“PROFESSIO FIDEI” tridentina

Ego N. firma fide credo et profiteor omnia et singula, quae continentur in symbolo fidei, quo sancta Romana Ecclesia utitur, videlicet:

Credo in unum Deum, Patrem omnipotentem, factorem coeli et terræ, visibilium omnium et invisibilium. Et in unum Dominum Jesum Christum, Filium Dei unigenitum. Et ex Patre natum ante omnia sæcula. Deum de Deo, lumen de lumine, Deum verum de Deo vero. Genitum, non factum, consubstantialem Patri: per quem omnia facta sunt. Qui propter nos homines, et propter nostram salutem fdescendit de coelis. Et incarnatus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine: et homo factus est. Crucifixus etiam pro nobis; sub Pontio Pilato passus, et sepultus est. Et resurrexit tertia die, secundum Scripturas. Et ascendit in coelum: sedet ad desteram Patris. Et iterum venturus est cum gloria judicare vivos et mortuos: cujus regni non erit finis. Et in Spiritum Sanctum, Dominum et vivificantem: qui ex Patre Filioque procedit. Qui cum Patre, et Filio simul adoratur et conglorificatur: qui locutus est per Prophetas. Et unam, sanctam, catholicam et apostolicam Ecclesiam. Confiteor unum baptisma in remissionem peccatorum. Et exspecto resurrectionem mortuorum. Et vitam venturi sæculi. Amen.

Apostolicas et ecclesiasticas traditiones reliquasque eiusdem Ecdesiae observationes et constitutiones firmissime admitto et amplector. Item sacram Scripturam iuxta eum sensum, quem tenuit et tenet sancta mater Ecclesia, cuius est iudicare de vero sensu et interpretatione sacrarum Scripturarum admitto, nec eam umquam, nisi iuxta unanimem consensum patrum accipiam et interpretabor.

Profiteor quoque septem esse vere et proprie sacramenta Novae Legis a Iesu Christo Domino nostro instituta atque ad salutem humani generis, licet non omnia singulis necessaria, scilicet Baptimam, Confirmationem, Eucharistiam, Poenitentiam, extremam Unctionem, Ordinem et Matrimonium, illaque gratiam conferre, et ex his Baptismum, Confirmationem et Ordinem sine sacrilegio reiterari non posse. Receptos quoque et adprobatos Ecclesiae catholicae ritus in supradictorum omnium sacramentorum sollemni administratione recipio et admitto.

Omnia et singola, quae de peccato originali et de iustificatione in sacrosancta Tridentina synodo definita et declarata fuerunt, amplector et recipio.

Profiteor pariter in missa offerri Deo verum, proprium et propitiatorium sacrificium pro vivis et defunctis, atque in sanctissimo Eucharistiae sacramento esse vere, realiter et substantialiter corpus et sanguinem una cum anima et divinitate Domini nostri Iesu Christi, fierique conversionem totius substantiae panis in corpus, et totius substantiae vini in sanguinem, quam conversionem catholica Ecclesia transsubstantiationem ap pellat. Fateor etiam sub altera tantum specie totum atque integrum Christum verumque sacramentum sumi.

Constanter teneo purgatorium esse, animasque ibi detentas fidelium suffragiis iuvari; similiter et sanctos una cum Christo regnantes venerandos atque invocandos esse, eosque orationes Deo pro nobis offerre, atque eorum reliquias esse venerandas. Firmiter assero, imagines Christi ac Deiparae semper virginis, nec non aliorum sanctorum, habendas et retinendas esse, atque eis debitum honorem ac venerationem impertiendam; indulgentiarum etiam potestatem a Christo in Ecclesia relictam fuisse, illarumque usum Christiano populo maxime salutarem esse affirmo.

Sanctam catholicam et apostolicam Romanam Ecclesiam omnium Ecclesiatum matrem et magistram agnosco; Romanoque pontifici, beati Petri apostolorum principis successori ac Iesu Christi vicario veram oboedientiam spondeo ac iuro.

Cetera item omnia a sacris canonibus et oecumenicis conciliis, ac praecipue a sacrosaneta Tridentina synodo [et ab oecumenico concilio Vaticano, tradita, definita ac declarata, praesertim de Romani pontificis primatu et infallibili magisterio], indubitanter recipio atque profiteor; simulque contraria omnia, atque haereses quascumque ab Ecclesia damnatas et reiectas et anathematizatas ego pariter damno, reicio et anathematizo.

Hanc veram catholicam fidem, extra quam nemo salvus esse potest, quam in praesenti sponte profiteor et veraciter teneo, eamdem integram et immaculatam usque ad extremum vitae spiritum constantissime, Deo adiuvante, retinere et confiteri atque a meis subditis vel illis, quorum cura ad me in munere meo spectabit, teneri, doceri et praedicari, quantum in me erit, curaturum, ego idem N. spondeo, voveo ac iuro: sic me Deus adiuvet, et haec sancta Dei Evangelia.

ITALIANO

Io N. con fede sicura credo e professo tutto e singolarmente quanto è contenuto nel simbolo di fede di cui fa uso la santa romana Chiesa, cioè:

Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili ed invisibili; ed in un solo Signore Gesù Cristo, Figlio unigenito di Dio, e nato dal Padre prima di tutti i secoli, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato, non fatto, consustanziale al Padre; per mezzo di lui furono create tutte le cose; egli per noi uomini e per la nostra salvezza discese dai cieli, e s’incarnò per opera dello Spirito Santo da Maria Vergine, e si fece uomo; fu anche crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, patì e fu sepolto; e risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture, e salì al cielo, siede alla destra del Padre, e tornerà di nuovo con gloria a giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà mai fine; (credo) nello Spirito Santo, Signore e vivificante, che procede dal Padre e dal Figlio; il quale è adorato e glorificato insieme col Padre e col Figlio; il quale parlò per mezzo dei profeti; e (credo) nella Chiesa una, santa cattolica e apostolica. Professo esservi un solo Battesimo per la remissione dei peccati, ed aspetto la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.

Fermissimamente ammetto ed accetto le tradizioni ecclesiastiche e le altre osservanze e costituzioni della stessa Chiesa. Ammetto pure la sacra Scrittura secondo l’interpretazione che ne ha dato e ne dà la santa madre Chiesa, alla quale compete giudicare del senso genuino e dell’interpretazione delle sacre Scritture, né mai l’intenderò e l’interpreterò se non secondo l’unanime consenso dei padri.

Confesso anche che sono sette i veri e propri sacramenti della Nuova Legge istituiti da Gesù Cristo nostro Signore e necessari, sebbene non tutti a tutti, per la salvezza del genere umano, cioè: battesimo, confermazione, eucaristia, penitenza, estrema unzione, ordine e matrimonio; e che infondono la grazia, e che di essi il battesimo, la confermazione e l’ordine non si possono reiterare senza sacrilegio. Accetto e riconosco inoltre i riti ammessi ed approvati della Chiesa cattolica per la solenne amministrazione di tutti i sacramenti sopra elencati.

Accolgo e accetto in ogni parte tutto quanto è stato definito e dichiarato nel sacrosanto concilio di Trento riguardo il peccato originale e la giustificazione.

Parimenti credo che nella messa viene offerto a Dio un sacrificio vero, proprio e propiziatorio per i vivi e i defunti, e che nel santissimo sacramento dell’eucaristia c’è veramente, realmente e sostanzialmente il corpo e il sangue assieme all’anima e alla divinità di nostro Signore Gesù Cristo, e che avviene la conversione di tutta la sostanza del pane in corpo e di tutta la sostanza del vino in sangue, la qual conversione la Chiesa cattolica chiama transustanziazione. Confesso anche che sotto una sola specie si riceve tutto integro Cristo e un vero sacramento.

Ritengo senza esitazione che esiste il purgatorio e che le anime ivi rinchiuse sono aiutate dai suffragi dei fedeli; similmente poi che si devono venerare e invocare i santi che regnano con Cristo, che essi offrono a Dio le loro preghiere per noi e che le loro reliquie devono essere venerate. Dichiaro fermamente che si possono ritrarre e ritenere le immagini di Cristo e della sempre vergine Madre di Dio, come pure degli altri santi, e che ad esse si deve tributare l’onore dovuto e la venerazione. Affermo inoltre che da Cristo è stato conferito alla Chiesa il potere delle indulgenze e che il loro uso è della massima utilità al popolo cristiano.

Riconosco la santa, cattolica ed apostolica Chiesa romana come madre e maestra di tutte le Chiese, e prometto e giuro obbedienza al romano Pontefice, successore di san Pietro principe degli apostoli e vicario di Gesù Cristo.

Accetto e professo ancora senza dubbi tutte le altre cose insegnate, definite e dichiarate dai sacri canoni e in particolare dal sacrosanto concilio di Trento [e dal concilio ecumenico Vaticano] [specialmente quanto al primato e al magistero infallibile del romano Pontefice]: nel contempo anch’io condanno, rigetto e anatematizzo tutte le dottrine contrarie e qualunque eresia condannata, rigettata ed anatematizzata dalla Chiesa.

Io N. prometto, mi impegno e giuro, con l’aiuto di Dio, di mantenere e conservare tenacissimamente integra ed immacolata fino all’ultimo respiro di vita questa stessa vera fede cattolica, fuori della quale nessuno può essere salvo, che ora spontaneamente professo e ammetto con convinzione, e di procurare, per quanto sta in me, che sia ritenuta, insegnata e predicata ai miei soggetti e a coloro di cui mi sarà affidata la cura nel mio ministero. Così faccio voto, così prometto e giuro; così mi aiutino Dio e questi santi Vangeli di Dio.

da amiciziacristiana.com

Il CREDO di Sant’Atanasio

Quicúmque vult salvus esse,  *
ante ómnia opus est, ut téneat cathólicam fidem:

Quam nisi quisque íntegram inviolatámque serváverit, *
absque dúbio in aetérnum períbit.

