il nostro peccato, la responsabilità di ciascuno dunque: senza scaricarla su una entità collettiva indefinita, quasi quasi autoassolvendosi, e compiendo così un doppio e triplo peccato. Resta emblematica quella dichiarazione di Andrè Frossard, il grande convertito francese: “Il bello del cristianesimo è che ognuno si sente figlio unico dinanzia a Dio”. Mi sentirei di correggerlo: per un disegno misterioso e incomprensibile alla mente umana, noi in un certo senso non ci “sentiamo”, ma siamo “figli unici” di Dio.

SE SI DIMENTICA CHE IL PECCATO SOCIALE ALTRO NON È CHE LA SOMMA DEI PECCATI INDIVIDUALI

Talvolta mi domando se negli sproloqui logorroici e socialmente “utili” delle Preghiere dei fedeli durante la liturgia, non vi sia traccia non solo di vane parole, non solo di paganesimo, ma proprio di idolatria; idolatria dell’immanente, delle strutture e sovrastrutture, del solo umano, delle cose di questa terra. In una parola: del “sociale”. Tutte cose che è lo stesso Cristo a definire passeggere, e nel Libro Antico, è il Dio di Mosè, attraverso l’Ecclesiaste, a marchiarle in modo efficacissimo come “vanitas vanitatis… vanità delle vanità, tutto è vanità”. Ma a sentire questi declamatori liturgici, sembrano eterne, le sole che contino. Idolatria del “sociale” appunto, ossia culto di una comunità verso se stessa e le sue dinamiche, autocelebrazione, autocompiacimento, autoesaltazione, autoadorazione. Gridano contro la “parzialità” e l’ingiustizia di un mondo che proprio questi ragionamenti hanno contribuito in modo determinante a creare; e dimenticano la cosa fondamentale: che alla base dell’ingiustizia sociale non c’è un governo sbagliato o una errata dottrina economica. Alla base di quella e di questi c’è solo una cosa: il peccato. Individuale. Che, propalandosi attraverso i suoi untori, infettivo com’è, diventa anche “sociale”. Il peccato sociale, non è la tara di un gruppo dominante, il capriccio di un destino cinico e baro: è la somma dei peccati individuali.

SE L’OSSESSIONE DEL “SOCIALE” CHE TUONA DAGLI AMBONI DIVENTA IDOLATRIA

Eppure, come si diceva, è proprio l’Antico Testamento a metterci a chiare lettere sempre in guardia da questo pericolo, il pericolo delle vane parole e dalla sopravvalutazione delle cose di questo mondo e dei suoi idoli, che siano strutture, sovrastrutture, istituzioni, ideologie.

Siccome ho un debole per i Libri Sapienziali, li apro a caso e l’occhio mi cade sul Libro della Sapienza. Al capitolo 13 si spiega come materialmente l’idolatra costruisce il suo idolo: sembra quasi una lezione di falegnameria per fai-da-te. Così inizia: “Infelici sono coloro le cui speranze sono in cose morte e che chiamano dèi i lavori di mano d’uomo”. E dopo averci edotti tecnicamente su come fare di un pezzo di legno un idolo, conclude: “Esso è solo un’immagine [l’idolo]… Eppure quando [l’idolatra] prega per i suoi beni, per le sue nozze e per i suoi figli, non si vergogna di parlare a quell’oggetto inanimato; per la sua salute invoca un essere debole, per la sua vita prega un morto; per un aiuto supplica un essere inetto, per il suo viaggio chi non può neppure camminare; per acquisti, lavoro e successo negli affari, chiede abilità ad uno che è il più inabile di mani”.

Come non farsi venire in mente tutti questi declamatori sindacalizzati di “preghiere dei fedeli”, che ultimamente si son fatti venire la passionaccia dell’economia, secondo il vangelo dei banchieri, dopo che hanno smaltito la sbornia di operaismo immaginario?

Vado oltre, e nello stesso Libro attribuito miticamente a Salomone, si racconta di come Dio si serve degli elementi della terra per punire gli idolatri e aiutare i suoi figli. E in questo capitolo 16 c’è un grave monito per chi crede davvero che ogni male stia nella stultizia delle cose terrestri e che mondana sia l’unica giustizia possibile; grave monito agli appassionati foss’anche liturgici di cose “sociali” e conseguenti “ricette economiche” toccasana, di panacee di tutti i mali elaborate in laboratorio; che parlano come se la Chiesa esistesse non per salvare le anime ma per guidare le sorti dell’economia, come se invece dei mali dell’anima debba occuparsi dei presunti “mali” sociali, che ignorano essere proprio la conseguenza dei primi e non il contrario. Leggo, infatti, in questo capitolo sapienziale: “Gli egiziani [idolatri] infatti furono uccisi dai morsi di cavallette e mosche, né si trovò un rimedio per la loro vita, meritando di essere puniti con tali mezzi. Invece contro i tuoi figli neppure i denti dei serpenti velenosi prevalsero, perché intervenne la tua misericordia a guarirli. Perché ricordassero le tue parole, feriti dai morsi, erano subito guariti, per timore che, caduti in un profondo oblio, fossero esclusi dai tuoi benefici. Non li guarì né un’erba né un emolliente, ma la tua parola, o Signore, la quale tutto risana. Tu infatti hai potere sulla vita e la morte: conduci alle porte degli inferi e fai risalire”.

QUANDO SI SCAMBIA IL “FATTO” PER ECCELLENZA COL FATTO QUOTIDIANO

Dicevo che assisto (e dico: assisto, non “partecipo”) spesso alle messe antiche: sono un’altra cosa, rimbombano dentro, esplodendo silenziosamente nell’anima, è un precipitare improvviso e al contempo un ascendere vertiginoso dentro un Mistero, antichissimo e nuovo, che travalica il tempo. Ma siccome il papa ha scritto nel Motu Proprio che il fedele deve “completarsi” assistendo all’uno e all’altro rito, a quello straordinario ma anche a quello ordinario, che poi sono due forme dello stesso canone romano, allora, spesso facendo violenza su me stesso, mi obbligo ad andare alla messa nuova nella chiesa sotto casa. Certe volte lo faccio pure per pigrizia, ché non mi va di prendere il bus per arrivare sino al centro di Roma, verso Campo de’ Fiori, dove sta la parrocchia che celebra esclusivamente secondo il messale di Giovanni XXIII: la Santissima Trinità dei Pellegrini.

Ci vado con tutte le migliori intenzioni. Ma poi arriva, arriva sempre, il momento della predica e, ahimé, delle maledette “preghiere dei fedeli”, ossia dei bollettini dei tre sindacati congiunti: iniziano col tono moroteo della Cisl, giungono al linguaggio nenniano della Uil, degenerano in finale col proclama cofferatiano della Cgil. Pronunciate ora con un certo risentimento sociale, ora con moralismo civile allarmistico, ma più spesso in modo cantilenato, atono, non sentito, monocorde, come di chi neppure sta capendo cosa diavolo sta leggendo. E neppure io lo capisco: il linguaggio è fumoso, farraginoso, una moralistica verbosità dorotea nei casi migliori, insolente da ciclostilato di gruppuscoli politicizzati marxisti d’altri tempi nel peggiore dei casi; ma dove nell’uno nell’altro caso si scaricano sulle parole, sul proclama, il valore che dovrebbero avere i fatti. Anzi, il Fatto, il solo che conta: il Nazareno, figlio di Dio incarnato nell’umanità, morto in croce per redimerci dai peccati, al terzo giorno resuscitato dai morti, come avevano annunciato i profeti. Ebbene, ho l’impressione che spesso, questa strana fauna di sacrestia, questi laici clericalizzati, abbiano scambiato il Fatto per eccellenza, per Il Fatto Quotidiano delle edicole.

L’ULTIMA MODA CLERICALE: IL PRETE CHE NON SI INGINOCCHIA MAI NELLA MESSA

Vi porto un esempio tipico, uno solo di centinaia che potrei raccontare. Entro in Santa Maria Goretti in Roma. Quartiere Africano. Che è anche una parrocchia che, nelle altre ore, è assolutamente gestita dai neocatecumenali, suppongo con maggiore beneficio morale e religioso per i credenti. Ma che nelle ore “canoniche” è in mano al clero secolare, sempre più internazionale, e anzi sempre più mulatto. Uno pensa: almeno questi sono stranieri, di recente cristanizzazione, capace siano più ferventi e scrupolosi dei preti italiani, troppo devastati da anni di democristianismo. È un’illusione: i professori, i libri di teologia degli uni e degli altri, sempre gli stessi sono. Come ne è corrotto quello di antica cristianizzazione a maggior ragione lo è quello di recente.

Messa appena iniziata. Ripetitori di microfoni al massimo da sfondarti i timpani, tanto da far vibrare il pavimento sotto i piedi. Pochi fedeli si inginocchiano nei momenti previsti anche dal messale di Paolo VI: poco male dico, nel Sud della Puglia l’inginocchiarsi dei fedeli è caduto sistematicamente in disuso. Per la verità -l’ultima moda clericale è questa- neppure il sacerdote si inginocchia mai: manco dove sarebbe d’obbligo, come durante il canone di consacrazione: si limita a un laico frigido inchino, non sia mai si dica che ecceda in cupidigia di servilismo verso l’Altissimo: ti verrebbe una voglia di infilargli un calcione nel sedere da farlo prostrare faccia a terra direttamente. Mi domando, mentre vedo quanto è stitica la pietà di questi preti sempre aggiornati a ogni ultima moda liturgica, se davvero credono alla Presenza Reale nell’ostia e nel vino… e mi rispondo anche che se davvero ci credessero scoppierebbero in lacrime, faccia a terra si prostrerebbero da soli, senza calcioni negli stinchi. A un pezzo di pane che vuoi fare, invece? Un inchino basta e avanza: andare oltre, ha osato dire più di qualche prete aggiornato, potrebbe rasentare l’idolatria: poche idee, ma belle confuse. Durata in tutto 2 minuti e 20 secondi. Poi rifletti che mentre dinanzi al Cristo Eucaristico si vergognano di inginocchiarsi, solo poco prima si sono prostrati in corpo e anima dinanzi a tutti i feticci imposti dal politicamente corretto dominante, ai suoi santuari posticci, ai suoi martirologi fasulli. Ma non è su questo che voglio soffermarmi, quanto sulla predica.

I RAGIONAMENTI TORTUOSI ALLONTANANO DA DIO”

Tralascio per pietà cristiana (e anche perché ve lo immaginate da voi) cosa s’è detto nel mezzo, un mezzo interminabile, pieno di vuote parole in libertà, una fiumana, uno straripamento che ci ha inondati tutti per 35 minuti abbondanti. Un discorso senza un centro, una meta, una logica: “amore” di qua “ricchezza” di là, “povertà” qua e là: la solita spaghettata alla sacrestana. Ma che vuole questo? Ma di cosa vuole parlare? Mi chiedo perché si sforzi di blaterare, teorizzare, complicare tutto quando potrebbe risolvere ogni cosa in 5 minuti, lasciando la parola al Cristo del Vangelo: il quale sapeva quel che diceva e come dirlo, e dicendolo usava la sintesi, seppure immaginifica. Mi chiedevo anche se non avesse ragione il Messori di Ipotesi su Gesù quando diceva che ogni problema nasce dal fatto che si sia voluto sostituire il Cristo della storia con quello della filosofia, sino a sfigurarlo, renderlo irriconoscibile, farne “tanti cristi in maschera”. Alla fine constato che non puoi spiegare una cosa che non hai capito manco tu. Non puoi giustificare agli occhi dei fedeli quello nel quale non credi, che a te per primo sembra gratuito, carente di senso, e dove lo scandalo del Cristo, diluito sino a tal punto in mille solventi diversi, ha perso ogni sapore e forma, ogni utilità: tant’è che si cercano nel mondo, nella politica le cose che possano giustificare in qualche modo ancora la sussistenza di Cristo. Come se il Nazareno fosse un’idea e non un fatto: appunto, ha ragione Messori, si è sacrificato tutto al Nazareno dei filosofi che mai avrebbe dovuto esserci a quello della fede e della storia, che è molto più semplice, e perciò molto più scandaloso. Questi preti, penso, nel loro conformismo senza più vita tentano di ripetere dal pulpito la vuota, inutilmente complicata astrattezza delle teorizzazioni dei libri di teologia ultima generazione in uso nei seminari. Che sembrano spiegare tutto lo scibile umano ma non spiegano niente, ingarbugliano tutto anzi, talora tutto demoliscono. Che vorrebbero su ogni cosa intrattenersi meno che sull’Essenziale. Una volta che ti sei deformato su queli libri, che hai da spiegare più? Non c’è più nulla da dire, da capire, tanta è ormai la confusione. Hai perso il filo, che si diparte da Cristo, e lungo la ininterrotta successione apostolica, passando di mano in mano, a lui ci lega. Ecco perché è un parlarsi addosso. Apro il Libro della Sapienza, che inizia in un modo che più significativo non potrebbe essere: “I ragionamenti tortuosi allontanano da Dio” (Sap. 1,3).

QUELLE PREGHIERE DEI FEDELI RIPRESE DALLA SCALETTA DEL TG DI MEZZOGIORNO

Ma mi sono dilungato. Piuttosto volevo riportarvi l’incipit e il finale dell’omelia sindacalizzata. Inizio: “In questa società…”; finale: “… per via della crisi economica che attanaglia l’Europa, l’Italia in particolare”. Manco a dire che non abbiamo capito le idee politiche del prete mulatto. Semmai serbassimo ancora dubbi, gli immancabili “laici” impegnati a comandare in sacrestia giungono a proposito a schiarirci le idee, e ci indicano il come pensarla, con la (ci risiamo!) “Preghiere dei fedeli”, che sembrano piuttosto un rosario che non finisci mai di sgranare, e, ti rendi conto subito, sono riprese dalla scaletta delle notizie del tg di mezzogiorno, e soprattutto dai titoloni e dagli articoli di fondo di Repubblica della mattinata.

Per la crisi economica…”, ascoltaci Signore!;

Per questo momento di sbandamento morale che coinvolge i vertici di quelle istituzioni che dovrebbero esserci d’esempio” [come se quei “vertici” non fossero composti di peccatori come tutti, come se la Bibbia non mettesse in guardia chi “confida negli uomini”… “ciechi che guidano altri ciechi”] , ascoltaci Signore!!;

Per la famiglia della povera Yara, affinchè siano trovati i colpevoli e assicurati alla giustizia” [va da sé: umana, non divina… figurarsi poi se qualcuno ha pensato alla conversione degli assassini], assassinata o da un pedofilo o da un rumeno, magari pure, hai visto mai, da un prete rumeno e pedofilo, o da Berlusconi notorio bazzicatore di minorenni… ad ogni modo… ariascoltaci Signore!!!;

Perché i governanti”, ossia sempre Berlusconi, “siano promotori di giustizia ed equità soprattutto fra i lavoratori”, [perché, tutti gli altri che ci hanno la rogna? Cristo non ha mai parlato di “lavoratori” e disoccupati, ma di uomini] per non dire classe operaia: la quale che ci sia ciascun lo dice dove sia nessun lo sa, e chi lo sa, sa pure che è ormai non solo un privilegio sociale avere un posto da operaio ma persino da netturbino… ma Signore, “ascoltaci!” pure per questi altri.

Per la vergogna del nostro tempo di nostri fratelli dell’Africa che giungono in questa nostra terra come la terra promessa a bordo di un gommone: che trovino, questi nuovi cittadini di domani, accoglienza nella nostra comunità resa indifferente dall’opulenza [un momento prima, pur di dare addosso a Berlusconi, il precedente fedele sindacalizzato aveva definito questa “comunità” in agonia da “crisi economica”, 30 secondi dopo è già diventata “opulenta”… l’ideologia, che gran prostituta!]. Ascoltaci, Signore pure per i musulmani!

Fa, o Signore, che i governanti”, ancora una volta Berlusconi, “comprendano l’importanza della cooperazione solidale con le istituzioni dell’Europa, per il riconoscimento dei nuovi e antichi diritti dei cittadini”. A questo punto non ce la faccio più: qui si è passati dal bollettino del ministero dello sviluppo economico a guida Bersani, a Radio Radicale direttamente. Senza imbarazzo alcuno e ad alta voce ripeto: “Non dargli retta, Signore!”. Ché non sanno quel che dicono.

Che c’è da aggiungere? Quante anime saranno convertite, salvate, da questo clericalismo parolaio? Manca il silenzio, la concentrazione sull’Essenziale, in queste messe che sono diventate prima riverbero di piovaschi temporaleschi ideologici che tuonavano fuori, poi culto di una comunità, culto di una personalità, alla fine sono degenerate in declamazioni contro qualcuno; null’altro che riproposizione su scala ridotta dei tg e dell’opinion-makerismo da columnist Repubblichino (e non quelli di una volta: i nipotini di Scalfari).

Sentendo questi blateratori para-liturgici, questi feticisti del “sociale” (quando non del socialismo), questi che scambiano i talk-show e i tg per cattedre di omiletica, fonti della sapienza alle quali ubriacarsi, viene da ripensare a Paolo di Tarso, il Saulo dalla lingua come spada di fuoco. Il quale Paolo rivolgendosi ai romani (Let. Rom. 1,18-32), gli spiega come -guardacaso- l’iniquità, le perversioni sessuali, la depravazione morale dell’umanità altro non sono che il segno dell’abbandono da parte di Dio, a sua volta e per primo ripudiato (uuuhhh quante immagini contemporanee mi vengono in mente!) dagli uomini. E scrive in modo inequivocabile: “… Essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile (…) hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del Creatore. Perciò Dio li ha abbandonati a passioni infami (…) E poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balia d’una intelligenza depravata…”.

dal sito papalepapale.it

Papa Giovanni XXIII: VETERUM SAPIENTIA

COSTITUZIONE APOSTOLICA

VETERUM SAPIENTIA

di S.S. Papa Giovanni XXIII

(SULLO STUDIO E L’USO DEL LATINO)

L’antica sapienza, racchiusa nelle opere letterarie romane e greche, e parimenti i piú illustri insegnamenti dei popoli antichi devono essere ritenuti quasi aurora annunziatrice del Vangelo, che il Figlio di Dio, «arbitro e maestro della grazia e della scienza, luce e guida del genere umano» (1) ha annunciato su questa terra
Infatti i Padri e Dottori della Chiesa riconobbero in questi antichissimi e importantissimi monumenti letterari una certa preparazione degli animi a ricevere la celeste ricchezza, che Gesú Cristo «nel verificarsi della pienezza dei tempi» (2), comunicò ai mortali; da ciò appare chiaramente che, con l’avvento del Cristianesimo, non è andato perduto quanto di vero, di giusto, di nobile e anche di bello i secoli trascorsi avevano prodotto.
Per la qual cosa la Santa Chiesa ebbe sempre in grande onore i documenti di quella sapienza e prima di tutto le lingue Latina e Greca, quasi veste aurea della stessa sapienza; accettò anche l’uso di altre venerabili lingue, che fiorirono nelle regioni orientali, che non poco contribuirono al progresso del genere umano e alla civiltà; le stesse, usate nelle cerimonie religiose o nell’interpretazione delle Sacre Scritture, hanno vigore anche oggi in alcune regioni, quasi non mai interrotte voci di un uso antico ancora vigoroso.
Nella varietà di queste lingue certamente si distingue quella che, nata nel Lazio, in seguito giovò mirabilmente alla diffusione del Cristianesimo nelle regioni occidentali. Giacché, non senza disposizione della Divina Provvidenza accadde che la lingua, la quale per moltissimi secoli aveva unito tante genti sotto l’Impero Romano, diventasse propria della Sede Apostolica (3) e, custodita per la posterità, congiungesse in uno stretto vincolo, gli uni con gli altri, i popoli cristiani dell’Europa.
Infatti, di sua propria natura la lingua latina è atta a promuovere presso qualsiasi popolo ogni forma di cultura; poiché non suscita gelosie, si presenta imparziale per tutte le genti, non è privilegio di nessuno, infine è a tutti accetta ed amica. Né bisogna dimenticare che la lingua latina ha nobiltà di struttura e di lessico, dato che offre la possibilità di «uno stile conciso, ricco, armonioso, pieno di maestà e di dignità» (4), che singolarmente giova alla chiarezza ed alla gravità.
Per questi motivi la Santa Sede ha gelosamente vegliato sulla conservazione e il progresso della lingua latina e la ritenne degna di usarla essa stessa, «come magnifica veste della dottrina celeste e delle santissime leggi» (5), nell’esercizio del suo magistero, e volle che l’usassero anche i suoi ministri. Infatti questi uomini della Chiesa, ovunque si trovino, usando la lingua di Roma, possono piú rapidamente venire a sapere quanto riguarda la Santa Sede ed avere con questa e fra loro piú agevole comunicazione.
«La piena conoscenza e l’uso di questa lingua, cosí legata alla vita della Chiesa, non interessa tanto la cultura e le lettere quanto la Religione» (6), come il nostro Predecessore di immortale memoria Pio XI ebbe ad ammonire; egli, essendosi occupato scientificamente dell’argomento, additò chiaramente tre doti di questa lingua, in modo mirabile conformi alla natura della Chiesa: «Infatti la Chiesa, poiché tiene unite nel suo amplesso tutte le genti e durerà fino alla consumazione dei secoli… richiede per sua natura un linguaggio universale, immutabile, non volgare» (7).
Poiché è necessario, invero, che «ogni Chiesa si unisca nella Chiesa Romana» (8) e, dal momento che i Sommi Pontefici hanno «autorità episcopale, ordinaria e immediata su tutte le Chiese e su ogni Chiesa in particolare, su tutti i pastori e su ogni pastore e sui fedeli» (9) di qualunque rito, di qualunque nazione, di qualunque lingua essi siano, sembra del tutto conseguente che il mezzo di comunicazione sia universale ed uguale per tutti, particolarmente tra la Sede Apostolica e le Chiese che seguono lo stesso rito latino. Pertanto, sia i Pontefici Romani, quando vogliono impartire qualche insegnamento alle genti cattoliche, sia i Dicasteri della Curia Romana, quando trattano di affari, quando stendono dei decreti, che riguardano tutti i fedeli, sempre usano la lingua latina, che è accolta da innumerevoli genti, quasi voce della madre comune.
Ed è necessario che la Chiesa usi una lingua non solo universale, ma anche immutabile. Se, infatti, le verità della Chiesa Cattolica fossero affidate ad alcune o a molte delle lingue moderne che sono sottomesse a continuo mutamento, e delle quali nessuna ha sulle altre maggior autorità e prestigio, ne deriverebbe senza dubbio che, a causa della loro varietà, non sarebbe a molti manifesto con sufficiente precisione e chiarezza il senso di tali verità, né, d’altra parte si disporrebbe di alcuna lingua comune e stabile, con cui confrontare il significato delle altre. Invece, la lingua latina, già da tempo immune da quelle variazioni che l’uso quotidiano del popolo suole introdurre nei vocaboli, deve essere considerata stabile ed immobile, dato che il significato di alcune nuove parole che il progresso, l’interpretazione e la difesa delle verità cristiane richiesero, già da tempo è stato definitivamente acquisito e precisato.
Infine, poiché la Chiesa Cattolica, perché fondata da Cristo Nostro Signore, eccelle di gran lunga in dignità su tutte le società umane, è sommamente conveniente che essa usi una lingua non popolare, ma ricca di maestà e di nobiltà.
Inoltre, la lingua latina, che «a buon diritto possiamo dire cattolica» (10), poiché è propria della Sede Apostolica, madre e maestra di tutte le Chiese, e consacrata dall’uso perenne, deve essere ritenuta «tesoro di incomparabile valore» (11) e quasi porta attraverso la quale si apre a tutti l’accesso alle stesse verità cristiane, tramandate dagli antichi tempi, per interpretare le testimonianze della dottrina della Chiesa (12) e, infine, vincolo quanto mai idoneo, mediante il quale l’epoca attuale della Chiesa si mantiene unita con le età passate e con quelle future in modo mirabile.
Invero, nessuno può dubitare che la lingua latina e la cultura umanistica siano fornite di quella forza che è ritenuta quanto mai adatta a istruire e a formare le tenere menti dei giovani. Per suo mezzo, infatti,  si educano, maturano, si perfezionano le migliori facoltà dello spirito; la finezza della mente e la capacità di giudizio si acuiscono; inoltre, l’intelligenza del fanciullo viene piú convenientemente formata a comprendere e a giudicare nel giusto senso ogni cosa; infine, si impara a pensare e a parlare con sommo ordine.
Se si riflette su tutti questi meriti, si comprende perché i Pontefici Romani cosí frequentemente hanno sommamente lodato non solo l’importanza e l’eccellenza della lingua latina, ma ne hanno prescritto lo studio e la pratica ai sacri ministri dell’uno e dell’altro clero, senza omettere di denunciare i pericoli derivanti dal suo abbandono.
Spinti anche Noi da questi gravissimi motivi, come i nostri Predecessori e i Sinodi Provinciali (13), con ferma volontà intendiamo adoperarci perché lo studio e l’uso di questa lingua, restituita alla sua dignità, faccia sempre maggiori progressi. Poiché in questo nostro tempo si è cominciato a contestare in molti luoghi l’uso della lingua Romana e moltissimi chiedono il parere della Sede Apostolica su tale argomento, abbiamo deciso, con opportune norme, enunciate in questo documento, di fare in modo che l’antica e mai interrotta consuetudine della lingua latina sia conservata e, se in qualche caso sia andata in disuso, sia completamente ripristinata.
Del resto, quale sia il nostro pensiero su tale argomento, crediamo di averlo abbastanza chiaramente dichiarato quando rivolgemmo queste parole ad illustri studiosi del Latino: «Purtroppo vi sono parecchi che, esageratamente sedotti dallo straordinario progresso delle scienze hanno la presunzione di respingere o limitare lo studio del Latino e di altre discipline di tal genere… Precisamente mossi da questa necessità, Noi riteniamo che si debba intraprendere il cammino opposto. Poiché l’animo si nutre e compenetra di tutto ciò che maggiormente onora la natura e la dignità dell’uomo, con maggiore ardore si deve acquisire ciò che arricchisce ed abbellisce lo spirito, affinché i miseri mortali non siano freddi, aridi e privi di amore, come le macchine che fabbricano» (14).

Dopo aver esaminato queste cose e dopo averle valutate attentamente, con sicura coscienza del Nostro ufficio e nell’esercizio della Nostra autorità, stabiliamo e ordiniamo quanto segue:
1. Sia i Vescovi che i Superiori Generali degli Ordini religiosi si adoperino efficacemente perché nei loro Seminari e nelle loro Scuole, nelle quali i giovani vengono preparati al sacerdozio, tutti si conformino con impegno alla volontà della Sede Apostolica e obbediscano con la maggiore diligenza a queste Nostre prescrizioni.
2. I medesimi Vescovi e Superiori Generali degli Ordini religiosi, mossi da paterna sollecitudine, vigileranno affinché nessuno dei loro soggetti, smanioso di novità, scriva contro l’uso della lingua latina nell’insegnamento delle sacre discipline e nei sacri riti della Liturgia e, con opinioni preconcette, si permetta di estenuare la volontà della Sede Apostolica in materia e di interpretarla erroneamente.
3. Come è stabilito nelle disposizioni sia del Codice di Diritto Canonico sia dei Nostri Predecessori, gli aspiranti al Sacerdozio, prima di intraprendere gli studi ecclesiastici veri e propri, siano istruiti nella lingua latina con somma cura e con metodo razionale da maestri assai esperti, per un conveniente periodo di tempo, «anche per il motivo che, in seguito, avvicinatisi a discipline di maggior impegno… non accada che, ignorando la lingua, non possano giungere alla completa comprensione delle dottrine e nemmeno esercitarsi nelle dispute scolastiche, per mezzo delle quali le menti dei giovani si affinano alla difesa della verità» (15). E vogliamo che questa norma sia estesa anche a coloro che, chiamati per volontà divina a ricevere i sacri ordini in età avanzata, si applicarono poco o nulla agli studi umanistici. Nessuno, invero, deve essere introdotto allo studio delle discipline filosofiche o teologiche se non sia stato pienamente e perfettamente istruito in questa lingua e sappia bene usarla.
4. Se in qualche paese, poi, per aver adottato un programma di studio proprio delle scuole pubbliche dello Stato, lo studio della lingua latina abbia subito delle diminuzioni, con danno di un insegnamento solido ed efficace, decretiamo che in tal caso sia completamente ripristinato l’ordine tradizionale dell’insegnamento di tale lingua per la formazione dei sacerdoti: poiché tutti devono persuadersi che, anche in questo campo, il metodo di istruzione dei futuri sacerdoti deve essere difeso scrupolosamente, non solo circa il numero ed i generi delle materie, ma anche relativamente ai periodi di tempo necessari per insegnarle. E se, qualora lo richiedano circostanze di tempo e di luogo, si debbano per necessità aggiungere delle discipline a quelle comuni, in tal caso o si prolunghi il corso degli studi o se ne compendi la trattazione, o, infine, se ne rinvii lo studio ad altro momento.
5. Le piú importanti discipline sacre, come è stato assai spesso ordinato, devono essere insegnate in lingua latina, la quale, come lo dimostra l’esperienza di parecchi secoli, «è stimata la piú adatta a spiegare l’intima e profonda natura delle nozioni e delle forme con assoluta chiarezza e lucidità» (16); tanto piú che essa si è venuta arricchendo di vocaboli appropriati e precisi, adatti a difendere l’integrità della fede cattolica, e non poco adatta recidere ogni vuota verbosità. Per la qual cosa, coloro che nelle Università o nei Seminari insegnano tali discipline sono obbligati e a parlare in latino e ad usare testi scritti in latino. Se alcuni, ignorando la lingua latina, non sono nella possibilità di obbedire a queste prescrizioni della S. Sede, siano gradatamente sostituiti da docenti a ciò preparati. Se poi alunni e professori addurranno delle difficoltà, è necessario che queste siano vinte dalla fermezza dei Vescovi e dei Superiori religiosi e dalla buona disposizione dei docenti.
6. Poiché la lingua latina è lingua viva della Chiesa, che dev’essere continuamente adattata alle crescenti necessità del linguaggio e arricchita con nuovi e appropriati e convenienti vocaboli, secondo una regola costante, universale e conforme allo spirito dell’antica lingua latina – regola che già seguirono i Santi Padri e i migliori scrittori «scolastici» – affidiamo l’incarico alla Sacra Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi di fondare un’Accademia di Studi Latini. A tale Accademia, nella quale occorre sia costituito un Collegio di Professori espertissimi in Latino e in Greco, chiamati dalle diverse parti del mondo, sarà soprattutto ordinato che, non diversamente da quanto accade per le Accademie nazionali costituite per l’incremento della lingua nazionale dei rispettivi paesi, provveda contemporaneamente ad un ordinato sviluppo dello studio della lingua latina e ad accrescere, se necessario, il lessico con parole adatte alla sua natura ed al suo carattere, e tenga, nello stesso tempo dei corsi sul latino di ogni epoca, ma soprattutto di quella Cristiana. In queste scuole saranno altresí istruiti ad una piú profonda conoscenza del latino, al suo uso, ad un modo di scrivere appropriato ed elegante quanti sono destinati o ad insegnarlo nei Seminari e nei Collegi ecclesiastici, o a scrivere decreti e sentenze, o a curare la corrispondenza nelle Congregazioni della Santa Sede, nelle Curie, nelle Diocesi, negli uffici degli Ordini religiosi.
7. Poiché la lingua latina è strettamente connessa con quella greca, e per l’insieme della sua struttura e per l’importanza dei testi tramandati, è necessario che anche in questa siano istruiti, come molte volte i Nostri Predecessori hanno ordinato,  i futuri ministri dell’arte fin dalle scuole inferiori e medie, affinché, quando si applicheranno alle discipline superiori e soprattutto se raggiungeranno i corsi accademici sulle Sacre Scritture e sulla Sacra Teologia, essi abbiano la possibilità di accostarsi e interpretare giustamente non solo le fonti greche della filosofia «scolastica», ma anche i testi originali delle Sacre Scritture, della Liturgia e dei Padri greci.
8. Alla medesima Sacra Congregazione ordiniamo di predisporre un ordinamento degli studi sulla lingua latina, che tutti dovranno applicare con estrema diligenza, in modo che, quanti lo seguiranno, acquistino appropriata conoscenza e pratica della lingua stessa. Se il caso lo richiederà, le Commissioni degli Ordinari potranno regolare diversamente il programma, ma giammai mutarne o diminuirne la natura e il fine. Nondimeno, gli stessi Vescovi non si permettano di attuare le loro decisioni, se prima la Sacra Congregazione non le avrà esaminate ed approvate.
Infine, in virtú della Nostra Apostolica Autorità vogliamo ed ordiniamo che quanto abbiamo stabilito, decretato, ordinato ed ingiunto con questa Nostra Costituzione resti definitivamente fermo e sancito non ostante qualsiasi prescrizione in contrario, pur degna di speciale menzione.