Fides autem cathólica haec est: *
ut unum Deum in Trinitáte, et Trinitátem in unitáte venerémur.

Neque confundéntes persónas, *
neque substántiam seperántes.

Alia est enim persóna Patris, alia Fílii, *
alia Spíritus Sancti:

Sed Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti una est divínitas, *
aequális glória, coaetérna maiéstas.

Qualis Pater, talis Fílius, *
talis Spíritus Sanctus.

Increátus Pater, increátus Fílius, *
increátus Spíritus Sanctus.

Immènsus Pater, imménsus Fílius, *
imménsus Spíritus Sanctus.

Aetérnus Pater, aetérnus Fílius, *
aetérnus Spíritus Sanctus.

Et tamen non tres aetérni, *
sed unus aetérnus.

Sicut non tres increáti, nec tres imménsi, *
sed unus increátus, et unus imménsus.

Simíliter omnípotens Pater, omnípotens Fílius, *
omnípotens Spíritus Sanctus.

Et tamen non tres omnipoténtes, *
sed unus omnípotens.

Ita Deus Pater, Deus Fílius, *
Deus Spíritus Sanctus.

Et tamen non tres dii, *
sed unus est Deus.

Ita Dóminus Pater, Dóminus Fílius, *
Dóminus Spíritus Sanctus.

Et tamen non tres Dómini, *
sed unus est Dóminus.

Quia, sicut singillátim unamquámque persónam Deum ac Dóminum confitéri christiána veritáte compéllimur: *
ita tres Deos aut Dóminos dícere cathólica religióne prohibémur.

Pater a nullo est factus: *
nec creátus, nec génitus.

Fílius a Patre solo est:*
non factus, nec creátus, sed génitus.

Spíritus Sanctus a Patre et Fílio: *
non factus, nec creátus, nec génitus, sed procédens.

Unus ergo Pater, non tres Patres: unus Fílius, non tres Fílii: *
unus Spíritus Sanctus, non tres Spíritus Sancti.

Et in hac Trinitáte nihil prius aut postérius, nihil maius aut minus: *
sed totae tres persónae coaetèrnae sibi sunt et coaequáles.

Ita ut per ómnia, sicut iam supra dictum est, *
et únitas in Trinitáte, et Trínitas in unitáte veneránda sit.

Qui vult ergo salvus esse, *
ita de Trinitáte séntiat.

Sed necessárium est ad aetérnam salútem, *
ut incarnatiónem quoque Dómini nostri Iesu Christi fidéliter credat.

Est ergo fides recta ut credámus et confiteámur, *
quia Dóminus noster Iesus Christus, Dei Fílius, Deus et homo est.

Deus est ex substántia Patris ante saécula génitus: *
et homo est ex substántia matris in saéculo natus.

Perféctus Deus, perféctus homo: *
ex ánima rationáli et humána carne subsístens.

Aequális Patri secúndum divinitátem: *
minor Patre secúndum humanitátem.

Qui, licet Deus sit et homo, *
non duo tamen, sed unus est Christus. .

Unus autem non conversióne divinitátis in carnem, *
sed assumptióne humanitátis in Deum.

Unus omníno, non confusióne substántiae, *
sed unitáte persónae.

Nam sicut ánima rationális et caro unus est homo:
ita Deus et homo unus est Christus.

Qui passus est pro salúte nostra: descéndit ad ínferos: *
tértia die resurréxit a mórtuis.

Ascéndit ad coélos, sedet ad déxteram Dei Patris omnipoténtis: *
inde ventúrus est iudicáre vivos et mórtuos.

Ad cuius advéntum omnes hómines resúrgere habent cum corpóribus suis: *
et redditúri sunt de factis própriis ratiónem.

Et qui bona egérunt, ibunt in vitam aetérnam: *
qui vero mala, in ígnem aetérnum.

Haec est fides cathólica, *
quam nisi quisque fidéliter firmitérque credíderit, salvus esse non póterit.
Amen.

 

TRADUZIONE

Chiunque voglia salvarsi, * 
deve anzitutto possedere la fede cattolica:

Colui che non la conserva integra ed inviolata * 
perirà senza dubbio in eterno. 

La fede cattolica è questa: * 
che veneriamo un unico Dio nella Trinità e la Trinità nell’unità.

Senza confondere le persone, * 
e senza separare la sostanza.

Una è infatti la persona del Padre, altra quella del Figlio, * 
ed altra quella dello Spirito Santo. 

Ma Padre, Figlio e Spirito Santo sono una sola divinità, * 
con uguale gloria e coeterna maestà. 

Quale è il Padre, tale è il Figlio, * 
tale lo Spirito Santo. 

Increato il Padre, increato il Figlio, * 
increato lo Spirito Santo. 

Immenso il Padre, immenso il Figlio, * 
immenso lo Spirito Santo.

Eterno il Padre, eterno il Figlio, * 
eterno lo Spirito Santo 

E tuttavia non vi sono tre eterni, * 
ma un solo eterno.

Come pure non vi sono tre increati, né tre immensi, * 
ma un solo increato e un solo immenso.

Similmente è onnipotente il Padre, onnipotente il Figlio, * 
onnipotente lo Spirito Santo.   
  
E tuttavia non vi sono tre onnipotenti, * 
ma un solo onnipotente. 
  
Il Padre è Dio, il Figlio è Dio, * 
lo Spirito Santo è Dio. 
  
E tuttavia non vi sono tre dei, * 
ma un solo Dio.

Signore è il Padre, Signore è il Figlio, * 
Signore è lo Spirito Santo.

E tuttavia non vi sono tre Signori, * 
ma un solo Signore.  

Poiché come la verità cristiana ci obbliga a confessare che ciascuna persona è singolarmente Dio e Signore: * 
così la religione cattolica ci proibisce di parlare di tre Dei o Signori. 

Il Padre non è stato fatto da alcuno: * 
né creato, né generato. 
  
Il Figlio è dal solo Padre: * 
non fatto, né creato, ma generato.

Lo Spirito Santo è dal Padre e dal Figlio: * 
non fatto, né creato, né generato, ma da essi procedente.

Vi è dunque un solo Padre, non tre Padri: un solo Figlio, non tre Figli: * 
un solo Spirito Santo, non tre Spiriti Santi.

E in questa Trinità non v’è nulla che sia prima o dopo, nulla di maggiore o minore: * 
ma tutte e tre le persone sono l’una all’altra coeterne e coeguali.

Cosicché in tutto, come già detto prima, * 
va venerata l’unità nella Trinità e la Trinità nell’unità. 

Chi dunque vuole salvarsi, * 
pensi in tal modo della Trinità.

Ma per l’eterna salvezza è necessario, * 
credere fedelmente anche all’Incarnazione del Signore nostro Gesù Cristo.

La retta fede vuole, infatti, che crediamo e confessiamo, * 
che il Signore nostro Gesù Cristo, Figlio di Dio, è Dio e uomo.

È Dio, perché generato dalla sostanza del Padre fin dall’eternità: * 
è uomo, perché nato nel tempo dalla sostanza della madre.  

Perfetto Dio, perfetto uomo: * 
sussistente dall’anima razionale e dalla carne umana.

Uguale al Padre secondo la divinità:* 
inferiore al Padre secondo l’umanità. 

E tuttavia, benché sia Dio e uomo, * 
non è duplice ma è un solo Cristo. 
  
Uno solo, non per conversione della divinità in carne, * 
ma per assunzione dell’umanità in Dio.  

Totalmente uno, non per confusione di sostanze, * 
ma per l’unità della persona.

Come infatti anima razionale e carne sono un solo uomo, * 
così Dio e uomo sono un solo Cristo. 

Che patì per la nostra salvezza: discese agli inferi: * 
il terzo giorno è risuscitato dai morti. 

É salito al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente: * 
e di nuovo verrà a giudicare i vivi e i morti.

Alla sua venuta tutti gli uomini dovranno risorgere con i loro corpi: * 
e dovranno rendere conto delle proprie azioni.

Coloro che avranno fatto il bene andranno alla vita eterna: * 
coloro, invece, che avranno fatto il male, nel fuoco eterno.

Questa è la fede cattolica, * 
e non potrà essere salvo se non colui che l’abbraccerà fedelmente e fermamente.  
Amen.

 

Benedetto XVI: “Il cristiano non deve essere tiepido”

“Il cristiano non deve essere tiepido”, perché “la tiepidezza discredita il cristianesimo”. Al contrario, “la fede deve divenire in noi fiamma dell’amore, fiamma che realmente accende il mio essere; diventa grande passione del mio essere e così accende il prossimo. Questo è il modo dell’evangelizzazione”. Sono le parole pronunciate dal Papa, che è intervenuto oggi a braccio, con una meditazione durante l’ora media, nella prima sessione di lavori del Sinodo dei vescovi. “L’Apocalisse – ha spiegato Benedetto XVI – ci dice che questo è il più grande pericolo del cristiano: no, che dica no; ma che dica un sì molto tiepido”. In una prospettiva cristiana, ha aggiunto, “la verità diventa in me carità e la carità accende come fuoco anche l’altro. Solo in questo accendere dell’altro per la fiamma della nostra carità, cresce realmente l’evangelizzazione, la presenza del Vangelo, che non è più solo parola, ma realtà vissuta”. “La cultura umana – ha fatto notare il Santo Padre – comincia nel momento nel quale l’uomo ha il potere di creare fuoco: con il fuoco posso distruggere, ma con il fuoco posso trasformare, rinnovare. Il fuoco di Dio è fuoco trasformante, fuoco di passione – certamente – che distrugge anche tanto in noi, che porta a Dio, ma fuoco soprattutto che trasforma, rinnova e crea una novità dell’uomo, che diventa luce in Dio”. Di qui l’auspicio che la “confessio” della fede “sia in noi fondata profondamente e che diventi fuoco che accende gli altri: così il fuoco della sua presenza, la novità del suo essere con noi, diventa realmente visibile e forza del presente e del futuro”. Nella prima parte del suo discorso a braccio, il Papa si è soffermato sul significato della parola “evangelium”: “Vangelo – ha detto – vuol dire che Dio ha rotto il suo silenzio, Dio ha parlato, Dio c’è. Questo fatto come tale è salvezza: Dio ci conosce, Dio ci ama, è entrato nella storia”. “Come possiamo far arrivare questa realtà all’uomo di oggi, affinché diventi salvezza?”, si è chiesto il Papa. “Noi non possiamo fare la Chiesa, possiamo solo far conoscere quanto ha fatto Lui. La Chiesa non comincia con il fare nostro, ma con il fare e il parlare di Dio. La prima parola, l’iniziativa vera viene da Dio e solo inserendoci in questa iniziativa divina possiamo anche noi divenire evangelizzatori”. Dio solo, dunque, “può creare la Chiesa”, e “quando noi facciamo nuova evangelizzazione è sempre cooperazione con Dio”, ha spiegato Benedetto XVI, ricordando che per i cristiani “la ‘confessio’ non è’ una parola; è più che il dolore, è più che la morte. Chi fa questa ‘confessio’ dimostra così che realmente quanto confessa è più che viva, è la vita stessa, è il tesoro, è la perla preziosa e infinita”.

La santità del sacerdote secondo San Tommaso

Quanto maggior somiglianza con Cristo i fedeli riscontreranno nei sacerdoti, tanto più facilmente si lasceranno guidare da loro. E, pertanto, più efficace sarà il loro ministero.

di Mons. João Scognamiglio Clá Dias, EP

Considerando in profondità l’essenza dell’ordinazione sacerdotale e dello stesso ministero sacro, San Tommaso ci insegna che il presbitero deve tendere alla perfezione ancora di più rispetto a un religioso o una suora. Per comprendere questo insegnamento, basta infatti tenere ben presente l’alto grado di santità che la Celebrazione Eucaristica e la santificazione delle anime richiedono da un ministro,1 come ci esorta il Divino Maestro: “Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini. Voi siete la luce del mondo” (Mt 5, 13-14a).

Tenuto conto di questa enorme responsabilità, si comprende il motivo per il quale non pochi santi hanno avuto timore dell’ordinazione sacerdotale. E’ una questione di scottante attualità, perché il maggiore o minore successo del suo ministero a favore dei fedeli può dipendere, in particolare, dal sacerdote stesso. Sappiamo che i Sacramenti operano con efficacia per il potere di Cristo, producendo la grazia di per sè.

Tuttavia, la loro profondità sarà maggiore o minore a seconda delle disposizioni interiori di chi li riceve. E qui entra in gioco un elemento soggettivo, nel quale ha un importante ruolo l’azione pastorale del ministro ordinato, poiché la sua virtù, il suo fervore, il suo impegno a predicare il Vangelo, in definitiva, la santità della sua vita – che è, a sua volta, una forma eccellente ed insostituibile di predicazione -, possono influenzare i fedeli a ricevere i Sacramenti con migliore disposizione, beneficiandosi maggiormente dei loro frutti.

Sarà questo il fattore più rilevante per il buon adempimento del ministero sacerdotale? A tal proposito, nella Lettera per la Proclamazione dell’Anno Sacerdotale, del 16 giugno scorso, Papa Benedetto XVI evidenzia che il sacerdote deve apprendere da San Giovanni Maria Vianney “la sua totale identificazione col proprio ministero”. Ecco perché il Santo Padre vuole, in questo tempo, “favorire la tensione dei sacerdoti verso la perfezione spirituale da cui dipende, principalmente, l’efficacia del loro ministero”.2

È questo punto – di massima importanza per la vita della Chiesa, specialmente per la missione di annunciare il Vangelo e santificare i fedeli – che verrà qui sviluppato: la relazione tra efficacia del ministero sacerdotale e santità personale di coloro che lo esercitano. Si ricorrerà innanzitutto al perenne insegnamento di San Tommaso d’Aquino.

La santità del sacerdote, una esigenza

Fin dall’Antica Legge, la persona del sacerdote è stata circondata da una dignità che richiede una vita esemplare. Così, nel Libro del Levitico, troviamo un doppio appello alla santità. Da una parte, su ordine di Dio, Mosè esorta il popolo di Israele a cercare la perfezione: “Parla a tutta la comunità degli Israeliti e ordina loro: Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lv 19, 1). Ai sacerdoti la santità è richiesta con più ragione, perché sono loro che offrono sacrifici, giocando il ruolo di intermediari tra Dio e il popolo.

Presentarsi macchiato dal peccato davanti all’Altissimo, per esercitare il munus sacerdotale, sarebbe un affronto al Creatore. “I sacerdoti […] saranno santi per il loro Dio e non profaneranno il nome del loro Dio, perché offrono al Signore sacrifici consumati dal fuoco, pane del loro Dio; perciò saranno santi” (Lv 21, 5-6).

Dal momento che l’Antico Testamento è prefigurazione del Nuovo, si comprende la necessità che, nella Nuova Alleanza, la santità raggiunga un grado maggiore. Questo si riflette nella teologia tomista, che ci presenta il ministro ordinato come elevato ad una dignità regale, nel mezzo di altri fedeli di Cristo, poiché rappresenta e, in diverse occasioni, agisce in persona Christi. Impossibile, pertanto, immaginare un titolo più alto. Essendo poi chiamato ad essere mediatore tra Dio e gli uomini, oltre che guida di costoro per le cose divine, egli deve necessariamente essere superiore a loro in santità, anche se tutti i battezzati sono chiamati alla perfezione.

Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, nella sua opera La Selva, basandosi sull’autorità di San Tommaso, delinea la figura del sacerdote come colui che, per il suo ministero, supera in dignità gli stessi Angeli e, per questo è costretto ad una maggiore santità, dato il loro potere sul Corpo di Cristo. Da qui, conclude il fondatore dei Redentoristi, la necessità di una dedizione integrale del sacerdote alla gloria di Dio, in modo tale che brilli agli occhi del Signore, in virtù della sua buona coscienza e agli occhi del popolo per la sua buona reputazione.3

A questo proposito ancora, la dottrina tomista ricorda la necessità che i ministri del Signore abbiano una vita santa: “In omnibus ordinibus requiritur sanctitas vitæ”.4 Devono, pertanto, soprattutto loro, essere il più possibile simili allo stesso Dio: “Siate perfetti così come il vostro Padre Celeste è perfetto” (Mt 5, 48). Sono note le invettive di Nostro Signore contro gli scribi e i farisei.

Ciò che Gesù recriminava a questi uomini, che tanto conoscevano la Legge, era proprio il fatto di non vivere quello che insegnavano. Pretendendo di apparire agli occhi degli altri come illustri esecutori dei precetti mosaici, non avevano una retta intenzione, né vero amore per Dio. I loro riti esteriori non erano accompagnati dalla compunzione di cuore. Affinché i sacerdoti della Nuova Alleanza, non cadano nello stesso difetto, è opportuno ricordare il commento alle Sentenze di Pietro Lombardo, in cui San Tommaso afferma: “Coloro che si dedicano ai ministeri divini ottengono una dignità regale e devono essere perfetti nella virtù, come si legge nel Pontificale”.5

È per questo che nell’omelia suggerita nel rito di ordinazione sacerdotale è inclusa questa toccante esortazione: “Prendi coscienza di quello che fai, e metti in pratica ciò che celebri, in modo che, nel celebrare il mistero della Morte e Risurrezione del Signore, farai ogni sforzo per mortificare il tuo corpo, fuggendo i vizi, per vivere una nuova vita”.6 L’amore ha portato il Signore Gesù a offrire la propria vita in olocausto sulla Croce, per la redenzione dell’umanità.

Anche coloro che sono chiamati ad essere mediatori tra Dio e gli uomini, devono esercitare il loro ministero per amore, come insegna l’Aquinate. Il sacerdote, quindi, è chiamato ad un grado di santità speciale: “Dall’Ordine sacro, il chierico è consacrato ai ministeri più degni che esistono, nei quali egli serve Cristo nel Sacramento dell’altare, il che richiede una santità interiore maggiore di quella richiesta nello stato religioso”.7

Il sacerdote è un modello per i fedeli

Essendo visto dai fedeli come una persona scelta da Dio a guidarli, il ministro ordinato deve essere sempre esempio illustre di virtù, come raccomanda l’Apostolo al suo discepolo Tito: “Mostrati in tutto modello di buona condotta: per la purezza di dottrina, dignità, linguaggio sano e irreprensibile, perché il nostro avversario resti confuso, non avendo nulla di male da dire sul conto nostro.” (Tt 2, 7-8).

Infatti, un comportamento irreprensibile, infiammato dalla carità, che dà testimonianza della bellezza della Chiesa e della verità del messaggio evangelico, parlerà molto più profondamente ed efficacemente alle anime che il più logico ed eloquente dei discorsi: “La gloria del maestro è la vita virtuosa del discepolo, come la salute dell’infermo ridonda a lode del medico. […] Se presentiamo le nostre buone opere, sarà lodata la dottrina di Cristo”.8 Cristo è il vero modello del ministro consacrato.

È in Lui che il sacerdote deve configurarsi, non solo per il carattere sacramentale, ma anche per l’imitazione delle sue perfezioni, in modo che in lui i fedeli possano vedere un altro Cristo. Solo allora questi si sentiranno attratti dal buon esempio del loro pastore e guida. Data la natura sociale dell’uomo, la buona reputazione derivante dalla pratica della virtù conduce gli altri all’imitazione. Così, quanto più somiglianti a Cristo i fedeli troveranno i ministri di Dio, tanto più facilmente, essi si lasceranno guidare da loro. Pertanto, più efficace sarà il loro ministero.