Dato in Roma, presso San Pietro, il giorno 22 febbraio, Festa della Cattedra di San Pietro Apostolo, nell’anno 1962, quarto del Nostro Pontificato. Ioannes PP. XXIII

NOTE

1 – TERTULL., Apol., 21: Migne, P. L., 1, 394.
2 – S. PAOLO, Epist. agli Efesini, 1, 10.
3 – Epist. S. Congr. Stud. Vehementer sane ad Ep. universos, 1-7-1908: Enchirid. Cler. n° 830. Cfr. anche Epist. Ap. Pio XI Unigenitus Dei Filius, 19-3-1924: A.A.S. 16 (1924), 141.
4 – Pio XI, Epist. Ap. Officiorum omnium, 1-8-1922: A.A.S. 14 (1922), 452-453.
5 – Pio XI, Motu Proprio Litterarum Latinarum, 20-10-24: A.A.S.
6 – Pio XI, Epist. Ap. Officiorum omnium, 1-8-1922: A.A.S. 14 (1922), 452
7 – Ibidem.
8 – S. IRENEo, Adv. Hær, 3, 3, 2: Migne, P. G., 7, 848
9 – Cfr. C.I.C., can. 218, par. 2.
10 – Cfr. Pio XI, Epist. Ap. Officiorum omnium, 1-8-1922: A.A.S. 14 (1922), 453.
11 – Pio XII, Alloc. Magis quam, 23-11-1951: A.A.S. 43 (1951), 737.
12 – Leone XIII, Epist. Encicl. Depuis le Jour, 8-9-1899: Acta Leonis XIII 19 (1899), 166.
13 – Cfr. Collectio Lacensis, soprattutto vol. III, 1018 s. (Conc. Prov. Wesmonasteriense, a. 1859); vol. IV, 29 (Conc. Prov. Parisiense, a. 1849); vol. IV, 149, 153 (Conc. Prov Rhemense, a. 1849); vol. IV, 359, 361 (Conc. Prov. Amenionense, a. 1849); vol. IV, 394, 396 (Conc. Prov. Burdigalense, a. 1850); vol. V, 61 (Conc. Prov. Strigoniense, a. 1858); vol. V, 664 (Conc. Prov. Colocense, a. 1863); vol. VI, 619 (Synod. Vicariatus Sutchenensis, a. 1803).
14 – Al Congresso Internazionale Ciceronianis Studiis provehendis, 7-9-1959: in Discorsi, Messaggi, Colloqui del S. Padre Giovanni XXIII, I, pp. 334-335; cfr. anche Alloc. ad cives diocesis Placentinæ Roman peregrinantes habita, 15-4-1959: su L’Osservatore Romano, 16-4-1959; Epist. Pater misericordiarum, 22-8-1961: A.A.S. 53 (1961); Alloc. in solemni auspicatione Insularum Philippinarum de Urbe Habita, 7-10-1961: su L’Osservatore Romano, 9-10 ottobre 1961; Epist. Iucunda laudatio, 8-12-1961: A.A.S. 53 (1961), 812.
15 – Pio XI, Epist. Ap. Officiorum omnium, 1-8-1922: A.A.S. 14 (1922), 453
16 – Epist. S. Congr. Stud. Vehementer sane ad Ep. universos, 1-7-1908: Enchirid. Cler. n° 821.

La santità del sacerdote secondo San Tommaso

Quanto maggior somiglianza con Cristo i fedeli riscontreranno nei sacerdoti, tanto più facilmente si lasceranno guidare da loro. E, pertanto, più efficace sarà il loro ministero.

di Mons. João Scognamiglio Clá Dias, EP

Considerando in profondità l’essenza dell’ordinazione sacerdotale e dello stesso ministero sacro, San Tommaso ci insegna che il presbitero deve tendere alla perfezione ancora di più rispetto a un religioso o una suora. Per comprendere questo insegnamento, basta infatti tenere ben presente l’alto grado di santità che la Celebrazione Eucaristica e la santificazione delle anime richiedono da un ministro,1 come ci esorta il Divino Maestro: “Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini. Voi siete la luce del mondo” (Mt 5, 13-14a).

Tenuto conto di questa enorme responsabilità, si comprende il motivo per il quale non pochi santi hanno avuto timore dell’ordinazione sacerdotale. E’ una questione di scottante attualità, perché il maggiore o minore successo del suo ministero a favore dei fedeli può dipendere, in particolare, dal sacerdote stesso. Sappiamo che i Sacramenti operano con efficacia per il potere di Cristo, producendo la grazia di per sè.

Tuttavia, la loro profondità sarà maggiore o minore a seconda delle disposizioni interiori di chi li riceve. E qui entra in gioco un elemento soggettivo, nel quale ha un importante ruolo l’azione pastorale del ministro ordinato, poiché la sua virtù, il suo fervore, il suo impegno a predicare il Vangelo, in definitiva, la santità della sua vita – che è, a sua volta, una forma eccellente ed insostituibile di predicazione -, possono influenzare i fedeli a ricevere i Sacramenti con migliore disposizione, beneficiandosi maggiormente dei loro frutti.

Sarà questo il fattore più rilevante per il buon adempimento del ministero sacerdotale? A tal proposito, nella Lettera per la Proclamazione dell’Anno Sacerdotale, del 16 giugno scorso, Papa Benedetto XVI evidenzia che il sacerdote deve apprendere da San Giovanni Maria Vianney “la sua totale identificazione col proprio ministero”. Ecco perché il Santo Padre vuole, in questo tempo, “favorire la tensione dei sacerdoti verso la perfezione spirituale da cui dipende, principalmente, l’efficacia del loro ministero”.2

È questo punto – di massima importanza per la vita della Chiesa, specialmente per la missione di annunciare il Vangelo e santificare i fedeli – che verrà qui sviluppato: la relazione tra efficacia del ministero sacerdotale e santità personale di coloro che lo esercitano. Si ricorrerà innanzitutto al perenne insegnamento di San Tommaso d’Aquino.

La santità del sacerdote, una esigenza

Fin dall’Antica Legge, la persona del sacerdote è stata circondata da una dignità che richiede una vita esemplare. Così, nel Libro del Levitico, troviamo un doppio appello alla santità. Da una parte, su ordine di Dio, Mosè esorta il popolo di Israele a cercare la perfezione: “Parla a tutta la comunità degli Israeliti e ordina loro: Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lv 19, 1). Ai sacerdoti la santità è richiesta con più ragione, perché sono loro che offrono sacrifici, giocando il ruolo di intermediari tra Dio e il popolo.

Presentarsi macchiato dal peccato davanti all’Altissimo, per esercitare il munus sacerdotale, sarebbe un affronto al Creatore. “I sacerdoti […] saranno santi per il loro Dio e non profaneranno il nome del loro Dio, perché offrono al Signore sacrifici consumati dal fuoco, pane del loro Dio; perciò saranno santi” (Lv 21, 5-6).

Dal momento che l’Antico Testamento è prefigurazione del Nuovo, si comprende la necessità che, nella Nuova Alleanza, la santità raggiunga un grado maggiore. Questo si riflette nella teologia tomista, che ci presenta il ministro ordinato come elevato ad una dignità regale, nel mezzo di altri fedeli di Cristo, poiché rappresenta e, in diverse occasioni, agisce in persona Christi. Impossibile, pertanto, immaginare un titolo più alto. Essendo poi chiamato ad essere mediatore tra Dio e gli uomini, oltre che guida di costoro per le cose divine, egli deve necessariamente essere superiore a loro in santità, anche se tutti i battezzati sono chiamati alla perfezione.

Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, nella sua opera La Selva, basandosi sull’autorità di San Tommaso, delinea la figura del sacerdote come colui che, per il suo ministero, supera in dignità gli stessi Angeli e, per questo è costretto ad una maggiore santità, dato il loro potere sul Corpo di Cristo. Da qui, conclude il fondatore dei Redentoristi, la necessità di una dedizione integrale del sacerdote alla gloria di Dio, in modo tale che brilli agli occhi del Signore, in virtù della sua buona coscienza e agli occhi del popolo per la sua buona reputazione.3

A questo proposito ancora, la dottrina tomista ricorda la necessità che i ministri del Signore abbiano una vita santa: “In omnibus ordinibus requiritur sanctitas vitæ”.4 Devono, pertanto, soprattutto loro, essere il più possibile simili allo stesso Dio: “Siate perfetti così come il vostro Padre Celeste è perfetto” (Mt 5, 48). Sono note le invettive di Nostro Signore contro gli scribi e i farisei.

Ciò che Gesù recriminava a questi uomini, che tanto conoscevano la Legge, era proprio il fatto di non vivere quello che insegnavano. Pretendendo di apparire agli occhi degli altri come illustri esecutori dei precetti mosaici, non avevano una retta intenzione, né vero amore per Dio. I loro riti esteriori non erano accompagnati dalla compunzione di cuore. Affinché i sacerdoti della Nuova Alleanza, non cadano nello stesso difetto, è opportuno ricordare il commento alle Sentenze di Pietro Lombardo, in cui San Tommaso afferma: “Coloro che si dedicano ai ministeri divini ottengono una dignità regale e devono essere perfetti nella virtù, come si legge nel Pontificale”.5

È per questo che nell’omelia suggerita nel rito di ordinazione sacerdotale è inclusa questa toccante esortazione: “Prendi coscienza di quello che fai, e metti in pratica ciò che celebri, in modo che, nel celebrare il mistero della Morte e Risurrezione del Signore, farai ogni sforzo per mortificare il tuo corpo, fuggendo i vizi, per vivere una nuova vita”.6 L’amore ha portato il Signore Gesù a offrire la propria vita in olocausto sulla Croce, per la redenzione dell’umanità.

Anche coloro che sono chiamati ad essere mediatori tra Dio e gli uomini, devono esercitare il loro ministero per amore, come insegna l’Aquinate. Il sacerdote, quindi, è chiamato ad un grado di santità speciale: “Dall’Ordine sacro, il chierico è consacrato ai ministeri più degni che esistono, nei quali egli serve Cristo nel Sacramento dell’altare, il che richiede una santità interiore maggiore di quella richiesta nello stato religioso”.7

Il sacerdote è un modello per i fedeli

Essendo visto dai fedeli come una persona scelta da Dio a guidarli, il ministro ordinato deve essere sempre esempio illustre di virtù, come raccomanda l’Apostolo al suo discepolo Tito: “Mostrati in tutto modello di buona condotta: per la purezza di dottrina, dignità, linguaggio sano e irreprensibile, perché il nostro avversario resti confuso, non avendo nulla di male da dire sul conto nostro.” (Tt 2, 7-8).

Infatti, un comportamento irreprensibile, infiammato dalla carità, che dà testimonianza della bellezza della Chiesa e della verità del messaggio evangelico, parlerà molto più profondamente ed efficacemente alle anime che il più logico ed eloquente dei discorsi: “La gloria del maestro è la vita virtuosa del discepolo, come la salute dell’infermo ridonda a lode del medico. […] Se presentiamo le nostre buone opere, sarà lodata la dottrina di Cristo”.8 Cristo è il vero modello del ministro consacrato.

È in Lui che il sacerdote deve configurarsi, non solo per il carattere sacramentale, ma anche per l’imitazione delle sue perfezioni, in modo che in lui i fedeli possano vedere un altro Cristo. Solo allora questi si sentiranno attratti dal buon esempio del loro pastore e guida. Data la natura sociale dell’uomo, la buona reputazione derivante dalla pratica della virtù conduce gli altri all’imitazione. Così, quanto più somiglianti a Cristo i fedeli troveranno i ministri di Dio, tanto più facilmente, essi si lasceranno guidare da loro. Pertanto, più efficace sarà il loro ministero.

La sacralità del sacerdote

Un elemento connesso al buon esempio è la proporzionata rispettabilità di cui deve circondarsi il ministro di Dio – non solo per il comportamento inattaccabile, ma anche per la postura, per il modo di essere e per l’abito – in modo che le sue azioni esercitino più influenza nell’anima dei fedeli. Infatti, anche ai nostri giorni, l’esperienza quotidiana ci mostra come è impressionante l’ammirazione che si porta al religioso o sacerdote che si presenta come tale.

Questa rispettabilità, che ad alcuni può sembrare artificialità, si rivela essere un prezioso aiuto al ministro stesso, perché contribuisce a tener sempre presente la grande dignità di cui è stato investito, che ha impresso carattere nella sua anima, per tutta l’eternità, oltre ad essere, allo stesso tempo, una salutare protezione contro le innumerevoli seduzioni del mondo.

La Santa Messa, fonte della santità sacerdotale

In questo Anno Sacerdotale, iniziato in occasione dei 150 anni della morte del Santo Curato d’Ars, modello di sacerdote, viene a proposito ricordare la sua radicata e ardente devozione alla Santa Messa: “Se conoscessimo il valore della Messa, moriremmo. Per celebrarla degnamente, il sacerdote dovrebbe essere santo. Quando saremo in Cielo, allora vedremo che cos’è la Messa, e come tante volte la celebriamo senza la debita reverenza, adorazione, raccoglimento”.9

Nel decreto Presbyterorum ordinis, il Concilio Vaticano II, in perfetta armonia con la dottrina tomista, riassume mirabilmente la centralità dell’Eucaristia nella vita spirituale del sacerdote, come suo principale mezzo di santificazione.

Ricorda, in seguito, che è attraverso il ministero ordinato che il sacrificio spirituale dei fedeli si consuma in perfetta unione con il sacrificio di Cristo, offerto nell’Eucaristia in modo incruento e sacramentale. Afferma inoltre che “a questo tende e in questo si consuma il ministero dei presbiteri. Infatti, il loro ministero, che inizia con la predicazione del Vangelo, prende dal sacrificio di Cristo la loro forza e la loro virtù”.10 Il che equivale a dire che il sacerdote vive per la Celebrazione Eucaristica ed è da questa che deve acquistare la forza per progredire nella pratica della virtù.