La sacralità del sacerdote

Un elemento connesso al buon esempio è la proporzionata rispettabilità di cui deve circondarsi il ministro di Dio – non solo per il comportamento inattaccabile, ma anche per la postura, per il modo di essere e per l’abito – in modo che le sue azioni esercitino più influenza nell’anima dei fedeli. Infatti, anche ai nostri giorni, l’esperienza quotidiana ci mostra come è impressionante l’ammirazione che si porta al religioso o sacerdote che si presenta come tale.

Questa rispettabilità, che ad alcuni può sembrare artificialità, si rivela essere un prezioso aiuto al ministro stesso, perché contribuisce a tener sempre presente la grande dignità di cui è stato investito, che ha impresso carattere nella sua anima, per tutta l’eternità, oltre ad essere, allo stesso tempo, una salutare protezione contro le innumerevoli seduzioni del mondo.

La Santa Messa, fonte della santità sacerdotale

In questo Anno Sacerdotale, iniziato in occasione dei 150 anni della morte del Santo Curato d’Ars, modello di sacerdote, viene a proposito ricordare la sua radicata e ardente devozione alla Santa Messa: “Se conoscessimo il valore della Messa, moriremmo. Per celebrarla degnamente, il sacerdote dovrebbe essere santo. Quando saremo in Cielo, allora vedremo che cos’è la Messa, e come tante volte la celebriamo senza la debita reverenza, adorazione, raccoglimento”.9

Nel decreto Presbyterorum ordinis, il Concilio Vaticano II, in perfetta armonia con la dottrina tomista, riassume mirabilmente la centralità dell’Eucaristia nella vita spirituale del sacerdote, come suo principale mezzo di santificazione.

Ricorda, in seguito, che è attraverso il ministero ordinato che il sacrificio spirituale dei fedeli si consuma in perfetta unione con il sacrificio di Cristo, offerto nell’Eucaristia in modo incruento e sacramentale. Afferma inoltre che “a questo tende e in questo si consuma il ministero dei presbiteri. Infatti, il loro ministero, che inizia con la predicazione del Vangelo, prende dal sacrificio di Cristo la loro forza e la loro virtù”.10 Il che equivale a dire che il sacerdote vive per la Celebrazione Eucaristica ed è da questa che deve acquistare la forza per progredire nella pratica della virtù.

Garrigou-Lagrange sintetizza con precisione questa dottrina: “Il sacerdote deve considerarsi ordinato principalmente per offrire il Sacrificio della Messa. Nella sua vita, questo Sacrificio è più importante dello studio e delle opere esteriori di apostolato. Infatti, il suo studio deve essere indirizzato alla conoscenza sempre più approfondita del mistero di Cristo, sommo Sacerdote e il suo apostolato deve derivare dall’unione con Cristo, Sacerdote principale”.11 Royo Marín, commentando l’esortazione del Pontificale Romano, fatta dal Vescovo agli ordinandi, afferma con enfasi che la Santa Messa è “la funzione più alta e augusta del sacerdote di Cristo”.12

E, conoscitore delle molteplici occupazioni pastorali di un sacerdote, che possono facilmente distrarlo dal fulcro della sua vocazione di mediatore tra Dio e gli uomini, rafforza la stessa idea, subito dopo, con accese parole di zelo sacerdotale: “Si è un sacerdote in primo luogo e soprattutto, per glorificare Dio mediante l’offerta del Santo Sacrificio della Messa”.13 Benedetto XVI, trattando della vocazione e spiritualità sacerdotali, sotto una prospettiva pastorale, afferma: “La Celebrazione Eucaristica è il grande e nobile atto di preghiera e costituisce il centro e la fonte dal quale anche le altre forme di preghiera ricevono la “linfa”: la Liturgia delle Ore, l’adorazione eucaristica, la lectio divina, il santo Rosario, la meditazione”.14

L’efficacia del ministero sacerdotale

Come abbiamo visto in precedenza, la santità di vita del sacerdote, come esempio per i fedeli di Cristo, è un potente elemento per condurli alla perfezione. Bene sottolinea Mons. Chautard che a un sacerdote santo corrisponde un popolo fervente; a un sacerdote zelante, un popolo devoto; a un sacerdote pio, un popolo onesto; a un sacerdote onesto, un popolo malvagio.15 Grande è, dunque, il ruolo della virtù del ministro, per il successo del suo ministero.

Per quanto riguarda l’applicazione del valore della Santa Messa, con finalità propiziatoria, si può parlare della sua efficacia soggettiva, dipendente dalle disposizioni di chi la celebra e di coloro ai quali essa si applica, come spiega San Tommaso: “Sebbene l’offerta dell’Eucaristia, per la sua stessa grandezza basti alla soddisfazione di ogni pena, tuttavia ha valore di soddisfazione per coloro per cui viene offerta, o per coloro che la offrono, secondo la misura della loro devozione, e non di tutta la pena loro dovuta”.16

Su questo passo del Dottore Angelico, Albert Raulin commenta così: “Sarebbe una perniciosa illusione credere che l’offerente sia esonerato dal fervore con il pretesto che Cristo, offrendoSi nella Messa, ha soddisfatto pienamente per tutti i peccati del mondo”.17 Di fronte a questa realtà, il sacerdote ha due grandi doveri uno verso se stesso e l’altro verso il popolo, poiché entrambi traggono beneficio dai frutti della Santa Messa, specialmente il celebrante, conforme il grado di fervore o devozione.18

In questo modo, egli corrisponderà all’altissima dignità del suo ministero, come diceva il Santo Curato d’Ars: “Senza il sacramento dell’Ordine, non avremmo il Signore. Chi Lo ha collocato lì in quel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha accolto la tua anima nel primo momento dell’ingresso nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di realizzare il suo pellegrinaggio? Il sacerdote.

Chi ha da prepararla a comparire davanti a Dio, lavandola per l’ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, sempre il sacerdote. E se quest’anima arriva a morire [col peccato], chi la resusciterà, chi le restituirà la serenità e la pace? Ancora il sacerdote. […] Dopo Dio, il sacerdote è tutto! […] Lui stesso non si comprenderà bene da se stesso, se non in Cielo”.19

La voce della Cattedra di Pietro

Giunti al termine di questo lavoro, invece di ricapitolare l’argomento trattato, come sarebbe di prammatica nel migliore stile accademico, ci sembra filiale verso la Cattedra di Pietro ricordare qui, a titolo di conclusione, alcuni punti importanti di documenti recenti del Magistero Pontificio sul sacerdozio. Non smette di commuovere come, nella sua ultima Lettera ai Sacerdoti, nel 2005, Papa Giovanni Paolo II abbia voluto centrare questo documento sulle parole della Consacrazione, quasi a voler sottolineare che l’apice della sua vita sacerdotale si stava avvicinando, con l’offerta del suo stesso sacrificio, con il dono totale della vita unita al sacrificio di Cristo.

Offerta raccomandata dall’attuale pontefice nella Lettera per la Proclamazione dell’Anno Sacerdotale, citando queste parole del Santo Curato d’Ars, “Come fa bene un sacerdote offrendosi in sacrificio a Dio, tutte le mattine!”. Infatti, Giovanni Paolo II iniziava la sua ultima Lettera ricordando che “se tutta la Chiesa vive dell’Eucaristia, l’esistenza sacerdotale deve a titolo speciale assumere ‘forma eucaristica’”.20

È essenziale che il sacerdote, per salvare coloro che gli sono affidati, offra il proprio sacrificio, unito a quello di Cristo, ad esempio di San Paolo: “Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1, 24). È in questa maniera che le parole della Consacrazione si trasformano in “formula di vita”, secondo l’esempio dato dal Servo di Dio Giovanni Paolo II.

Insegnamento questo ricordato anche dal suo successore, Benedetto XVI: “Le anime costano il Sangue di Cristo e il sacerdote non può dedicarsi alla sua salvezza se si rifiuta di contribuire con la sua parte per l’ ‘alto prezzo’ della Redenzione”.21 Non possiamo, infine, non evocare il ruolo insostituibile della Madre di Dio nella vita sacerdotale. “Chi può, meglio di Maria, farci assaporare la grandezza del mistero eucaristico? Nessuno può, come Lei, insegnarci con quanto fervore dobbiamo celebrare i santi Misteri e trattenerci in compagnia di suo Figlio, nascosto sotto le specie dell’Eucaristia”.22

Ci insegna ancora questo Papa così mariano, quale è stato Giovanni Paolo II, nella sua Enciclica Ecclesia de Eucaristia: “Nel ‘memoriale’ del Calvario, è presente quanto Cristo ha realizzato nella sua Passione e Morte. Per questo, non può mancare ciò che Cristo ha fatto per sua Madre a nostro favore. Infatti, Le ha consegnato il discepolo prediletto e, con lui, ognuno di noi: ‘Ecco qui Tuo figlio.

Allo stesso modo dice anche ad ognuno di noi: ‘Ecco la tua madre'” (cfr. Gv 19, 26-27). In quest’Anno Sacerdotale, cerchiamo specialmente di stare uniti al sacrificio di Cristo con lo spirito di Maria, Egli che ha fatto di tutta la sua esistenza una Eucaristia anticipata, preparandoSi giorno per giorno alla Sua consegna suprema sul Calvario.