Garrigou-Lagrange sintetizza con precisione questa dottrina: “Il sacerdote deve considerarsi ordinato principalmente per offrire il Sacrificio della Messa. Nella sua vita, questo Sacrificio è più importante dello studio e delle opere esteriori di apostolato. Infatti, il suo studio deve essere indirizzato alla conoscenza sempre più approfondita del mistero di Cristo, sommo Sacerdote e il suo apostolato deve derivare dall’unione con Cristo, Sacerdote principale”.11 Royo Marín, commentando l’esortazione del Pontificale Romano, fatta dal Vescovo agli ordinandi, afferma con enfasi che la Santa Messa è “la funzione più alta e augusta del sacerdote di Cristo”.12

E, conoscitore delle molteplici occupazioni pastorali di un sacerdote, che possono facilmente distrarlo dal fulcro della sua vocazione di mediatore tra Dio e gli uomini, rafforza la stessa idea, subito dopo, con accese parole di zelo sacerdotale: “Si è un sacerdote in primo luogo e soprattutto, per glorificare Dio mediante l’offerta del Santo Sacrificio della Messa”.13 Benedetto XVI, trattando della vocazione e spiritualità sacerdotali, sotto una prospettiva pastorale, afferma: “La Celebrazione Eucaristica è il grande e nobile atto di preghiera e costituisce il centro e la fonte dal quale anche le altre forme di preghiera ricevono la “linfa”: la Liturgia delle Ore, l’adorazione eucaristica, la lectio divina, il santo Rosario, la meditazione”.14

L’efficacia del ministero sacerdotale

Come abbiamo visto in precedenza, la santità di vita del sacerdote, come esempio per i fedeli di Cristo, è un potente elemento per condurli alla perfezione. Bene sottolinea Mons. Chautard che a un sacerdote santo corrisponde un popolo fervente; a un sacerdote zelante, un popolo devoto; a un sacerdote pio, un popolo onesto; a un sacerdote onesto, un popolo malvagio.15 Grande è, dunque, il ruolo della virtù del ministro, per il successo del suo ministero.

Per quanto riguarda l’applicazione del valore della Santa Messa, con finalità propiziatoria, si può parlare della sua efficacia soggettiva, dipendente dalle disposizioni di chi la celebra e di coloro ai quali essa si applica, come spiega San Tommaso: “Sebbene l’offerta dell’Eucaristia, per la sua stessa grandezza basti alla soddisfazione di ogni pena, tuttavia ha valore di soddisfazione per coloro per cui viene offerta, o per coloro che la offrono, secondo la misura della loro devozione, e non di tutta la pena loro dovuta”.16

Su questo passo del Dottore Angelico, Albert Raulin commenta così: “Sarebbe una perniciosa illusione credere che l’offerente sia esonerato dal fervore con il pretesto che Cristo, offrendoSi nella Messa, ha soddisfatto pienamente per tutti i peccati del mondo”.17 Di fronte a questa realtà, il sacerdote ha due grandi doveri uno verso se stesso e l’altro verso il popolo, poiché entrambi traggono beneficio dai frutti della Santa Messa, specialmente il celebrante, conforme il grado di fervore o devozione.18

In questo modo, egli corrisponderà all’altissima dignità del suo ministero, come diceva il Santo Curato d’Ars: “Senza il sacramento dell’Ordine, non avremmo il Signore. Chi Lo ha collocato lì in quel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha accolto la tua anima nel primo momento dell’ingresso nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di realizzare il suo pellegrinaggio? Il sacerdote.

Chi ha da prepararla a comparire davanti a Dio, lavandola per l’ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, sempre il sacerdote. E se quest’anima arriva a morire [col peccato], chi la resusciterà, chi le restituirà la serenità e la pace? Ancora il sacerdote. […] Dopo Dio, il sacerdote è tutto! […] Lui stesso non si comprenderà bene da se stesso, se non in Cielo”.19

La voce della Cattedra di Pietro

Giunti al termine di questo lavoro, invece di ricapitolare l’argomento trattato, come sarebbe di prammatica nel migliore stile accademico, ci sembra filiale verso la Cattedra di Pietro ricordare qui, a titolo di conclusione, alcuni punti importanti di documenti recenti del Magistero Pontificio sul sacerdozio. Non smette di commuovere come, nella sua ultima Lettera ai Sacerdoti, nel 2005, Papa Giovanni Paolo II abbia voluto centrare questo documento sulle parole della Consacrazione, quasi a voler sottolineare che l’apice della sua vita sacerdotale si stava avvicinando, con l’offerta del suo stesso sacrificio, con il dono totale della vita unita al sacrificio di Cristo.

Offerta raccomandata dall’attuale pontefice nella Lettera per la Proclamazione dell’Anno Sacerdotale, citando queste parole del Santo Curato d’Ars, “Come fa bene un sacerdote offrendosi in sacrificio a Dio, tutte le mattine!”. Infatti, Giovanni Paolo II iniziava la sua ultima Lettera ricordando che “se tutta la Chiesa vive dell’Eucaristia, l’esistenza sacerdotale deve a titolo speciale assumere ‘forma eucaristica’”.20

È essenziale che il sacerdote, per salvare coloro che gli sono affidati, offra il proprio sacrificio, unito a quello di Cristo, ad esempio di San Paolo: “Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1, 24). È in questa maniera che le parole della Consacrazione si trasformano in “formula di vita”, secondo l’esempio dato dal Servo di Dio Giovanni Paolo II.

Insegnamento questo ricordato anche dal suo successore, Benedetto XVI: “Le anime costano il Sangue di Cristo e il sacerdote non può dedicarsi alla sua salvezza se si rifiuta di contribuire con la sua parte per l’ ‘alto prezzo’ della Redenzione”.21 Non possiamo, infine, non evocare il ruolo insostituibile della Madre di Dio nella vita sacerdotale. “Chi può, meglio di Maria, farci assaporare la grandezza del mistero eucaristico? Nessuno può, come Lei, insegnarci con quanto fervore dobbiamo celebrare i santi Misteri e trattenerci in compagnia di suo Figlio, nascosto sotto le specie dell’Eucaristia”.22

Ci insegna ancora questo Papa così mariano, quale è stato Giovanni Paolo II, nella sua Enciclica Ecclesia de Eucaristia: “Nel ‘memoriale’ del Calvario, è presente quanto Cristo ha realizzato nella sua Passione e Morte. Per questo, non può mancare ciò che Cristo ha fatto per sua Madre a nostro favore. Infatti, Le ha consegnato il discepolo prediletto e, con lui, ognuno di noi: ‘Ecco qui Tuo figlio.

Allo stesso modo dice anche ad ognuno di noi: ‘Ecco la tua madre'” (cfr. Gv 19, 26-27). In quest’Anno Sacerdotale, cerchiamo specialmente di stare uniti al sacrificio di Cristo con lo spirito di Maria, Egli che ha fatto di tutta la sua esistenza una Eucaristia anticipata, preparandoSi giorno per giorno alla Sua consegna suprema sul Calvario.

(Passi dello studio preparato per la Pontificia Congregazione per il Clero, in occasione dell’Anno Sacerdotale – Testo integrale in www.annussacerdotalis.org, sezione “Studi”)

1 Cf. GARRIGOU-LAGRANGE, OP, Réginald.
De Sanctificatione sacerdotum, secundum nostri temporis exigentias.
Roma: Marietti, 1946, pagg.66-67.
2 BENEDETTO XVI. Discorso alla Congregazione per il Clero, 16/03/2009.
3 Cf. SANTO AFONSO MARIA DE LIGÓRIO.
A Selva. Porto: Fonseca, 1928, pag.6. L’Autore rimanda ai seguenti punti delle opere di San Tommaso: Summa Theologiæ, III, q.22, a.1, ad.1; Super Heb. c.5, lec. 1; Summa Theologiæ, II-II, q.184, a.8; Summa Theologiæ, Supl. q.36, a.1.
4 SANCTUS THOMAS AQUINAS, Summa Theologiæ, Supl. q.36, a.1.
5 SANCTUS THOMAS AQUINAS. IV Sent.
d.24, q.2.
6 PONTIFICAL ROMANO.
Rito de Ordenação de Diáconos, Presbíteros e Bispos, n. 123.
São Paulo: Paulus, 2004.
7 SANCTUS THOMAS AQUINAS, Summa Theologiae, II-II, q.184, a.8., Resp.
8 Super Tit. c.2, lec.2.
9 Apud GARRIGOU-LAGRANGE, OP, Réginald.
De unione sacerdotis cum Christo sacerdote et victima. Roma: Marietti, 1948, pag. 42.
10 Presbyterorum ordinis, n.12.
11 GARRIGOU-LAGRANGE, OP, op. cit., pag.38.
12 ROYO MARÍN, OP, Antonio. Teología de la Perfección Cristiana.
Madrid: BAC, 2001, pag.848.
13 Idem, ibidem.
14 BENEDETTO XVI.
Omelia nella Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, 3/5/2009.
15 Cf. CHAUTARD, OCSO, Jean-Baptiste. A Alma de todo o apostolado.
Porto: Civilização, 2001, pagg.34-35.
16 SANCTUS THOMAS AQUINAS, Summa Theologiæ, III, q.79, a.5, Resp.
17 In: SÃO TOMÁS DE AQUINO. Suma Teológica.
São Paulo: Loyola, 2006, v.IX, pag.358. 18 Cf. ROYO MARÍN, OP, Antonio. Teología Moral para Seglares. Madrid: BAC, 1994, v.II, pag.158.
19 Parole di San Giovanni Maria Vianney, citate dal Papa Benedetto XVI nella Lettera per la Proclamazione dell’Anno Sacerdotale, del 16/6/2009.
20 GIOVANNI PAOLO II.
Lettera ai Sacerdoti, n.1, 13/05/2005.
21 BENEDETTO XVI. Lettera per la Proclamazione dell’Anno Sacerdotale, 16/6/2009.
22 GIOVANNI PAOLO II.
Op. cit., n.8, 13/3/2005.

(Rivista Araldi del Vangelo,Febbraio/2010, n. 82, p. 18 -23)

Il linguaggio della Celebrazione liturgica

di Mons. Guido Marini

MAESTRO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE PONTIFICIE

Conferenza tenuta il 24 febbraio 2011, nell’Università Pontificia della Santa Croce – Roma, durante il corso:
“Ars celebrandi. Premessa per una fruttuosa partecipazione alla celebrazione eucaristica”.

La necessità della teologia liturgica 

Iniziare un corso sulla “ars celebrandi”, trattando il tema del linguaggio della celebrazione liturgica, non è possibile farlo senza richiamare alla memoria il noto passaggio dell’Esortazione Apostolica Sacramentum caritatis di Benedetto XVI: “Altrettanto importante per una giusta ars celebrandi è l’attenzione verso tutte le forme di linguaggio previste dalla liturgia: parola e canto, gesti e silenzi, movimento del corpo, colori liturgici dei paramenti. La liturgia, in effetti, possiede per sua natura una varietà di registri di comunicazione che le consentono di mirare al coinvolgimento di tutto l’essere umano. La semplicità dei gesti e la sobrietà dei segni posti nell’ordine e nei tempi previsti comunicano e coinvolgono di più che l’artificiosità di aggiunte inopportune. L’attenzione e l’obbedienza alla struttura propria del rito, mentre esprimono il riconoscimento del carattere di dono dell’Eucaristia, manifestano la volontà del ministro di accogliere con docile gratitudine tale ineffabile dono” (n. 40).
Fatta questa premessa, che certamente accompagnerà la nostra riflessione, è necessario affermare che parlare di linguaggio, nel senso più ampio del termine, significa per ciò stesso fare riferimento a una realtà che lo precede. Il linguaggio, da questo punto di vista, non può mai essere svincolato da tale realtà, della quale è chiamato a essere espressione. Quel linguaggio lo si potrà considerare vero, in quanto pienamente corrispondente a quella realtà, o lo si potrà considerare falso, ovvero non in sintonia con essa. Ma, sempre e comunque, lo si dovrà valutare in relazione a quella realtà.
In tal modo, proprio la considerazione del rapporto tra linguaggio e realtà sarà in grado di aiutarci a rilevarne la verità.
Quanto detto ci consente di entrare nel tema di cui si deve trattare: ovvero “Il linguaggio della celebrazione liturgica”. Parlare di linguaggio della celebrazione liturgica sottende che si abbia ben presente che cosa è la celebrazione liturgica o, in termini ancora più generali, che cosa è la liturgia. Altrimenti si corre il rischio di perdersi in un discorso superficiale e disancorato dalle ragioni profonde di un linguaggio che, solo a partire da quelle ragioni, può essere compreso e correttamente praticato.
E’ per questo motivo che intendo sviluppare il discorso sul linguaggio liturgico a partire dall’essenza della liturgia, così da ritrovare la radice da cui scaturisce il suo ricco patrimonio espressivo. Solo una ben corredata teologia liturgica è in grado di avviare un discorso corretto sulla liturgia, in quanto celebrata e dotata di un suo proprio linguaggio. Ritorna sempre pertinente, al di là di ogni sua possibile interpretazione e contestualizzazione storica, l’antico adagio di Prospero di Aquitania: “Lex orandi – lex credendi”. La liturgia è la fede celebrata. 

Un ritratto sintetico dell’essenza della liturgia

Diventa così necessario illustrare in sequenza alcuni tratti distintivi che caratterizzano l’essenza della liturgia, considerandone poi le conseguenze per quanto attiene l’espressività linguistica. La qual cosa intendo fare riferendomi al Catechismo della Chiesa Cattolica, quale sintesi attualmente più autorevole, anche per quanto attiene alla liturgia, dell’insegnamento del Concilio Vaticano II e del magistero successivo, presentato e interpretato in un rapporto di sviluppo nella continuità con la grande tradizione ecclesiale dei secoli precedenti.
Vale la pena, al riguardo, citare i numeri con i quali il testo del Catechismo riassume quanto fin lì affermato in merito alla liturgia, intesa come opera della Santa Trinità.
1110. Nella Liturgia della Chiesa Dio Padre è benedetto e adorato come la sorgente di tutte le benedizioni della creazione e della salvezza, con le quali ci ha benedetti nel suo Figlio, per donarci lo Spirito dell’adozione filiale.
1111. L’opera di Cristo nella Liturgia è sacramentale perché il suo Mistero di salvezza vi è reso presente mediante la potenza del suo Santo Spirito; perché il suo Corpo, che è la Chiesa, è come il sacramento (segno e strumento) nel quale lo Spirito Santo dispensa il Mistero della salvezza; perché, attraverso le sue azioni liturgiche, la Chiesa pellegrina nel tempo partecipa già, pregustandola, alla Liturgia celeste.
1112. La missione dello Spirito Santo nella Liturgia della Chiesa è di preparare l’assemblea a incontrare Cristo; di ricordare e manifestare Cristo alla fede dell’assemblea; di rendere presente e attualizzare, con la sua potenza trasformatrice, l’opera salvifica di Cristo, e di far fruttificare il dono della comunione nella Chiesa.
Tenendo presente questa bella sintesi formulata dal Catechismo e senza perdere di vista quanto affermato nello stesso Catechismo nelle sue altre parti riguardanti la celebrazione del mistero cristiano, intendo di illustrare quei tratti distintivi di cui parlavo poc’anzi e che caratterizzano l’essenza della liturgia della Chiesa. A partire da ogni tratto distintivo circa l’essenza, cercherò poi di illustrarne alcune conseguenze sotto il profilo del linguaggio celebrativo. 

La liturgia è opera di Cristo

Alcuni anni fa, nel 2009, è stata pubblicata una raccolta di contributi sulla liturgia del Cardinale Joseph Ratzinger, dal titolo: “Davanti al protagonista. Alle radici della liturgia”.
Si tratta semplicemente di un titolo, non c’è dubbio. Eppure è particolarmente indicativo di ciò che troviamo alle radici del discorso sulla liturgia. Alle radici vi troviamo Gesù Cristo, il Protagonista, il vero e più importante Protagonista della liturgia.
Attraverso la liturgia, infatti, il Signore continua nella sua Chiesa l’opera della nostra Redenzione (cf. Sacrosanctum concilium, 2). Ciò che è stato nella storia, ovvero il mistero pasquale, il mistero della nostra salvezza, si rende oggi presente nella celebrazione liturgica della Chiesa. In tal modo il Salvatore non è un ricordo del tempo passato, ma è il Vivente che continua la sua azione salvifica nella Chiesa, comunicando la sua vita, che è grazia e anticipo di eternità. […]
Non è pensabile andare all’essenza della liturgia senza riaffermare che il suo primo Protagonista è Gesù Cristo. Si ricordi ciò che afferma la Costituzione sulla sacra liturgia del Concilio Vaticano II: “Per realizzare un’opera così grande (la comunicazione della sua opera di salvezza) Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, in modo speciale nelle azioni liturgiche. E’ presente nel Sacrificio della Messa sia nella persona del ministro, «egli che, offertosi una volta sulla croce, offre ancora se stesso per il ministero dei sacerdoti», sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. E’ presente con la sua virtù nei sacramenti, di modo che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza. E’ presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura. E’ presente, infine, quando la Chiesa prega e loda, lui che ha promesso: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro» (Mt 18, 20)” (n. 7).

Lo splendore della nobile semplicità

La presenza misteriosa e reale di Cristo nella liturgia e il suo essere protagonista nel rito celebrato richiede al linguaggio liturgico lo splendore della nobile semplicità, secondo la celebre dizione del Concilio Vaticano II (cf. Sacrosanctum concilium, n. 34). Ho parlato di “splendore della nobile semplicità”, perché questa è l’espressione completa usata dai Padri Conciliari. In essa è dato riscontrare l’intrinseca relazione tra bellezza, nobiltà, semplicità.
Come sempre, ogni indicazione magisteriale deve essere letta e compresa nel contesto più ampio del tema di cui si tratta e in relazione di sviluppo armonico con l’intero insegnamento della Chiesa. In tal modo, ma non è possibile dilungarsi, si vede con chiarezza quanto siano distanti dal vero quelle marcate insistenze nel richiamare una certa semplicità che, a volte, hanno indotto a rendere il rito liturgico sciatto, banale, noioso, insignificante. Si tratta di un modo di intendere la semplicità non fondato sull’insegnamento della Chiesa e la sua grande tradizione liturgica. Per non dire che, in alcune occasioni, un tale modo di considerare la nobile semplicità si traduce in quella che potremmo definire una poco nobile nuova complessità. Non si tratta di questo quando la liturgia diventa teatro di trovate soggettive ed estemporanee, con l’inserimento di simboli privi di autentico significato o talmente complessi da dover essere a lungo spiegati?
Torniamo all’autentica nobile semplicità ascoltando Benedetto XVI, nell’Esortazione apostolica post sinodale sull’Eucaristia Sacramentum caritatis: “Il rapporto tra mistero creduto e celebrato si manifesta in modo peculiare nel valore teologico e liturgico della bellezza. La liturgia, infatti, come del resto la Rivelazione cristiana, ha un intrinseco legame con la bellezza: è veritatis splendor… Tale attributo cui facciamo riferimento non è mero estetismo, ma modalità con cui la verità dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina, ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l’amore… La vera bellezza è l’amore di Dio che si è definitivamente a noi rivelato nel Mistero pasquale. La bellezza della liturgia è parte di questo mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra… La bellezza pertanto non è un fatto decorativo dell’azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l’azione liturgica risplenda secondo la propria natura” (n. 35).
Le parole del Papa, come sempre, hanno il grande dono della chiarezza. Ne consegue che non è ammissibile alcuna forma di minimalismo e di pauperismo nella celebrazione liturgica. E questo, certo, non per fare spettacolo o per un vuoto estetismo. Il bello, nelle diverse forme antiche e moderne in cui trova espressione, è la modalità propria in virtù della quale risplende nelle nostre liturgie, pur sempre pallidamente, il mistero della bellezza dell’amore di Dio. Ecco perché non si farà mai abbastanza per rendere semplici, in quanto chiari nel loro svolgimento, nobili e belli i nostri riti. Ce lo insegna la Chiesa, che nella sua lunga storia non ha mai avuto timore di “sprecare” per circondare la celebrazione liturgica con le espressioni più alte dell’arte: dall’architettura, alla scultura, alla musica, agli oggetti sacri. Ce lo insegnano i santi che, pur nella loro personale povertà ed eroica carità, hanno sempre desiderato che al culto fosse destinato il meglio.
Ascoltiamo ancora Benedetto XVI: “Le nostre liturgie della terra, interamente volte a celebrare questo atto unico della storia, non giungeranno mai ad esprimerne totalmente l’infinita densità. La bellezza dei riti non sarà certamente mai abbastanza ricercata, abbastanza curata, abbastanza elaborata, poiché nulla è troppo bello per Dio, che è la Bellezza infinita. Le nostre liturgie terrene non potranno essere che un pallido riflesso della liturgia, che si celebra nella Gerusalemme del cielo, punto d’arrivo del nostro pellegrinaggio sulla terra.  Possano tuttavia le nostre celebrazioni avvicinarsi ad essa il più possibile e farla pregustare!” (Omelia alla celebrazione dei Vespri nella Cattedrale di Notre Dame a Parigi, 12 settembre 2008). 

La liturgia è azione della Chiesa

“La bellezza intrinseca della liturgia ha come soggetto proprio il Cristo risorto e glorificato nello Spirito Santo, che include la Chiesa nel suo agire” (Sacramentum caritatis, n. 36). E’ Benedetto XVI, con queste parole, a ricordarci che la liturgia è azione del Cristo totale e, dunque, anche della Chiesa.
Dall’affermazione che la liturgia è azione della Chiesa derivano alcune considerazioni di non poca importanza per quell’essenza della liturgia che vado illustrando. In effetti, quando si dice che la Chiesa è soggetto agente si fa riferimento alla Chiesa tutta, in quanto soggetto vivente che attraversa il tempo, che si realizza nella comunione gerarchica, che è insieme realtà ancora pellegrinante sulla terra e realtà già approdata sulle rive della Gerusalemme celeste.
Nell’agosto del 2006, a Castelgandolfo, Benedetto XVI, rispondendo alla domanda di un sacerdote, nel corso di un incontro con il clero della diocesi di Albano, si esprimeva così nello stile discorsivo tipico di un colloquio: “La Liturgia è cresciuta in due millenni e anche dopo la riforma non è divenuta qualcosa di elaborato soltanto da alcuni liturgisti. Essa rimane sempre continuazione di questa crescita permanente dell’adorazione e dell’annuncio. Così, è molto importante, per poterci sintonizzare bene, capire questa struttura cresciuta nel tempo ed entrare con la nostra mens nella vox della Chiesa. Nella misura in cui noi abbiamo interiorizzato questa struttura, compreso questa struttura, assimilato le parole della Liturgia, possiamo entrare in questa interiore consonanza e così non solo parlare con Dio come persone singole ma entrare nel «noi» della Chiesa che prega. E così trasformare anche il nostro «io» entrando nel «noi» della Chiesa, arricchendo, allargando questo «io», pregando con la Chiesa,con le parole della Chiesa, essendo realmente in colloquio con Dio”.
Entrare nel “noi” della Chiesa che prega. Questo “noi” ci parla di una realtà, la Chiesa appunto, che va al di là dei singoli ministri ordinati e dei singoli fedeli, delle singole comunità e dei singoli gruppi. Perché lì la Chiesa si manifesta e si rende presente nella misura in cui si vive la comunione con la Chiesa intera, quella Chiesa che è cattolica, universale, di una universalità che raggiunge tutti i tempi, tutti i luoghi, e varca la soglia del tempo per lasciarsi raggiungere dall’eternità.
Ne consegue che fa parte dell’essenza della liturgia il fatto che questa abbia anzitutto il tratto della cattolicità, dove unità e varietà si compongono in armonia così da formare una realtà sostanzialmente unitaria, pur nella legittima diversità delle forme. E poi il tratto della non arbitrarietà, che evita di consegnare alla soggettività del singolo o del gruppo ciò che invece appartiene a tutti come tesoro ricevuto, da custodire e trasmettere. E ancora il tratto della continuità storica, in virtù della quale l’auspicabile sviluppo appare quello di un organismo vivo che non rinnega il proprio passato, attraversando il presente e orientandosi al futuro. E, infine, il tratto della partecipazione alla liturgia del cielo, per il quale è quanto mai appropriato parlare della liturgia della Chiesa come dello spazio umano e spirituale nel quale il cielo si affaccia sulla terra. Si pensi, solo a titolo esemplificativo, al passaggio della Preghiera eucaristica I, nella quale chiediamo: “…fa’ che questa offerta, per le mani del tuo angelo santo, sia portata sull’altare del cielo…”.
Quanto fin qui detto in merito alla liturgia come azione della Chiesa non sarebbe sufficiente se non si aggiungesse il tema della partecipazione. Infatti è proprio la liturgia, intesa come azione della Chiesa, che esige una partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa (cf. Sacrosanctum concilium, n. 11). Ogni considerazione in merito rischia di essere senza costrutto e fuorviante se il punto di partenza non è l’azione di Cristo e della Chiesa. E’ proprio questa azione quella che chiede di essere partecipata in modo consapevole, attivo e fruttuoso. E ciò è possibile se si realizza un’autentica comunione del fedele con l’agire della Chiesa e l’agire di Cristo.
Ma qual è l’agire della Chiesa? E’ l’agire della Sposa che tende a diventare un’unica realtà con Cristo Sposo e con il suo agire. E qual è l’agire di Cristo? La sua offerta di amore al Padre per la nostra salvezza. Di conseguenza, la partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa in liturgia si ha nella misura in cui ciascuno e tutti condividiamo l’azione della Chiesa che tende allo Sposo e, dunque, ci lasciamo coinvolgere dall’azione dello Sposo che è donazione d’amore al Padre per la salvezza del mondo.
In quanto della Chiesa, poi, una tale azione dovrà realizzare e manifestare la Chiesa stessa, segno visibile della comunione di Dio e degli uomini, in Cristo. E avere, dunque, anche una sua rilevanza esterna, fatta di altre azioni che, esprimendo la compartecipazione di tutti nel modo proprio di ciascuno, troveranno sempre la loro motivazione nell’essere vie di partecipazione all’agire di Cristo. Non si potrebbe parlare, pertanto, di partecipazione autenticamente attiva se, ad esempio, colui che proclama le letture, presenta le offerte, serve all’altare, anima il canto, svolge qualunque altro ministero liturgico non trovasse in questa sua particolare modalità di presenza al rito la via per entrare in comunione con l’agire della Chiesa e di Cristo.

Il canto e la musica

Considerando la liturgia come azione della Chiesa intera, nel significato sopra indicato, mi piace al riguardo spendere una parola su quel fondamentale linguaggio liturgico che è il canto, considerato insieme alla musica.
Dice il salmista: “Un canto di lode mi onora, ed esso è la via per la quale mostrerò la salvezza di Dio” (Sal 49, 23). E così commenta san Gregorio Magno: “Ciò che in latino suona salutare, salvezza, in ebraico si dice Gesù. Nel canto di lode perciò viene creata una via di accesso, per la quale Gesù può rivelarsi, poiché quando mediante il canto dei Salmi viene riversata in noi la vera contrizione, si apre in noi una strada che conduce nel profondo del cuore, alla fine della quale si giunge a Gesù…” (In Ez I hom. I, 15).
Così il canto e la musica in liturgia, quando si esprimono secondo la verità del loro essere, nascono dal cuore che ricerca il mistero di Dio e diventano un’esegesi dello stesso mistero, della Parola fatta carne per la nostra salvezza. Pertanto c’è un legame intrinseco tra la parola, la musica e il canto nella celebrazione liturgica. Musica e canto, infatti, non possono essere slegati dalla parola, quella di Dio, della quale invece devono essere interpretazione fedele, svelamento comprensibile all’animo credente. Il canto e la musica in liturgia sgorgano dalle profondità del cuore, e dunque da Cristo che lo abita, e riconducono al cuore, vale a dire a Cristo che della domanda del cuore è risposta vera e definitiva. Questa è l’oggettività del canto e della musica liturgica, che non dovrebbe mai essere consegnata all’estemporaneità di sentimenti superficiali e di emozioni passeggere non rispondenti alla grandezza del mistero celebrato. Questa è la grande dignità del canto e della musica in liturgia, dove la semplicità non può in alcun modo fare rima con banalità o solo con mera utilità.
E’ giusto, quindi affermare che il canto e la musica in liturgia nascono dalla preghiera e portano alla preghiera, permettendo a noi di esprimerci con il linguaggio autentico della liturgia. In tal modo il canto diventa una via privilegiata di legame tra cielo e terra, di esperienza di comunione tra la Chiesa pellegrina e la Gerusalemme celeste, tra il mondo degli uomini e il mondo di Dio.
Mi sia consentito qui, parlando del canto e della musica, di accennare brevemente alla lingua latina. Non è il caso di fare ora riferimento ai numerosi testi del magistero, anche recente e contemporaneo, che auspicano un significativo uso del latino in liturgia. Basti qui ricordare quale straordinario tesoro di canto e musica per la liturgia ci hanno consegnato i secoli passati.
Qualcosa di quel tesoro la Chiesa lo ha definito perennemente valido, in sé e quale criterio per stabilire ciò che può essere davvero liturgico nelle nuove forme musicali che si vanno sviluppando nel tempo. Mi riferisco al gregoriano e alla polifonia sacra classica, forme di canto liturgico che consentono di valutare, oggi come ieri, ciò che attiene alla liturgia e ciò che, pur di valore artistico e di contenuto religioso, non può avere spazio nella celebrazione liturgica. Il valore perenne del gregoriano e della polifonia classica consiste nella loro capacità di farsi esegesi della parola di Dio e, dunque, del mistero celebrato, di essere al servizio della liturgia senza fare della liturgia uno spazio al servizio della musica e del canto. Potremo noi rinunciare a mantenere in vita tali tesori che secoli di storia della Chiesa ci hanno consegnato? Potremo noi fare a meno di attingere ancora oggi a quel patrimonio di spiritualità straordinario? Come sarà mai possibile dare corpo a un più ampio e degno repertorio di canto e di musica per la liturgia se non ci saremo lasciati educare da ciò che lo deve ispirare? E’ in gioco, anche in questo caso, l’elemento essenziale dello sviluppo e della riforma nella continuità dell’unico soggetto Chiesa.
Ecco perché dobbiamo conservare nei modi dovuti il latino. Senza dimenticare anche altre componenti di questa lingua liturgica, quale la sua capacità di dare espressione a quella universalità e cattolicità della Chiesa, a cui davvero non è lecito rinunciare. Come non provare, al riguardo, una straordinaria esperienza di cattolicità quando, nella basilica di San Pietro come in altri luoghi di raduno internazionale, uomini e donne di tutti i continenti, di nazionalità e lingue diverse pregano e cantano insieme nella stessa lingua? Chi non percepisce la calda accoglienza della casa comune quando, entrando in una chiesa di un paese straniero può, almeno in alcune parti, unirsi ai fratelli nella fede in virtù dell’uso della stessa lingua?
Perché questo continui a essere concretamente possibile è necessario che nelle nostre chiese e comunità l’uso del latino sia conservato, in via ordinaria, con sano equilibrio e con la dovuta saggezza pastorale. 