(Passi dello studio preparato per la Pontificia Congregazione per il Clero, in occasione dell’Anno Sacerdotale – Testo integrale in www.annussacerdotalis.org, sezione “Studi”)

1 Cf. GARRIGOU-LAGRANGE, OP, Réginald.
De Sanctificatione sacerdotum, secundum nostri temporis exigentias.
Roma: Marietti, 1946, pagg.66-67.
2 BENEDETTO XVI. Discorso alla Congregazione per il Clero, 16/03/2009.
3 Cf. SANTO AFONSO MARIA DE LIGÓRIO.
A Selva. Porto: Fonseca, 1928, pag.6. L’Autore rimanda ai seguenti punti delle opere di San Tommaso: Summa Theologiæ, III, q.22, a.1, ad.1; Super Heb. c.5, lec. 1; Summa Theologiæ, II-II, q.184, a.8; Summa Theologiæ, Supl. q.36, a.1.
4 SANCTUS THOMAS AQUINAS, Summa Theologiæ, Supl. q.36, a.1.
5 SANCTUS THOMAS AQUINAS. IV Sent.
d.24, q.2.
6 PONTIFICAL ROMANO.
Rito de Ordenação de Diáconos, Presbíteros e Bispos, n. 123.
São Paulo: Paulus, 2004.
7 SANCTUS THOMAS AQUINAS, Summa Theologiae, II-II, q.184, a.8., Resp.
8 Super Tit. c.2, lec.2.
9 Apud GARRIGOU-LAGRANGE, OP, Réginald.
De unione sacerdotis cum Christo sacerdote et victima. Roma: Marietti, 1948, pag. 42.
10 Presbyterorum ordinis, n.12.
11 GARRIGOU-LAGRANGE, OP, op. cit., pag.38.
12 ROYO MARÍN, OP, Antonio. Teología de la Perfección Cristiana.
Madrid: BAC, 2001, pag.848.
13 Idem, ibidem.
14 BENEDETTO XVI.
Omelia nella Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, 3/5/2009.
15 Cf. CHAUTARD, OCSO, Jean-Baptiste. A Alma de todo o apostolado.
Porto: Civilização, 2001, pagg.34-35.
16 SANCTUS THOMAS AQUINAS, Summa Theologiæ, III, q.79, a.5, Resp.
17 In: SÃO TOMÁS DE AQUINO. Suma Teológica.
São Paulo: Loyola, 2006, v.IX, pag.358. 18 Cf. ROYO MARÍN, OP, Antonio. Teología Moral para Seglares. Madrid: BAC, 1994, v.II, pag.158.
19 Parole di San Giovanni Maria Vianney, citate dal Papa Benedetto XVI nella Lettera per la Proclamazione dell’Anno Sacerdotale, del 16/6/2009.
20 GIOVANNI PAOLO II.
Lettera ai Sacerdoti, n.1, 13/05/2005.
21 BENEDETTO XVI. Lettera per la Proclamazione dell’Anno Sacerdotale, 16/6/2009.
22 GIOVANNI PAOLO II.
Op. cit., n.8, 13/3/2005.

(Rivista Araldi del Vangelo,Febbraio/2010, n. 82, p. 18 -23)

Ancora sulle ricchezze della Chiesa: per sfatare un po’ di luoghi comuni…

Il Papa vendendo uno dei suoi anelli sfamerebbe L’Africa”, “Perché la Chiesa che è cosí ricca non destina tutti i suoi beni per aiutare i poveri?”, “Il Papa veste Prada”…Queste le provocazioni tragicomiche che circolano spesso sul web, stimolate da alcuni media (i soliti noti) che montano ad arte la questione della “Chiesa ricca”, così come hanno fatto in modo strumentale e disonesto, e tuttora a cadenze alterne continuano a fare, sul tema ICI (ora IMU) e Chiesa Cattolica.

Si tratta in realtà di alcuni dei tanti luoghi comuni – a cui oramai siamo abituati – ampiamente diffusi da movimenti atei, materialistici e massonici, che spesso purtroppo fanno breccia anche nella mentalità degli stessi fedeli cristiani. Proprio ieri mi è capitato di parlare con una signora molto devota che dopo aver chiesto indicazione stradali per raggiungere una nota località mariana per prepararsi all’Indulgenza del “Perdono di Assisi”, ha concluso dicendo che “San Francesco sì che era un vero esempio cristiano, non i preti e le chiese che  sono pieni di ricchezze”. Alla signora non ho avuto il tempo di dire che comuqnue un prete guadagna, sì e no, 800 euro al mese, e un vescovo tra gli 800 e i 1200 euro al mese (e di certo non li spendono per andare in vacanza alle Seychelles).

Ma mi rendo conto che tali luoghi comuni sono molto diffusi anche perchè favoriti da una certa ignoranza circa le reali proporzioni del problema.

Innanzitutto la Chiesa, come ogni altra istituzione, ha il diritto e la necessità di dotarsi di tutti i mezzi necessari allo svolgimento della sua missione, perciò non solo può ma deve possedere beni mobili e immobili ed ogni altro mezzo necessario alla sua vita e alla sua missione. La comunità ecclesiale, qualsiasi comunità, piccola o grande, ha una dimensione che non è solo spirituale ma anche fisica e sociale e perciò necessità di spazi di aggregazione, edifici, strutture di governo, mezzi assistenziali e caritativi di ogni genere, in tutti i settori, inclusi quelli della cultura e dell’arte che spesso sono fra i piú appariscenti. Ogni organismo se vuole svolgere una missione deve garantire anche il proprio sostentamento, in caso contrario, la sua prima opera sarebbe anche l’ultima.

L’anello e le scarpe del Papa

Faccio una breve parentesi riguardo al famoso “anello del Papa che sfamerebbe l’Africa”, e che “varrebbe milioni – qualcuno dice addirittura “miliardi” –  di euro”. Nulla di più falso e ridicolo. In realtà si tratta di semplice oro, ha la grandezza e dunque il valore di due fedi nuziali, viene usato come timbro per sigillare ogni documento ufficiale redatto dal Papa. Senza poi contare che alla morte del Papa viene rotto con un martelletto d’argento, rifuso e riutilizzato per il Pontefice successivo. Tecnicamente è sempre lo stesso da secoli. E non occorre essere cattolici per capire che un oggetto di tal valore non risolverebbe i problemi di una sola famiglia neppure per una settimana e che, onde evitare di urlare slogan tanto assurdi, basterebbe semplicemente informarsi, o almeno usare un pò di buon senso o quella razionalità laica che il Signore ha concesso a tutti.

Seconda parentesi: le “fantomatiche scarpe del Papa”. Un articolo di Repubblica – pubblicato pochi mesi dopo l’elezione del Papa al soglio pontificio – titolava: “Il look di Papa Ratzinger: spuntano le scarpe Prada”.  Questo era lo scoop a cui hanno abboccato decine e decine di anticlericali e la notizia si è trascinata negli anni. La leggenda è stata così confezionata: il Papa veste Prada, vive nel lusso, è servito e riverito mentre nel mondo c’è gente che muore di fame. Nel 2008 l’Osservatore Romano ha provato a smentirla, ottenendo pochi risultati purtroppo. Lo stesso l’Agenzia Ansa nel 2010. Di recente si è tornati sulla questione grazie ad una pagina Facebook dedicata proprio al Pontefice. Si riporta la notizia, come vi è scritto sul quotidiano del Vaticano, che è il sarto novarese Adriano Stefanelli a produrre le scarpe papali, rosse ad indicare il sangue del martirio, che fanno parte dell’abito del papa fin dal Medioevo e da allora sono indossate da ogni pontefice. Non sono Prada, non hanno alcun costo, visto che il Sig. Stefanelli le ha donate al Santo Padre e ha affermato: «Io le mie scarpe al Papa le regalo, perché a volte la passione paga più del denaro». (Qui l’articolo citato) [1].

Le proprietà vaticane

Ma torniamo alla questione da cui siamo partiti. Bisogna chiarire innanzitutto che il Papa non è ricco, che tutto ciò che gli viene attribuito non è suo, e che dopo la morte non lascia niente a nessuno e viene seppellito in una bara di legno grezzo, praticamente nudo, e con un velo di lino sul volto.

La maggior parte delle cosiddette “ricchezze” del Vaticano sono tesori che nell’arco della storia della Chiesa, sono stati donati da persone che hanno ricevuto delle grazie particolari e che il Vaticano non ha nessun diritto di vendere.

Due millenni di storia, di arte, di cultura, la Basilica di Pietro, la Cappella Sistina, la Pietà di Michelangelo, le stanze dei musei Vaticani sono patrimonio dell’umanità e sono solo gestite dalla Chiesa.

La Santa Sede è solo custode vigile e scrupolosa di una immensa quantità di opere d’arte in parte donate e in parte proprietà privata dei successori di S. Pietro, esposte in stanze degne di accogliere tanta bellezza e a disposizione di chiunque abbia desiderio di apprezzarle.  Ma sono beni che il Papa pur volendo non potrebbe vendere, lo impedisce il diritto internazionale. Nulla è suo, ma gli è stato concesso di usarlo. La Chiesa non può farne ciò che desidera, ha il compito di conservare tali beni nel nome dello Stato italiano. In tutte le Nazioni esistono svariate misure per la difesa delle opere d’arte, perché lo Stato ha il dovere di preservarle nel tempo. E ricordo come i beni della Santa Sede facciano anche parte della storia culturale dell’Italia. Con la stessa logica con cui chiediamo alla Chiesa di vendere i suoi beni per aiutare i bisognosi, potremmo chiedere allo Stato di vendere il Colosseo di Roma, o gli Uffizi di Firenze o la Mole Antonelliana di Torino o qualcuna delle tante opere d’arte che l’Italia possiede.

La Carità e la Chiesa

Quanto alla carità verso i più deboli, sappiamo tutti come la dottrina cristiana e il magistero insegnino da sempre l’importanza e la necessità per l’uomo di sviluppare una sensibilità e un’attenzione particolare per i poveri e gli emarginati. La carità cristiana è il cuore del messaggio evangelico.

La Chiesa, infatti, è sempre stata in prima linea nell’aiutare concretamente i poveri di tutto il mondo, con le Caritas, le Missioni e le Opere Pie. Si pensi ai tantissimi missionari che nei Paesi più disparati del mondo, soprattutto in quelli più poveri, portano l’annuncio evangelico prodigandosi anche per sollevare le popolazioni dalla povertà, dall’emarginazione, dalla fame, dalle malattie, nonchè per l’educazione e la scolarizzazione dei ragazzi, tutto questo spesso rimettendoci la salute e anche la vita.

Ma alla base di gran parte degli attacchi rivolti alla Chiesa sui beni e gli averi di sua proprietà, vi è un equivoco fondamentale dell’intera concezione scritturistica sulla ricchezza e sulla povertà.

Basterebbe leggere alcuni dei tanti versetti, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, in cui il Signore non chiede che il culto gli venga dato in estrema povertà, tutt’altro… (Vedi qui alcuni esempi) [2].

Nel distacco dalle cose materiali di questo mondo possiamo elevarci a Dio. Se siamo capaci di distaccare il cuore dalle nostre ricchezze, ci sarà più facile glorificare il Signore cercando di rendere degna e bella la Sua casa. Gli oggetti preziosi custoditi dalla Chiesa e nelle chiese è chiaro che non servono a Dio, ma il loro splendore serve per richiamare noi, per ricordare che stiamo facendo gli atti più grandi e più sublimi di culto. Sono un segno della nostra fede, della nostra riconoscenza a Dio che ci ha resi partecipi di beni così grandi. Non teniamo gli oggetti preziosi nelle casseforti perché i ladri non li rubino, ma li usiamo anche per dare a Dio il massimo splendore nel culto.

Nel Vangelo non c’è condanna per la ricchezza in sè. Il noto passo del Vangelo di Matteo in cui Cristo ammonisce: “è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli” (Mt. 19, 24) deve essere letto sistematicamente con l’insieme dei suoi precetti e dei suoi insegnamenti.

“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt. 5,3), riproposizione in chiave affermativa di Matteo 4,4: “Non di solo pane vivrà l’uomo”. Cristo ha voluto, cioè, evidenziare il carattere spirituale dell’uomo, che cioè questo non è mera corporeità, non deve limitarsi al solo aspetto materiale dell’esistenza. Il Vangelo non fornisce dottrine economiche, materiali, “biologiche”, ma insegnamenti teologici, morali e spirituali.

Per l’autentico pensiero cristiano, la ricchezza, la proprietà, gli averi, non sono dei mali in sè stessi.

Gesù indossava una tunica preziosa (che i soldati che lo crocifissero si giocarono a sorte), non disdegnò il profumo di nardo purissimo di gran valore, amava i banchetti e riposarsi dall’amico ricco.

Alle nozze di Cana, invitato a cena a casa di uomini importanti, finito il vino, Gesù non ha detto “avete bevuto abbastanza e dovreste pensare ai poveri che non hanno vino”, ma ha onorato la festa e il matrimonio (compiendo fra l’altro il suo primo miracolo).

Gesù stesso ci dice che veniva accusato dai farisei di essere un beone e un mangione solo perché, nella loro visione distorta, si contrapponeva al Battista che viveva di stenti.

Gesù ha lodato la donna che ha rotto per lui un vasetto di nardo genuino di gran valore. E ai commensali che si sdegnano per lo spreco di quel profumo così prezioso per Lui anzichè “vendere quest’olio a più di trecento denari e darli ai poveri”, Egli risponde: “Lasciatela stare; perché le date fastidio? Ella ha compiuto verso di me un’opera buona;  i poveri infatti li avete sempre con voi e potete beneficarli quando volete, me invece non mi avete sempre. Essa ha fatto ciò ch’era in suo potere, ungendo in anticipo il mio corpo per la sepoltura. In verità vi dico che dovunque, in tutto il mondo, sarà annunziato il Vangelo, si racconterà pure in suo ricordo ciò che ella ha fatto” (Mc 14,3-9). Un denaro era la paga giornaliera di un operaio; trecento denari la paga quasi di un anno. Gesù non l’ha rimproverata, anzi l’ha lodata. E’ venuto incontro all’esigenza del nostro animo di manifestare anche con segni permanenti il nostro affetto verso di Lui.

Quello da cui ci mette in guardia Gesù è semmai l’atteggiamento di morbosità verso la ricchezza, l’attaccamento, la schiavitù della ricchezza, l’avidità, la cupidigia nel perseguirla e l’ostinazione nel possederla, che soffocano il seme della vita e rischiano di sostituire i doni ricevuti a Dio stesso.

I Santi

Nella Vita del Santo Curato d’Ars si legge che viveva poverissimamente. Aveva licenziato la perpetua, perché per cibo si cucinava ogni settimana una pignatta di patate. Ma per quanto riguardava il culto a Dio voleva che fosse sempre al meglio. Era convinto che il culto esterno dev’essere un richiamo per il culto interno, oltre che un grande atto di amore.

San Francesco è vissuto poverissimo, ma anche lui voleva i vasi sacri fossero preziosi. Ecco che cosa si legge nelle Fonti francescane: “Francesco sentiva tanta riverenza e devozione verso il corpo di Cristo, che avrebbe voluto scrivere nella regola che i frati ne avessero ardente cura e sollecitudine nelle regioni in cui dimoravano, ed esortassero con insistenza chierici e sacerdoti a collocare l’Eucaristia in luogo conveniente e onorevole. Se gli ecclesiastici trascuravano questo dovere, voleva che se lo accollassero i frati. Anzi, una volta ebbe l’intenzione di mandare, in soste le regioni, alcuni frati forniti di pissidi, affine di riporvi con onore il corpo di Cristo, dovunque lo avessero trovato custodito in modo sconveniente. Volle inoltre che altri frati percorressero tutte le regioni della cristianità, muniti di belli e buoni ferri per far ostie”. (Fonti francescane n. 1635).

“Ardeva di amore in tutte le fibre del suo essere verso il sacramento del Corpo del Signore, preso da stupore oltre ogni misura per tanta benevola degnazione e generosissima carità. Riteneva grave segno di disprezzo non ascoltare ogni giorno la Messa, anche se unica, se il tempo lo permetteva. Si comunicava spesso e con tanta devozione da rendere devoti anche gli altri. Infatti, essendo colmo di reverenza per questo venerando sacramento, offriva il sacrificio di tutte le sue membra, e quando riceveva l’agnello immolato, immolava lo spirito in quel fuoco, che ardeva sempre sull’altare del suo cuore. Per questo amava la Francia, perché era devota del Corpo del Signore, e desiderava morire in essa per la venerazione che aveva dei sacri misteri. Un giorno volle mandare i frati per il mondo con pissidi preziose, perché riponessero in luogo il più degno possibile il prezzo della redenzione, ovunque lo vedesse conservato con poco decoro” (Fonti francescane n. 789).

“Voleva che si dimostrasse grande rispetto alle mani del sacerdote, perché ad esse è state conferito il di potere di consacrare questo sacramento. “Se mi capitasse – diceva spesso – di incontrare insieme un santo che viene dal cielo ed un sacerdote poverello, saluterei prima il prete e correrei a baciargli le mani. Direi, infatti, Ohi, Aspetta, san Lorenzo, perché le mani di costui toccano il Verbo di vita e possiedono un potere sovrumano” (Fonti francescane n. 790).

Il Papa in Africa

Poco fa accennavo alla bufala totalmente inventata dell’ ”anello papale che sfamerebbe l’Africa”. Vorrei fare anche una piccola riflessione sulla realtà dell’Africa e dei problemi che l’affliggono. La situazione in Africa – come in altre parti del mondo sottosviluppato –  è molto complessa e di non facile soluzione a causa di innumerevoli ragioni che riguardano anche chi governa quei paesi e persino chi aiuta quei paesi. Non basta inviare soldi per risolvere i problemi in quelle zone.

I loro governanti spesso hanno interesse a che tutto rimanga così per controllare meglio il territorio. Ci sono poi alcune multinazionali che sfruttano le risorse naturali del continente.  Per non parlare degli organismi internazionali (Vedi ONU e Unione Europea) che “ricattano” i paesi dell’Africa imponendo politiche disumane di controllo delle nascite (come sterilizzazioni, aborto, contraccezione, ecc.)  in cambio  degli aiuti.

Tutte questioni trattate, e anche coraggiosamente denunciate, una per una, da Papa Benedetto XVI quando si è recato in Africa qualche anno fa. Stranamente di quel viaggio si ricorda solo la famosa frase sui preservativi strappatagli maliziosamemte dai giornalisti in aereo, ma non si ricorda invece il fatto che il Papa era andato lì ad illustrare  e presentare un importantissimo documento promulgato per la Seconda Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi:  l’Instrumentum laboris, un documento molto denso, frutto di quattordici anni di lavoro della Chiesa per studiare e capire l’Africa, a partire dall’esortazione apostolica di Papa Giovanni Paolo II  Ecclesia in Africa del 1995, che dopo il Primo Sinodo per l’Africa aveva esortato a uno studio più approfondito della situazione religiosa e sociale del continente africano.

Un documento salutato dai media africani come uno dei più importanti testi sull’Africa mai apparsi, tanto più se lo si legge – come Benedetto XVI ha invitato a fare – insieme con i discorsi del Papa in Camerun e Angola, che lo illustrano e lo completano [Cfr. “Il Papa e la sua Africa”, di Massimo Introvigne – Cesnur] [3].

I media italiani ed europei hanno invece completamente taciuto su questo importante documento. E purtroppo questo silenzio da parte della stampa occidentale dimostra o almeno fa sospettare fortemente che all’Occidente e ai media interessa ben poco della situazione in cui versano questi poveri fratelli.