La liturgia è preghiera adorante

Il tema della partecipazione, che è stato prima accennato, offre ora l’opportunità di ampliare quanto già detto in merito all’agire di Cristo nella liturgia.
Lo facciamo lasciandoci condurre per mano da una fondamentale argomentazione del teologo Ratzinger: “Con il termine ‘actio’ riferito alla liturgia, si intende nelle fonti il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è la oratio: la grande preghiera, che costituisce il nucleo della celebrazione liturgica e che proprio per questo, nel suo insieme, è stata chiamata dai Padri con il termine oratio. Questa definizione era corretta già a partire dalla stessa forma liturgica, poiché nella oratio si svolge ciò che è essenziale alla Liturgia cristiana […] Questa oratio – la solenne preghiera eucaristica, ‘il canone’ – … è actio nel senso più alto del termine. In essa accade, infatti, che l’actio umana … passa in secondo piano e lascia spazio all’actio divina, all’agire di Dio” (Introduzione allo spirito della Liturgia, pp.167-168).
Nella oratio, di conseguenza, si svolge ciò che è essenziale alla liturgia cristiana. Ci domandiamo: “Che cosa è questo essenziale che si svolge?” Rispondiamo, seguendo il testo di Ratzinger: “L’agire di Dio”. Ora si tratta di approfondire in che cosa consista l’agire di Dio.
Si tratta dell’agire di Dio in Cristo, ovvero di quell’atto pregato mediante il quale il Signore offre la vita al Padre per la salvezza del mondo. Che si tratti di un atto pregato lo ricorda Benedetto XVI in un passo dell’omelia per la Messa “in Coena Domini” del 2009, a commento del Canone Romano: “Come prima cosa – affermava il Santo Padre – ci colpirà che il racconto dell’istituzione non è una frase autonoma, ma comincia con un pronome relativo: qui pridie [La vigilia della sua passione…]. Questo “qui” aggancia l’intero racconto alla precedente parola della preghiera, “… diventi per noi il corpo e il sangue del tuo amatissimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo”. In questo modo, il racconto è connesso con la preghiera precedente, con l’intero Canone, e reso esso stesso preghiera. Non è affatto semplicemente un racconto qui inserito, e non si tratta neppure di parole autoritative a sé stanti, che magari interromperebbero la preghiera. È preghiera. E soltanto nella preghiera si realizza l’atto sacerdotale della consacrazione che diventa trasformazione, transustanziazione dei nostri doni di pane e vino in Corpo e Sangue di Cristo”.
Ma che cosa avviene in quell’atto pregato del Signore, in quel suo atto che è preghiera? In quell’agire gli elementi della terra vengono accolti e trasformati nel suo corpo e nel suo sangue, così che il nuovo cielo e la nuova terra vengono anticipati. In quell’agire si compie il gesto di adorazione supremo che riconduce alla verità del proprio essere l’umanità tutta e la creazione intera: ogni realtà ritrova la sua ragione d’essere in Dio e nella dipendenza da lui.
Così la liturgia è adorazione in quanto rende presente in modo sacramentale il sacrificio della croce nel quale Gesù ha reso gloria al Padre con il suo sì, segno di un amore condotto “fino alla fine”, adorazione radicale di Dio e della sua volontà. Così la liturgia è preghiera in quanto preghiera di Cristo rivolta al Padre nello Spirito, perché accolga il suo sacrificio.
Ecco perché la liturgia cristiana è atto che conduce all’adesione, ovvero alla riunificazione dell’uomo e della creazione con Dio, all’uscita dallo stato di separazione, alla comunione di vita con Cristo.
E tutto questo è quanto la Chiesa, sposa di Cristo, vive nella celebrazione della liturgia. In effetti, ciò che ancora risulta essenziale per la liturgia è che coloro che vi partecipano preghino per condividere lo stesso sacrificio del Signore, il suo atto di adorazione, diventando una solo cosa con lui, vero corpo di Cristo. In altre parole, ciò che è essenziale è che alla fine venga superata la differenza tra l’agire di Cristo e il nostro agire, che vi sia una progressiva armonizzazione tra la sua vita e la nostra vita, tra il suo sacrificio adorante e il nostro, così che vi sia una sola azione, ad un tempo sua e nostra. Quanto affermato da san Paolo non può che essere l’indicazione di ciò che è essenziale conseguire in virtù della celebrazione liturgica: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2, 19-20).
Ascoltiamo, al riguardo, Divo Barsotti, in una sua celebre opera sulla liturgia: “E l’Avvenimento, l’Atto del Cristo, è prima di tutto Sacrificio, Sacrificio di adorazione. Il Verbo, nella natura umana che Egli ha assunto, riconosce con la sua Morte l’infinita santità di Dio e la sua sovranità. In Lui la creazione finalmente adora […] Una partecipazione nostra al Sacrificio di Gesù importa che noi si viva lo stesso annientamento suo… La condizione terrestre della nostra vita, nella sua accettazione volontaria, diviene il segno di una nostra partecipazione al Sacrificio di Gesù, alla sua adorazione” (Il mistero della Chiesa nella Liturgia, edizioni San Paolo, pp. 174-175).

Il sacro silenzio

Se la liturgia è preghiera adorante, ciò significa che quando è ben celebrata, con il linguaggio che le è proprio, in diverse sue parti, deve prevedere una felice alternanza di silenzio e parola, dove il silenzio anima la parola, permette alla voce di risuonare in felice sintonia con il cuore, mantiene ogni espressione vocale e gestuale nel giusto clima del raccoglimento.
Laddove vi fosse un predominio unilaterale della parola, non risuonerebbe l’autentico linguaggio della liturgia. Urge, pertanto, il coraggio di educare all’interiorizzazione, la disponibilità a imparare nuovamente l’arte del silenzio, di quel silenzio in cui apprendiamo quell’unica Parola che può salvare dall’accumularsi delle parole vane e dei gesti vuoti e teatrali.[…]
Il silenzio liturgico, allora, è davvero sacro perché è il luogo spirituale nel quale realizzare l’adesione di tutta la nostra vita alla vita del Signore, è lo spazio dell’“amen” prolungato del cuore che si arrende all’amore di Dio e lo abbraccia come nuovo criterio del proprio vivere. Non è forse questo il significato stupendo dell’“amen” conclusivo della dossologia al termine della preghiera eucaristica, nella quale tutti diciamo con la voce quanto a lungo abbiamo ripetuto nel silenzio del cuore orante?

L’adorazione

Quanto si è detto in merito alla preghiera adorante, impone che tutto, nel linguaggio dell’azione liturgica, conduca all’adorazione: la musica, il canto, il silenzio, il modo di proclamare la parola di Dio e il modo di pregare, la gestualità, le vesti liturgiche e le suppellettili sacre, così come anche l’edificio sacro nel suo complesso. Mi soffermo un istante su un gesto tipico e centrale dell’adorazione che oggi rischia di sparire, quale il mettersi in ginocchio, rifacendomi a un testo del cardinale Ratzinger: “Noi sappiamo che il Signore ha pregato stando in ginocchio (Lc 22, 41), che Stefano (At 7, 60), Pietro (At 9, 40) e Paolo (At 20, 36) hanno pregato in ginocchio. L’inno cristologico della Lettera ai Filippesi (2, 6-11) presenta la liturgia del cosmo come un inginocchiarsi di fronte al nome di Gesù (2, 10) e vede in ciò adempiuta la profezia isaiana (Is 45, 23) sulla signoria sul mondo del Dio d’Israele. Piegando il ginocchio nel nome di Gesù, la Chiesa compie la verità; essa si inserisce nel gesto del cosmo che rende omaggio al vincitore e così si pone dalla parte del vincitore poiché un tale inginocchiarsi è una rappresentazione e assunzione imitativa dell’atteggiamento di Colui che «era uguale a Dio» ed «ha umiliato se stesso fino alla morte»” (Rivista Communio, 35/1977).
Verrebbe da chiedersi se il ridursi sensibile dei segni del culto e dell’adorazione non siano motivati in profondità da un vacillare della fede in Gesù Figlio di Dio, unico e universale Salvatore di tutti, da un venir meno della certezza che senza conversione a Cristo e senza la grazia della croce non c’è salvezza per nessuno.
E’ anche per questo che è da ritenersi del tutto appropriata la pratica di inginocchiarsi per ricevere la santa Comunione. A ulteriore conferma ascoltiamo il Santo Padre in un passaggio di Sacramentum caritatis: “Già Agostino aveva detto: «Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo». Nell’Eucaristia, infatti, il Figlio di Dio ci viene incontro e desidera unirsi a noi; l’adorazione eucaristica non è che l’ovvio sviluppo della celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il più grande atto d’adorazione della Chiesa. Ricevere l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui e pregustiamo in anticipo, in qualche modo, la bellezza della liturgia celeste” (n. 66).
Qualcuno potrebbe riscontrare una contraddizione tra il gesto del mettersi in ginocchio e quello dell’incedere processionalmente. In verità non vi sono motivi per riscontrare alcuna contraddizione. Infatti la Chiesa che, nel segno esteriore, si dirige in processione verso il Signore è la stessa Chiesa che, sempre nel segno esteriore, alla sua presenza, si inginocchia e adora. 

La liturgia è cosmica

Nel suo celebre testo “Introduzione allo spirito della liturgia”, il Card. Ratzinger si dilunga per un intero capitolo, i cui contenuti vengono ripresi anche altrove all’interno del volume, sul rapporto tra liturgia, cosmo e storia. Quelle pagine terminano con un brano che, di seguito, desidero citare: “Il circolo cosmico e quello storico sono ora distinti: l’elemento storico riceve il suo peculiare e definitivo significato dal dono della libertà come centro dell’essere divino e di quello creato, ma non viene per questo separato da quello cosmico. Malgrado la loro differenza, ambedue i circoli restano in definitiva all’interno dell’unico circolo dell’essere: la liturgia storica del cristianesimo è e rimane – inseparabilmente e inconfondibilmente – cosmica, e solo così essa sussiste in tutta la sua grandezza. C’è la novità unica della realtà cristiana, e tuttavia essa non ripudia la ricerca della storia delle religioni, ma accoglie in sé tutti gli elementi portanti delle religioni naturali, mantenendo in tal modo un legame con loro” (p. 31).
Con queste parole, che sono a suggello di una lunga e articolata riflessione, il teologo Ratzinger intende sottolineare il legame inscindibile tra creazione e alleanza, ordine cosmico e ordine storico di rivelazione. L’alleanza, che è rivelazione storica di Dio all’uomo, non annulla la creazione, che è richiamo cosmico della presenza di Dio nella vicenda umana. Anzi, la creazione è il luogo nel quale si realizza l’alleanza e che trova il suo pieno e definitivo significato nell’alleanza. Mentre la stessa alleanza trova proprio nella creazione e nel cosmo il suo fondamento e la sua possibilità espressiva.
Così, la liturgia cristiana, che porta in sé tutta la novità della salvezza in Cristo, conserva e raccoglie ogni espressione di quella liturgia cosmica che ha caratterizzato la vita dei popoli alla ricerca di Dio per il tramite della creazione. E’ quanto mai significativa e istruttiva, anche da questo punto di vista, la Preghiera eucaristica I o Canone romano, là dove ci si riferisce ai “doni di Abele, il giusto, il sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede, e l’oblazione pura e santa di Melchisedech, tuo sommo sacerdote”.
Come non ritrovare in questo passaggio della grande preghiera della Chiesa un riferimento ai sacrifici antichi, al culto cosmico e legato alla creazione che ora, nella liturgia cristiana, non solo non è rinnegato, ma anzi è assunto nel nuovo ed eterno sacrificio di Cristo Salvatore?
D’altra parte, in questa stessa prospettiva, non si può che guardare ai molteplici segni e simboli cosmici dei quali la liturgia della Chiesa, insieme ai segni e ai simboli tipici dell’alleanza, fa uso al fine di dare forma al nuovo culto cristiano. Si pensi alla luce e alla notte, al vento e al fuoco, all’acqua e alla terra, all’albero e ai frutti. Si tratta di quell’universo materiale nel quale l’uomo è chiamato a rilevare le tracce di Dio. E si pensi ugualmente ai segni e ai simboli della vita sociale: lavare e ungere, spezzare il pane e condividere il calice.
Come afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica “le grandi religioni dell’umanità testimoniano, spesso in modo impressionante, tale senso cosmico e simbolico dei riti religiosi. La liturgia della Chiesa presuppone, integra e santifica elementi della creazione e della cultura umana conferendo loro la dignità di segni della grazia, della nuova creazione in Cristo Gesù” (n. 1149).
Scriveva il Servo di Dio Giovanni Paolo II. “…l’Eucaristia è sempre celebrata, in certo senso, sull’altare del mondo. Essa unisce cielo e terra. Comprende e pervade tutto il creato. Il Figlio di Dio si è fatto uomo, per restituire tutto il creato, in un supremo atto di lode, a Colui che lo ha fatto dal nulla […] Davvero è questo il mysterium fidei che si realizza nell’Eucaristia: il mondo uscito dalle mani di Dio creatore torna a Lui redento da Cristo” (Ecclesia de Eucharistia, n. 8).
Questo, della dimensione cosmica della liturgia, è un altro dei suoi elementi essenziali. Che, tra l’altro, introduce al grande tema dell’orientamento della preghiera liturgica. La preghiera rivolta a oriente, infatti, è una tradizione che ci conduce alle origini del cristianesimo e si presenta come sintesi tipicamente cristiana di cosmo e storia, di assunzione di un simbolo cosmico, quale è il sole, a espressione dell’universalità della salvezza in Cristo, al quale la comunità radunata si orienta con gioia e speranza.
Nel momento in cui, per diversi motivi che non è qui il caso di ricordare, si è andata perdendo la consapevolezza della preghiera orientata a est, in direzione del sole che sorge, si rende quanto mai urgente recuperare questa dimensione liturgica che non si configura come una fuga romantica nel passato, ma come riscoperta dell’essenziale, di quell’essenziale nel quale la liturgia della Chiesa esprime il suo orientamento permanente.

La centralità del crocifisso

Così, anche dal punto di vista del corretto linguaggio liturgico, si comprende ora meglio il motivo della collocazione del crocifisso al centro dell’altare.
Ma ascoltiamo direttamente prima le argomentazioni del teologo Ratzinger, in un brano del suo testo “La festa della fede”, e poi il pensiero di Benedetto XVI, espresso nella prefazione al volume della Sua Opera Omnia – Teologia della liturgia -, dedicato alla liturgia.
Ecco le argomentazioni del teologo. “Il vero spazio e la vera cornice della celebrazione eucaristica è tutto il cosmo. Questa dimensione cosmica dell’Eucaristia si faceva presente nell’azione liturgica mediante l’inorientamento [ndr. il corretto orientamento verso…]. L’Oriente – oriens – era anche notoriamente, dal segno del sole nascente, il simbolo della risurrezione (e pertanto non solo espressione cristologica, ma indice pure della potenza del Padre e dell’opera dello Spirito Santo), nonché richiamo alla speranza nella parusìa […] La croce dell’altare si può qualificare come un residuo dell’inorientamento rimasto fino ai giorni nostri. In essa fu conservata la vecchia tradizione, che era a suo tempo strettamente collegata al simbolo cosmico dell’Oriente, di pregare nel segno della croce il Signore veniente, volgendovi lo sguardo […] Anche nell’attuale orientamento della celebrazione, la croce potrebbe essere collocata sull’altare in tal modo che i sacerdoti e i fedeli la guardino insieme. Nel canone essi non dovrebbero guardarsi, ma guardare insieme a lui, il trafitto […] La croce sull’altare non è… un impedimento alla visuale, ma un punto comune di riferimento… Ardirei addirittura la tesi che la croce sull’altare non è impedimento ma presupposto della celebrazione «versus populum». Diverrebbe così ricca di significato la distinzione tra liturgia della parola e canone. Nella prima si tratta dell’annunzio, e pertanto di un indirizzo immediato, nell’altra di un’adorazione comune, nella quale noi tutti stiamo più che mai durante la invocazione – «conversi ad Dominum» -: Rivolgiamoci al Signore; convertiamoci al Signore” (La festa della fede, pp. 131-135).