E le continue ed infondate accuse verso la Chiesa oscurano purtroppo quello che di grande essa fa ogni giorno (giustamente nel silenzio e senza megafoni) proprio a favore dei più deboli.

Infine vorrei ricordare che la Chiesa con la C maiuscola è la comunità dei battezzati. Ogni battezzato è incorporato alla Chiesa che è il Corpo mistico di Gesù Cristo. Invece di condannare il mondo ecclesiale, ognuno di noi dovrebbe interrogarsi su ciò che fa di buono per migliorare le sorti di questo mondo e del terzo mondo. Ogni battezzato ha il dovere di contribuire al bene della comunità. Dunque, riguardo all’aiuto al prossimo – per quanto ci è possibile e ognuno nel suo piccolo – siamo tutti interpellati, nessuno escluso.

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Note:

[1] Il Papa veste Prada? NO, era una bufala.

[2] “Ricchezza della Chiesa” – Un sacerdote risponde (Amici Domenicani); Perché la Chiesa ha accumulato, nel corso degli anni, notevoli ricchezze ben visibili anche nell’abbigliamento del Santo Padre? (Amici Domenicani).

[3] Il Papa e la sua Africa (di Massimo Introvigne – Cesnur).

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tratto da unacasasullaroccia.wordpress.com

Don Bux: il Santo Curato d’Ars

La Chiesa cattolica questo sabato ricorda la memoria del santo Curato d’Ars, patrono dei parroci e dei sacerdoti. Ne parliamo con Monsignor Nicola Bux, teologo apprezzato dal Papa e noto liturgista. Monsignor Bux, che dire del Curato d’Ars? “col suo zelo, con la sua opera appassionata e fedele ha reso grande e ricca di penitenti una parrocchia sulla carta isolata e insignificante di campagna”. Merito suo: “certo, quel santo prete ha dimostrato con i fatti, che cosa deve fare il sacerdote, che cosa i fedeli chiedono da un ministro di Dio e sarebbe opportuno oggi più che mai ricordare una cosa”. Prego: “il sacerdote è colui il quale media tra l’uomo e la divinità, anzi è ordinato sacramentalmente per questo, non per altro. Oggi, al contrario, è spesso in voga una visione diversa del prete, che trascende nella idea sociologica della missione, il prete che si trasforma in esponente sindacale, in rappresentante politico, oppure in colui che vive per la legalità. …

… Il fedele, al prete, non chiede questo e forse non lo vuole nemmeno. Il sacerdote è colui il quale nel silenzio, nella obbedienza, predica la Parola e amministra i sacramenti”.

Il Santo Curato d’Ars appunto faceva questo:

“e il successo pastorale lo conferma. Lui fu il prototipo del confessore e del prete, la gente voleva andare da lui e un motivo ci sarà stato anche. I fedeli non chiedono preti eroi o sindacalisti, neppure coloro che si fanno paladini della astratta legalità ed ignorano il confine tra diritto e legalità”.

Bruno Volpe

tratto da pontifex.roma.it

L’abito sacerdotale: sua finalità e sua importanza

“Chi non ama la sua talare resisterà ad amare il suo servizio a Dio? Il prossimo non sostituisce Dio! Non è soldato chi non ama la sua divisa.” (Card. Giuseppe Siri)

di Daniele Di Sorco

 

1. Il monaco senza abito.

Si dice che l’abito non fa il monaco, il che è vero, nel senso che non basta mettersi qualcosa addosso per cambiare vita o distinguersi esteriormente dal mondo per operare la propria conversione interiore. D’altra parte, è vero anche il contrario: abbandonare l’abito religioso o deformarlo a mero “segno di riconoscimento” (come il tesserino appuntato sul petto dagli addetti di qualche azienda) può significare due sole cose, entrambe negative: o la vergogna per un modo di essere che si cerca di nascondere ogni qual volta faccia comodo; o l’idea secondo cui tra i consacrati e i laici non vi sia alcuna differenza se non sul piano puramente accidentale. In ultima analisi, è un della fede, occultata o deformata, che provoca l’abbandono, se non addirittura il disprezzo, della veste sacra.

Non è mia intenzione, qui, analizzare minutamente le molteplici ragioni che giustificano l’uso, da parte dei consacrati, di un abito diverso dalle altre persone. Tuttavia, poiché oggi anche il semplice buon senso sembra vacillare, bisognerà per lo meno spendere una parola contro le obiezioni più frequenti.

2. Chiarezza, non finzione.

La prima è quella secondo cui il consacrato, vestendosi come chiunque, sarebbe più vicino alla gente, più capace di mettersi in relazione con loro. Ora, la chiarezza dei ruoli sta alla base del funzionamento di un rapporto. Nessuno, credo, per corteggiare una ragazza si vestirebbe da donna; e sarebbe ridicolo che il capo di un’azienda, per avere migliori relazioni coi propri operai, andasse a visitarli in tuta da lavoro. Anzi, nell’uno e nell’altro caso l’interlocutore si sentirebbe preso in giro dal tentativo di impostare il rapporto su un mezzo inganno. E reagirebbe o allontanando il dissimulatore oppure trattandolo con sufficienza, perché chi si vergogna di un modo di essere perfettamente legittimo non ha alcun diritto ad essere preso sul serio. Con questo cade la prima obiezione all’abito religioso: chi non lo porta per avvicinarsi alla gente, si rende, sia pure involontariamente, artefice di un inganno. Il consacrato deve avvicinare la gente come consacrato, non come finto laico.

3. Il falso spiritualismo si traduce in vero materialismo.

L’altra frequente obiezione viene formulata più o meno in questo modo: uno stato interiore e spirituale non ha bisogno di essere manifestato con segni esteriori e materiali. Distinguo: uno stato interiore e spirituale privato, che non ha riflessi visibili sulla propria condizione pubblica, non ha effettivamente bisogno di essere denotato esteriormente. Non si chiederà ad un laico che si è confessato e ha fatto la Comunione di appendersi una nastrino al collo per far sapere a tutti la grazia che ha ricevuto. Anzi, vantarsi dei propri meriti, ancorché spirituali, significa alienarsi, come dice il Vangelo, la ricompensa che essi avrebbero meritato nell’altra vita. Invece uno stato interiore e spirituale pubblico, che cioè muta la condizione pubblica di una persona, modificandone il suo status, non solo può, ma deve essere manifestato con segni visibili. Ora, il conferimento dei sacri ordini è pubblico, come pubblico è l’ingresso in un istituto religioso mediante la solenne professione dei voti. È necessario, quindi, che il consacrato porti esteriormente un segno di questa sua condizione, che lo distingue dagli altri fedeli e che, essendo pubblica, dev’essere pubblicamente manifestata.

Certo, la sana filosofia ci insegna a subordinare il materiale allo spirituale. Sappiamo perfettamente che il segno esteriore ha senso nella misura in cui riflette uno stato interiore. Attribuire soverchia importanza al segno, a scapito della realtà che esso significa, vuol dire confondere il mezzo col fine, l’accidentale con l’essenziale. Ma nell’uomo, fatto di anima e di corpo, anche la parte materiale ha la sua importanza. È l’istituzione stessa dei Sacramenti a dimostrarcelo. Per veicolarci le sue grazie ex opere operato, nostro Signore avrebbe potuto scegliere qualunque mezzo, anche puramente spirituale. Invece ha deciso di legarle ad un segno tangibile, un segno che, pur essendo in se stesso materiale, produce infallibilmente una grazia spirituale. Perché questa scelta? Per la consapevolezza che l’uomo, non essendo un puro spirito (come gli Angeli), ha bisogno di segni sensibili per accedere più facilmente alle realtà insensibili (cioè non percepibili attraverso i sensi). Ho parlato dell’istituzione dei Sacramenti. Ma avrei potuto menzionare anche l’Incarnazione. Dio poteva redimerci in diversi modi. Se ha scelto di farlo assumendo l’umana natura, è per lo scopo delineato dal prefazio di Natale: “affinché, conoscendo Dio visibilmente, siamo rapiti alla contemplazione delle realtà invisibili”.

Bisogna quindi tenersi egualmente lontani da due opposti eccessi: da un lato, quello del materialismo, che ordina l’inferiore (le realtà corporee) al superiore (le realtà spirituali), comportando il dileguo di queste ultime; e dall’altro quello, non meno deleterio, dello spiritualismo, che, pur riconoscendo la ragionevole supremazia delle realtà spirituali, finisce per misconoscere l’importanza di quelle materiali.

L’uomo, diceva Pascal, è un po’ angelo e un po’ bestia. Quando cerca di diventare solo angelo, finisce per diventare solo bestia. Il protestantesimo ha voluto trasformare la religione del Verbo incarnato in qualcosa di puramente spirituale, senza sacramenti, senza sacrificio, senza sacerdozio, in una parola senza segni visibili che producano la grazia invisibile. Dopo non molto tempo, questo innaturale spiritualismo si è trasformato nel suo contrario, cioè nell’esaltazione della materia a scapito dello spirito. E non può essere altrimenti. Sganciato da uno dei propri elementi costitutivi – il corpo – l’uomo tenta di librarsi nei puri cieli dello spirito; ma, come dice il Poeta, “sua disianza vuol volar sanz’ali”, poiché l’uomo non è un angelo, anche se si sforza di diventarlo. Non nel senso che non possa raggiungere la purezza di un angelo o la santità di un angelo, ma nel senso che non può comportarsi come se non avesse anche una parte materiale, la quale, se non viene usata come mezzo di santificazione, finisce per assumere una propria autonomia, trasformandosi in mezzo di dannazione. Mi spiego con un esempio. Tutti abbiamo bisogno di mangiare: possiamo seguire ciecamente questo istinto, e ammalarci di indigestione; possiamo fingere che non esista, e morire di fame; oppure possiamo mangiare per saziarci, ossia ordinando la realtà corporale (l’istinto) alla realtà spirituale (la ragione). Ora, poiché gli aspiranti suicidi, grazie a Dio, sono pochissimi, le persone che negano al cibo qualunque utilità, piuttosto che morire di fame, finiranno per passare al versante diametralmente opposto, cioè a sostenere la necessità di assecondare irrazionalmente le proprie passioni. È il finto angelo che diventa vera bestia.