Ed ecco il pensiero del Papa. “L’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nella cristianità moderna ed è completamente estranea in quella antica. Sacerdote e popolo certamente non pregano l’uno verso l’altro, ma verso l’unico Signore. Quindi guardano nella preghiera nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo cosmico per il Signore che viene, o, dove questo non è possibile, verso un’immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come il Signore ha fatto nella preghiera sacerdotale la sera prima della Passione (Gv 17, 1). Intanto si sta facendo strada sempre di più, fortunatamente, la proposta da me fatta alla fine del capitolo in questione della mia opera [Introduzione allo spirito della liturgia, pp.70-80]: non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo” (Teologia della liturgia, pp. 7-8).

Un rinnovato amore per ciò che è “oggettivo”

Avviandomi alla conclusione, ritengo importante sottolineare quella che mi pare essere una grave urgenza del nostro tempo, ovvero la necessità della formazione alla liturgia e al suo linguaggio, a tutti i livelli. Nulla, lo sappiamo, è ormai possibile dare per scontato. In un tale processo formativo ritengo vi siano quattro priorità. Anzitutto, è necessario far approfondire e assimilare i temi portanti della teologia della liturgia come fondamento della prassi celebrativa. In secondo luogo è importante aiutare a capire il linguaggio liturgico in quanto radicato in una tradizione secolare, soggetto al discernimento ecclesiale, sempre in una logica di sviluppo armonico che sa valorizzare insieme antico e nuovo. Inoltre è fondamentale introdurre al senso autentico della celebrazione che, in quanto culto spirituale, deve plasmare la vita in ogni suo aspetto, fornendo un nuovo linguaggio – quello di Cristo – alla quotidianità. Infine è indispensabile suscitare un rinnovato amore per ciò che è oggettivo, una convinta e ministeriale adesione al rito, da intendere non come aspetto coercitivo dell’espressività, ma piuttosto come condizione indispensabile per un’espressività autentica e davvero comunicativa del mistero di Cristo celebrato nella Chiesa.
Quasi a coronamento di quanto ora affermato e a richiamo di ciò che non può mai essere dimenticato quando si tratta di linguaggio liturgico, anche quando ci si dovesse addentrare ulteriormente nel dettaglio di tale linguaggio, ritengo utile e significativo richiamare alla memoria alcuni brani di Romano Guardini. Sono tratti dal suo volume “Formazione liturgica” e risultano inseriti nel capitolo dedicato a “L’elemento oggettivo”.
Le parole del grande teologo hanno la capacità di condurci con autorevolezza a ritrovare la grazia e la vera bellezza in ciò che è oggettivo, ovvero in quel linguaggio liturgico che precede la nostra personale, variabile e troppo angusta sensibilità soggettiva.
“La liturgia rigorosa è quella forma del comportamento religioso nel quale l’oggettivo si manifesta nel modo più intenso […]
La liturgia è auto espressione dell’uomo, ma dell’uomo come deve essere, ed è per questo che essa diviene severa disciplina. L’uomo superficiale può facilmente sentire la preghiera liturgica come ‘non verace’, poiché l’uomo che parla nella liturgia è quello profondo, essenziale. Esso però giace sepolto. Perciò la preghiera liturgica deve essere per lungo tempo un esercizio consapevole, finché il profondo, il più vero non si risvegli, l’immagine dell’essere si rettifichi e ora parli realmente quanto è conforme all’essenza […] La liturgia è auto espressione dell’uomo. Ma essa gli dice: di un uomo quale tu non sei ancora. Perciò devi venire alla mia scuola […]
Ciò che essa esprime è conforme all’essenza; l’espressione è servizio all’essenza del dialogo tra Dio e l’anima.
Calibrato sull’essenza è anche il suo modo di rivelarlo, e così parimenti servizio all’essenza del corpo, dei gesti, del linguaggio […]
La Chiesa ha regolato moltissimo… Tutto ciò è una dura prova per lo spirito ribelle del singolo che amerebbe rendere se stesso misura di tutte le cose; che, partendo dal proprio frammento strettamente limitato di realtà posseduta e dal presente della propria breve vita, vuole giudicare sull’infinito e sull’eterno; che vuole giudicare sulle profondità e sulle essenze.
E’ una dura prova che l’urgenza del presente debba tacere davanti al retaggio del passato, così come l’estrosità del singolo di fronte a quanto è positivamente fissato dall’autorità. Storia e legge, tradizione e autorità: in questo deve incarnarsi l’oggettivo con tutto il suo peso che pone all’atteggiamento personale del singolo le più elevate esigenze.
Tutto viene portato alla Chiesa attraverso la fiducia, che vede in essa l’umanità rinata, il compendio oggettivo della creazione messa in rapporto con Dio in Cristo… Questa fiducia dà la forza di mettere all’ultimo posto la perplessità del giudicare e sentire individuale, e dà la ferma speranza che in tale perdita l’anima troverà il meglio di se stessa.
La Spirito Santo ha impresso il suo sigillo nella nostra anima e ha fatto del nostro corpo il suo tempio (1 Cor 6, 19); Egli conosce il nostro essere meglio di noi stessi. Le forme dell’espressione che Egli ci indica, sono nel loro più profondo educanti. Noi dovremmo immedesimarci, crescendo, con esse, anche quando non rispondono senz’altro alla nostra sensibilità e non vengono percepite nel senso più preciso come ‘veritiere’. Esse sono veritiere perché hanno carattere essenziale, in uno strato di significato più profondo […]… noi dobbiamo passare dall’angustia e dall’arbitrio soggettivi, uscire per approdare all’ampiezza e all’ordine oggettivi; dobbiamo giungere a trovar gioia per quella forte obbedienza e quella disciplina che portano a tale atteggiamento. Ma è solo la Chiesa a condurre a tale meta; pertanto dobbiamo superare ogni diffidenza verso di essa e acquisire una grande fiducia.
Non possiamo addentrarci qui in proposte pratiche; si tratta soprattutto di un orientamento, d’un modo di pensare”.
E proprio volgendo la mente e il cuore a questo orientamento e a questo modo di pensare desideriamo educarci ed educare al linguaggio della celebrazione liturgica.

Don Bux sulla questione della S. Comunione in bocca o in mano

L’uso di dare la Comunione in bocca può risalire a Gesù?

di don Nicola Bux,

da Scuola Ecclesia Mater, del 29.07.2012 

Il Santo Padre, non solo pronunziò il noto discorso del 22 dicembre sull’interpretazione del concilio ecumenico Vaticano II, che invitava a compiere nel senso della riforma in continuità con la tradizione della Chiesa (Ecclesia semper reformanda), ma lo ha pure messo in pratica nella liturgia. In primis, facendo ricollocare il Crocifisso dinanzi a sè sull’altare, in modo che la preghiera del sacerdote e dei fedeli sia “rivolta al Signore”.
Qui però, mi soffermo sulla seconda ‘innovazione’ di Benedetto XVI: l’amministrazione della S.Comunione ai fedeli, in ginocchio e in bocca. Dico ‘innovazione’, rispetto al noto indulto che in diverse nazioni consente di riceverla sulla mano.Infatti, si ritiene da non pochi, che solo nella tarda antichità-alto medioevo, la Chiesa d’Oriente e d’Occidente abbia preferito amministrarla in tal modo. Allora, Gesù ha dato la Comunione agli Apostoli sulla mano o chiedendo di prenderla con le proprie mani?
Visitando la mostra del Tintoretto a Roma, ho osservato alcune ‘Ultime Cene’ in cui Gesù dà la Comunione in bocca agli Apostoli: si potrebbe pensare che si tratti di una interpretazione del pittore ex post, un po’ come la postura di Gesù e degli apostoli a tavola nel Cenacolo di Leonardo, che ‘aggiorna’ alla maniera occidentale l’uso giudaico dello stare invece reclinati a mensa. Però, riflettendo ulteriormente, l’uso di dare la S.Comunione direttamente in bocca al fedele, può essere ritenuto non solo di tradizione giudaica e quindi apostolica, ma anche risalente al Signore Gesù. Gli ebrei e gli orientali in genere, avevano ed hanno ancor oggi l’usanza di prendere il cibo con le mani e di metterlo direttamente in bocca all’amata o all’amico. Anche in occidente lo si fa tra innamorati e da parte della mamma verso il piccolo ancora inesperto.Si capisce così il testo di Giovanni 13,26-27: “Gesù allora gli (a Giovanni) rispose: ‘E’ quello a cui darò un pezzetto di pane intinto’. Poi, intinto un pezzetto di pane, lo diede a Giuda di Simone Iscariota. E appena preso il boccone il satana entrò da lui”.
Mons.Athanasius Schneider ha compiuto ottimi approfondimenti nel suo libro Dominus est, Lev 2009.
Che dire però dell’invito di Gesù: “Prendete e mangiate”…”Prendete e bevete” ? Prendete (in greco: lavete; in latino: accipite), significa anche “ricevete”. Se il boccone è intinto, non lo si può prendere con le mani, ma ricevere direttamente in bocca. Vero è che Gesù ha consacrato separatamente pane e vino, ma, se durante il Mistico Convito – come lo chiama l’Oriente – ossia l’Ultima Cena, i due gesti consacratori avvennero, come sembra, in tempi diversi della Cena pasquale – quando gli Apostoli, forse aiutati dai sacerdoti giudaici che si erano convertiti (Atti 6,7) quali esperti diremmo così nel culto, li unirono all’interno della grande preghiera eucaristica – la distribuzione del pane e del vino consacrati fu collocata dopo l’anafora, dando origine al rito di Comunione. Agli inizi, le comunità cristiane erano piccole e i fedeli facilmente identificabili. Con l’estendersi della cristianità, nacquero le esigenze di precauzione: affinchè le sacre specie fossero amministrate con riverenza e evitando la dispersione dei frammenti, che contengono il Signore realmente e interamente. Pian piano prende forma la Comunione sotto le due specie, date consecutivamente o per intinzione. Infine in occidente, ordinariamente sotto la sola specie del pane, perchè la dottrina cattolica, garante san Tommaso, insegna che il Signore Gesù è tutto intero in ciascuna specie (Catechismo della Chiesa Cattolica 1377).
Però, dai sostenitori della Comunione sulla mano, si fa appello a san Cirillo di Gerusalemme, il quale, chiedendo ai fedeli di fare della mano un trono al momento di ricevere la Comunione, vuol dire che consegnava la specie del pane sulla mano. Ritengo sommessamente che l’invito a disporre le mani in tal modo, possa essere inteso non al fine di riceverla in esse, ma a protenderle, anche inchinando il capo, in un unico atto di adorazione, oltre che per prevenire la caduta di frammenti. Infatti, per l’innato senso del sacro, molto forte in Oriente, si affermava sempre più la riverenza verso il Sacramento con le precauzioni nell’assumere la Comunione in bocca, per molteplici ragioni, tra cui quella di non poter garantire mani pure e in specie la salvaguardia dei frammenti. Questo nella Catechesi Mistagogica 21. Ciò rende più comprensibile la sentenza di sant’Agostino: “nemo autem illam carnem manducat, nisi prius adoraverit; peccemus non adorando”. Non si deve mangiare il Corpo del Signore senza averlo prima adorato. Benedetto XVI l’ha richiamata significativamente proprio nel suaccennato discorso sull’interpretazione del Vaticano II e poi nell’Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis 67.
Ancora Cirillo o i suoi successori, nella Catechesi Mistagogica 5,22, invita a “Non stendere le mani, ma in un gesto di adorazione e venerazione (tropo proskyniseos ke sevasmatos) accostati al calice del sangue di Cristo”. Di modo che, l’apostolo fa proskinesis, la prostrazione o inchino fino a terra – simile alla nostra genuflessione – protendendo allo stesso tempo le mani come un trono, mentre dalla mano del Signore riceve in bocca la Comunione. Così sembra efficacemente raffigurato dal Codice purpureo di Rossano, risalente tra la fine del V e l’inizio del VI secolo d.C., un Evangelario greco miniato composto sicuramente in ambiente siriaco. Dunque, non deve meravigliare il fatto che la tradizione pittorica orientale e occidentale,dal V al XVI secolo abbia raffigurato Cristo che fala Comunione agli apostoli direttamente sulla bocca. Il Santo Padre, in continuità con la tradizione universale della Chiesa, ha ripreso il gesto. Perchè non imitarlo? Ne guadagnerà la fede e la devozione di molti verso il Sacramento della Presenza, specialmente in un tempo dissacratorio come quello odierno.

Ancora sulle ricchezze della Chiesa: per sfatare un po’ di luoghi comuni…

Il Papa vendendo uno dei suoi anelli sfamerebbe L’Africa”, “Perché la Chiesa che è cosí ricca non destina tutti i suoi beni per aiutare i poveri?”, “Il Papa veste Prada”…Queste le provocazioni tragicomiche che circolano spesso sul web, stimolate da alcuni media (i soliti noti) che montano ad arte la questione della “Chiesa ricca”, così come hanno fatto in modo strumentale e disonesto, e tuttora a cadenze alterne continuano a fare, sul tema ICI (ora IMU) e Chiesa Cattolica.

Si tratta in realtà di alcuni dei tanti luoghi comuni – a cui oramai siamo abituati – ampiamente diffusi da movimenti atei, materialistici e massonici, che spesso purtroppo fanno breccia anche nella mentalità degli stessi fedeli cristiani. Proprio ieri mi è capitato di parlare con una signora molto devota che dopo aver chiesto indicazione stradali per raggiungere una nota località mariana per prepararsi all’Indulgenza del “Perdono di Assisi”, ha concluso dicendo che “San Francesco sì che era un vero esempio cristiano, non i preti e le chiese che  sono pieni di ricchezze”. Alla signora non ho avuto il tempo di dire che comuqnue un prete guadagna, sì e no, 800 euro al mese, e un vescovo tra gli 800 e i 1200 euro al mese (e di certo non li spendono per andare in vacanza alle Seychelles).

Ma mi rendo conto che tali luoghi comuni sono molto diffusi anche perchè favoriti da una certa ignoranza circa le reali proporzioni del problema.

Innanzitutto la Chiesa, come ogni altra istituzione, ha il diritto e la necessità di dotarsi di tutti i mezzi necessari allo svolgimento della sua missione, perciò non solo può ma deve possedere beni mobili e immobili ed ogni altro mezzo necessario alla sua vita e alla sua missione. La comunità ecclesiale, qualsiasi comunità, piccola o grande, ha una dimensione che non è solo spirituale ma anche fisica e sociale e perciò necessità di spazi di aggregazione, edifici, strutture di governo, mezzi assistenziali e caritativi di ogni genere, in tutti i settori, inclusi quelli della cultura e dell’arte che spesso sono fra i piú appariscenti. Ogni organismo se vuole svolgere una missione deve garantire anche il proprio sostentamento, in caso contrario, la sua prima opera sarebbe anche l’ultima.

L’anello e le scarpe del Papa

Faccio una breve parentesi riguardo al famoso “anello del Papa che sfamerebbe l’Africa”, e che “varrebbe milioni – qualcuno dice addirittura “miliardi” –  di euro”. Nulla di più falso e ridicolo. In realtà si tratta di semplice oro, ha la grandezza e dunque il valore di due fedi nuziali, viene usato come timbro per sigillare ogni documento ufficiale redatto dal Papa. Senza poi contare che alla morte del Papa viene rotto con un martelletto d’argento, rifuso e riutilizzato per il Pontefice successivo. Tecnicamente è sempre lo stesso da secoli. E non occorre essere cattolici per capire che un oggetto di tal valore non risolverebbe i problemi di una sola famiglia neppure per una settimana e che, onde evitare di urlare slogan tanto assurdi, basterebbe semplicemente informarsi, o almeno usare un pò di buon senso o quella razionalità laica che il Signore ha concesso a tutti.

Seconda parentesi: le “fantomatiche scarpe del Papa”. Un articolo di Repubblica – pubblicato pochi mesi dopo l’elezione del Papa al soglio pontificio – titolava: “Il look di Papa Ratzinger: spuntano le scarpe Prada”.  Questo era lo scoop a cui hanno abboccato decine e decine di anticlericali e la notizia si è trascinata negli anni. La leggenda è stata così confezionata: il Papa veste Prada, vive nel lusso, è servito e riverito mentre nel mondo c’è gente che muore di fame. Nel 2008 l’Osservatore Romano ha provato a smentirla, ottenendo pochi risultati purtroppo. Lo stesso l’Agenzia Ansa nel 2010. Di recente si è tornati sulla questione grazie ad una pagina Facebook dedicata proprio al Pontefice. Si riporta la notizia, come vi è scritto sul quotidiano del Vaticano, che è il sarto novarese Adriano Stefanelli a produrre le scarpe papali, rosse ad indicare il sangue del martirio, che fanno parte dell’abito del papa fin dal Medioevo e da allora sono indossate da ogni pontefice. Non sono Prada, non hanno alcun costo, visto che il Sig. Stefanelli le ha donate al Santo Padre e ha affermato: «Io le mie scarpe al Papa le regalo, perché a volte la passione paga più del denaro». (Qui l’articolo citato) [1].

Le proprietà vaticane

Ma torniamo alla questione da cui siamo partiti. Bisogna chiarire innanzitutto che il Papa non è ricco, che tutto ciò che gli viene attribuito non è suo, e che dopo la morte non lascia niente a nessuno e viene seppellito in una bara di legno grezzo, praticamente nudo, e con un velo di lino sul volto.

La maggior parte delle cosiddette “ricchezze” del Vaticano sono tesori che nell’arco della storia della Chiesa, sono stati donati da persone che hanno ricevuto delle grazie particolari e che il Vaticano non ha nessun diritto di vendere.

Due millenni di storia, di arte, di cultura, la Basilica di Pietro, la Cappella Sistina, la Pietà di Michelangelo, le stanze dei musei Vaticani sono patrimonio dell’umanità e sono solo gestite dalla Chiesa.

La Santa Sede è solo custode vigile e scrupolosa di una immensa quantità di opere d’arte in parte donate e in parte proprietà privata dei successori di S. Pietro, esposte in stanze degne di accogliere tanta bellezza e a disposizione di chiunque abbia desiderio di apprezzarle.  Ma sono beni che il Papa pur volendo non potrebbe vendere, lo impedisce il diritto internazionale. Nulla è suo, ma gli è stato concesso di usarlo. La Chiesa non può farne ciò che desidera, ha il compito di conservare tali beni nel nome dello Stato italiano. In tutte le Nazioni esistono svariate misure per la difesa delle opere d’arte, perché lo Stato ha il dovere di preservarle nel tempo. E ricordo come i beni della Santa Sede facciano anche parte della storia culturale dell’Italia. Con la stessa logica con cui chiediamo alla Chiesa di vendere i suoi beni per aiutare i bisognosi, potremmo chiedere allo Stato di vendere il Colosseo di Roma, o gli Uffizi di Firenze o la Mole Antonelliana di Torino o qualcuna delle tante opere d’arte che l’Italia possiede.

La Carità e la Chiesa

Quanto alla carità verso i più deboli, sappiamo tutti come la dottrina cristiana e il magistero insegnino da sempre l’importanza e la necessità per l’uomo di sviluppare una sensibilità e un’attenzione particolare per i poveri e gli emarginati. La carità cristiana è il cuore del messaggio evangelico.

La Chiesa, infatti, è sempre stata in prima linea nell’aiutare concretamente i poveri di tutto il mondo, con le Caritas, le Missioni e le Opere Pie. Si pensi ai tantissimi missionari che nei Paesi più disparati del mondo, soprattutto in quelli più poveri, portano l’annuncio evangelico prodigandosi anche per sollevare le popolazioni dalla povertà, dall’emarginazione, dalla fame, dalle malattie, nonchè per l’educazione e la scolarizzazione dei ragazzi, tutto questo spesso rimettendoci la salute e anche la vita.

Ma alla base di gran parte degli attacchi rivolti alla Chiesa sui beni e gli averi di sua proprietà, vi è un equivoco fondamentale dell’intera concezione scritturistica sulla ricchezza e sulla povertà.

Basterebbe leggere alcuni dei tanti versetti, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, in cui il Signore non chiede che il culto gli venga dato in estrema povertà, tutt’altro… (Vedi qui alcuni esempi) [2].

Nel distacco dalle cose materiali di questo mondo possiamo elevarci a Dio. Se siamo capaci di distaccare il cuore dalle nostre ricchezze, ci sarà più facile glorificare il Signore cercando di rendere degna e bella la Sua casa. Gli oggetti preziosi custoditi dalla Chiesa e nelle chiese è chiaro che non servono a Dio, ma il loro splendore serve per richiamare noi, per ricordare che stiamo facendo gli atti più grandi e più sublimi di culto. Sono un segno della nostra fede, della nostra riconoscenza a Dio che ci ha resi partecipi di beni così grandi. Non teniamo gli oggetti preziosi nelle casseforti perché i ladri non li rubino, ma li usiamo anche per dare a Dio il massimo splendore nel culto.

Nel Vangelo non c’è condanna per la ricchezza in sè. Il noto passo del Vangelo di Matteo in cui Cristo ammonisce: “è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli” (Mt. 19, 24) deve essere letto sistematicamente con l’insieme dei suoi precetti e dei suoi insegnamenti.

“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt. 5,3), riproposizione in chiave affermativa di Matteo 4,4: “Non di solo pane vivrà l’uomo”. Cristo ha voluto, cioè, evidenziare il carattere spirituale dell’uomo, che cioè questo non è mera corporeità, non deve limitarsi al solo aspetto materiale dell’esistenza. Il Vangelo non fornisce dottrine economiche, materiali, “biologiche”, ma insegnamenti teologici, morali e spirituali.

Per l’autentico pensiero cristiano, la ricchezza, la proprietà, gli averi, non sono dei mali in sè stessi.

Gesù indossava una tunica preziosa (che i soldati che lo crocifissero si giocarono a sorte), non disdegnò il profumo di nardo purissimo di gran valore, amava i banchetti e riposarsi dall’amico ricco.

Alle nozze di Cana, invitato a cena a casa di uomini importanti, finito il vino, Gesù non ha detto “avete bevuto abbastanza e dovreste pensare ai poveri che non hanno vino”, ma ha onorato la festa e il matrimonio (compiendo fra l’altro il suo primo miracolo).

Gesù stesso ci dice che veniva accusato dai farisei di essere un beone e un mangione solo perché, nella loro visione distorta, si contrapponeva al Battista che viveva di stenti.

Gesù ha lodato la donna che ha rotto per lui un vasetto di nardo genuino di gran valore. E ai commensali che si sdegnano per lo spreco di quel profumo così prezioso per Lui anzichè “vendere quest’olio a più di trecento denari e darli ai poveri”, Egli risponde: “Lasciatela stare; perché le date fastidio? Ella ha compiuto verso di me un’opera buona;  i poveri infatti li avete sempre con voi e potete beneficarli quando volete, me invece non mi avete sempre. Essa ha fatto ciò ch’era in suo potere, ungendo in anticipo il mio corpo per la sepoltura. In verità vi dico che dovunque, in tutto il mondo, sarà annunziato il Vangelo, si racconterà pure in suo ricordo ciò che ella ha fatto” (Mc 14,3-9). Un denaro era la paga giornaliera di un operaio; trecento denari la paga quasi di un anno. Gesù non l’ha rimproverata, anzi l’ha lodata. E’ venuto incontro all’esigenza del nostro animo di manifestare anche con segni permanenti il nostro affetto verso di Lui.

Quello da cui ci mette in guardia Gesù è semmai l’atteggiamento di morbosità verso la ricchezza, l’attaccamento, la schiavitù della ricchezza, l’avidità, la cupidigia nel perseguirla e l’ostinazione nel possederla, che soffocano il seme della vita e rischiano di sostituire i doni ricevuti a Dio stesso.

I Santi

Nella Vita del Santo Curato d’Ars si legge che viveva poverissimamente. Aveva licenziato la perpetua, perché per cibo si cucinava ogni settimana una pignatta di patate. Ma per quanto riguardava il culto a Dio voleva che fosse sempre al meglio. Era convinto che il culto esterno dev’essere un richiamo per il culto interno, oltre che un grande atto di amore.

San Francesco è vissuto poverissimo, ma anche lui voleva i vasi sacri fossero preziosi. Ecco che cosa si legge nelle Fonti francescane: “Francesco sentiva tanta riverenza e devozione verso il corpo di Cristo, che avrebbe voluto scrivere nella regola che i frati ne avessero ardente cura e sollecitudine nelle regioni in cui dimoravano, ed esortassero con insistenza chierici e sacerdoti a collocare l’Eucaristia in luogo conveniente e onorevole. Se gli ecclesiastici trascuravano questo dovere, voleva che se lo accollassero i frati. Anzi, una volta ebbe l’intenzione di mandare, in soste le regioni, alcuni frati forniti di pissidi, affine di riporvi con onore il corpo di Cristo, dovunque lo avessero trovato custodito in modo sconveniente. Volle inoltre che altri frati percorressero tutte le regioni della cristianità, muniti di belli e buoni ferri per far ostie”. (Fonti francescane n. 1635).

“Ardeva di amore in tutte le fibre del suo essere verso il sacramento del Corpo del Signore, preso da stupore oltre ogni misura per tanta benevola degnazione e generosissima carità. Riteneva grave segno di disprezzo non ascoltare ogni giorno la Messa, anche se unica, se il tempo lo permetteva. Si comunicava spesso e con tanta devozione da rendere devoti anche gli altri. Infatti, essendo colmo di reverenza per questo venerando sacramento, offriva il sacrificio di tutte le sue membra, e quando riceveva l’agnello immolato, immolava lo spirito in quel fuoco, che ardeva sempre sull’altare del suo cuore. Per questo amava la Francia, perché era devota del Corpo del Signore, e desiderava morire in essa per la venerazione che aveva dei sacri misteri. Un giorno volle mandare i frati per il mondo con pissidi preziose, perché riponessero in luogo il più degno possibile il prezzo della redenzione, ovunque lo vedesse conservato con poco decoro” (Fonti francescane n. 789).

“Voleva che si dimostrasse grande rispetto alle mani del sacerdote, perché ad esse è state conferito il di potere di consacrare questo sacramento. “Se mi capitasse – diceva spesso – di incontrare insieme un santo che viene dal cielo ed un sacerdote poverello, saluterei prima il prete e correrei a baciargli le mani. Direi, infatti, Ohi, Aspetta, san Lorenzo, perché le mani di costui toccano il Verbo di vita e possiedono un potere sovrumano” (Fonti francescane n. 790).

Il Papa in Africa

Poco fa accennavo alla bufala totalmente inventata dell’ ”anello papale che sfamerebbe l’Africa”. Vorrei fare anche una piccola riflessione sulla realtà dell’Africa e dei problemi che l’affliggono. La situazione in Africa – come in altre parti del mondo sottosviluppato –  è molto complessa e di non facile soluzione a causa di innumerevoli ragioni che riguardano anche chi governa quei paesi e persino chi aiuta quei paesi. Non basta inviare soldi per risolvere i problemi in quelle zone.

I loro governanti spesso hanno interesse a che tutto rimanga così per controllare meglio il territorio. Ci sono poi alcune multinazionali che sfruttano le risorse naturali del continente.  Per non parlare degli organismi internazionali (Vedi ONU e Unione Europea) che “ricattano” i paesi dell’Africa imponendo politiche disumane di controllo delle nascite (come sterilizzazioni, aborto, contraccezione, ecc.)  in cambio  degli aiuti.

Tutte questioni trattate, e anche coraggiosamente denunciate, una per una, da Papa Benedetto XVI quando si è recato in Africa qualche anno fa. Stranamente di quel viaggio si ricorda solo la famosa frase sui preservativi strappatagli maliziosamemte dai giornalisti in aereo, ma non si ricorda invece il fatto che il Papa era andato lì ad illustrare  e presentare un importantissimo documento promulgato per la Seconda Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi:  l’Instrumentum laboris, un documento molto denso, frutto di quattordici anni di lavoro della Chiesa per studiare e capire l’Africa, a partire dall’esortazione apostolica di Papa Giovanni Paolo II  Ecclesia in Africa del 1995, che dopo il Primo Sinodo per l’Africa aveva esortato a uno studio più approfondito della situazione religiosa e sociale del continente africano.

Un documento salutato dai media africani come uno dei più importanti testi sull’Africa mai apparsi, tanto più se lo si legge – come Benedetto XVI ha invitato a fare – insieme con i discorsi del Papa in Camerun e Angola, che lo illustrano e lo completano [Cfr. “Il Papa e la sua Africa”, di Massimo Introvigne – Cesnur] [3].

I media italiani ed europei hanno invece completamente taciuto su questo importante documento. E purtroppo questo silenzio da parte della stampa occidentale dimostra o almeno fa sospettare fortemente che all’Occidente e ai media interessa ben poco della situazione in cui versano questi poveri fratelli.

E le continue ed infondate accuse verso la Chiesa oscurano purtroppo quello che di grande essa fa ogni giorno (giustamente nel silenzio e senza megafoni) proprio a favore dei più deboli.

Infine vorrei ricordare che la Chiesa con la C maiuscola è la comunità dei battezzati. Ogni battezzato è incorporato alla Chiesa che è il Corpo mistico di Gesù Cristo. Invece di condannare il mondo ecclesiale, ognuno di noi dovrebbe interrogarsi su ciò che fa di buono per migliorare le sorti di questo mondo e del terzo mondo. Ogni battezzato ha il dovere di contribuire al bene della comunità. Dunque, riguardo all’aiuto al prossimo – per quanto ci è possibile e ognuno nel suo piccolo – siamo tutti interpellati, nessuno escluso.

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Note:

[1] Il Papa veste Prada? NO, era una bufala.

[2] “Ricchezza della Chiesa” – Un sacerdote risponde (Amici Domenicani); Perché la Chiesa ha accumulato, nel corso degli anni, notevoli ricchezze ben visibili anche nell’abbigliamento del Santo Padre? (Amici Domenicani).

[3] Il Papa e la sua Africa (di Massimo Introvigne – Cesnur).

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tratto da unacasasullaroccia.wordpress.com