4. Tentazioni gnostiche.

L’utilizzo di un segno esteriore che denoti una condizione interiore è dunque connaturale all’essenza dell’uomo, il quale, come abbiamo visto, deve servirsi ragionevolmente delle realtà materiali in modo da ordinarle a quelle spirituali. Di qui la somma importanza dell’abito sacro. Esso, infatti, non si limita ad indicare una condizione qualsiasi, tra le tante che l’uomo può pubblicamente assumere, ma è il segno di uno stato di vita diverso e distinto da quello delle altre persone. In quanto stato, tale condizione non viene mai abbandonata, neppure temporaneamente. Il consacrato non è tale solo quanto è in servizio: per questo i sacerdoti o i religiosi che usano la veste sacra solo durante le funzioni sono da biasimare non meno di quelli che non la usano mai. Anzi, forse sono da biasimare di più, perché, oltre a fraintendere il significato del segno, lo sviliscono a puro elemento di esibizione, come se il sacerdote non avesse alcun bisogno dell’abito e lo indossasse solamente per non deludere gli innocenti e puerili desideri del popolo. Chi si comporta così, riconosce il principio, sopra esposto, secondo cui le cose sensibili vanno utilizzate per favorire la contemplazione delle cose soprasensibili; ma ne limita l’applicazione ad alcune categorie di persone: il popolo, semplice e istintivo, ha bisogno di questi segni; i sacerdoti, i dotti, le persone colte, no. Non è difficile riconoscere in questo una forma velata di gnosi: l’accesso ad una forma di conoscenza riservata a pochi crea l’illusione di trascendere la natura umana, di non aver bisogno di ciò di cui tutti hanno bisogno. Inutile far rilevare come, alla resa dei conti, i consacrati che seguono questo tipo di ragionamento, quando non usano la veste, lo fanno per i discutibili motivi di cui abbiamo parlato all’inizio del presente articolo, se non addirittura per ragioni ancor meno onorevoli. È, ancora una volta, l’angelo (anche se stavolta restringe la possibilità di de-materializzarsi ad una ristretta cerchia di privilegiati) che si rivela bestia.

In realtà, il consacrato è il primo ad aver bisogno della veste sacra, è il primo ad aver bisogno di un segno esteriore che gli ricordi, anche quando sarebbe più propenso a dimenticarlo, il suo stato di vita. La natura umana, come ben sappiamo, non è distrutta dalla grazia; tanto meno è distrutta dalla conoscenza di certe nozioni o dall’assunzione di uno stato di vita (gnosi). Da questo punto di vista, il sacerdote è un uomo come tutti gli altri, bisognoso, anche lui, di ordinare il corpo mediante il ragionevole utilizzo delle realtà sensibili. Per questo le costituzioni degli Ordini religiosi, fino alla recenti riforme, ordinavano al consacrato di non deporre mai la sacra veste: perfino durante la notte, se non si usava l’abito intero (distinto, ovviamente, da quello impiegato durante il giorno), bisognava portare l’abitino, ossia un piccolo scapolare dello stesso tessuto e colore della veste sacra. Il terzo Concilio plenario di Baltimora stabiliva che i sacerdoti potevano indossare il clergyman solo all’esterno (come d’abitudine nei paesi anglosassoni), mentre in chiesa e in casa (cioè anche nel privato) doveva tassativamente portare la talare. In molti seminari, i candidati ai sacri ordini dormivano con l’abito talare piegato e deposto sul petto: non si trattava, come alcuni vorrebbero, di un semplice memento mori, ma della logica applicazione del principio secondo cui l’abito religioso serve anzitutto al sacerdote per riconoscere se stesso. Nei bui momenti di sconforto, di scoraggiamento, di tentazione, quando la volontà interiore è meno propensa a ricordarsi degli impegni assunti e delle scelte fatte, è spesso un segno esteriore che ci richiama alla realtà e ci salva. Riconoscere questo, non significa trasformare l’uomo in un eterno fanciullo, sempre bisognoso di qualcuno o qualcosa che lo controlli; significa piuttosto prendere atto della natura intima dell’uomo (in cui l’angelo, in alcuni momenti, rischia di essere soppiantato dalla bestia) e predisporre gli opportuni rimedi. Di qui la necessità di usare la veste sacra come memento al consacrato del suo modo di essere. In questo stessa senso va inquadrata la prassi di portare la tonsura o chierica nei capelli, la quale peraltro, a differenza della veste, non poteva essere neppure deposta. L’abito non fa il monaco, ma aiuta ad esserlo.

5. Dignità e bellezza.

C’è poi un’ultima questione da affrontare. Secondo alcuni, il sacerdote deve sì essere identificabile come tale, ma per ottenere questo scopo basta un “segno di riconoscimento” qualsiasi: una crocetta, un tau, un colletto, qualunque cosa possa alludere alla sua funzione. Osserviamo, anzitutto, che un segno, per essere riconoscibile, dev’essere univoco: quindi, parlare di un “segno di riconoscimento” senza stabilire esplicitamente quale, non ha alcun senso. Oggi siamo arrivati al paradosso di sacerdoti i quali pensano di essere riconosciuti per una sorta di telepatia interiore, come se il loro modo di essere ce l’avessero scritto in faccia. Né c’è da stupirsene, visto che alludere ad un “segno di riconoscimento” senza definirlo, significa lasciare aperto il campo alle più disparate interpretazioni, anche a quelle telepatico-sensitive. In secondo luogo, un segno, per essere efficace, deve avere una qualche relazione evidente ed immediata (analogia) con la realtà che vuole significare. Ora, è indubbio che la veste sacra, per il fatto di avvolgere interamente chi la porta, rimanda in modo assai efficace al fatto della totale consacrazione a Dio. Il consacrato, anche esteriormente, è rivestito di Cristo. La sua separazione dal mondo (che non significa estraneità, visto che, tolti i casi di vita assolutamente contemplativa, continua in vario modo ad operare nel mondo) è denotata dall’uso di vesti radicalmente diverse da quelle comuni. I colori sobri e le stoffe poco pregiate rimandano alla scelta dell’umiltà e, per chi ne ha fatto voto, della povertà. Secondo la stessa logica, i Prelati, in ragione del proprio ruolo, indossano vesti dai colori e dai tessuti più preziosi. E tutto questo, senza considerare le simbologie proprie degli abiti dei singoli istituti, ricchissime di significati teologici e spirituali. Come, celebrando la Messa, il sacerdote – anche esteriormente – si spoglia di se stesso e si riveste di Cristo, così nella sua vita quotidiana il consacrato, che ha rinunciato a se stesso abbracciando un determinato stato di vita, deve testimoniare – anche esteriormente – la sua intima identificazione col Salvatore.

Per questo la veste sacra non dev’essere priva di una sua dignità estetica. Trascurare questo aspetto in nome della comodità o del funzionalismo, significa eliminare od oscurare la corrispondenza analogica tra simbolo e significato. Non di rado, oggi, vediamo abiti religiosi striminziti e di tessuto sottilissimo, che lasciano trasparire le vesti borghesi sottostanti e che sembrano fatti apposta per essere frettolosamente indossati quando ci si reca ad una funzione o si esce di casa. Nulla a che vedere rispetto alle vesti ampie, nobili e dignitose, ancorché poverissime, che si usavano prima delle recenti riforme. Le modifiche più notevoli si sono avute negli abiti delle religiose: ai lungi veli, ai soggoli inamidati, alle ampie gonne che scendevano fino al ginocchio, alle cinture, agli scapolari (cose, talvolta, di forma originale o insolita, ma sempre degne di una sposa di Cristo e comunque munite di una loro storia e di un loro significato), si sono sostituiti dei ridicoli tailleur stile anni Cinquanta, con gonna al ginocchio e giacchetta stilizzata. D’estate non è raro vedere le mezze maniche. Il soggolo è completamente scomparso e il velo si è trasformato in un esile fazzoletto, che lascia intravedere più capelli di quanti ne compra. Non è difficile scorgere, in queste stilizzazioni, il passaggio dall’abito come segno “escatologico”, la cui forma suggerisce la realtà che è chiamata a significare, all’abito come segno “di riconoscimento”, dotato di una funzione puramente convenzionale. E tutto questo senza tener conto delle conseguenze psicologiche di simili scelte: infatti, stilizzare o trascurare il segno che denota il proprio modo di essere, viene comunemente interpretato come negligenza e disinteresse verso il modo di essere in quanto tale.

6. Considerazioni finali.

Concludo con un tentativo di sintesi. L’abito religioso è il segno esteriore di una realtà interiore. Esso non è coessenziale a questa realtà, nel senso che non è indispensabile affinché questa esista (l’abito non fa il monaco), ma ne è la legittima espressione, conformemente alla natura dell’uomo, che essendo composto di anima e di corpo ha bisogno di servirsi delle cose visibili per cogliere meglio quelle invisibili (l’abito aiuta ad essere monaco). Spogliarsi del segno esteriore non implica la cessazione della realtà interiore; ma è visto dagli altri o come un suo svilimento (vergogna per ciò che si è) o come un tentativo di inganno (fingersi ciò che non si è). Quindi non è in alcun modo funzionale alle relazioni col prossimo, che, al contrario, hanno come presupposto la chiarezza, anche esteriore, dei ruoli. Queste considerazioni, se valgono per il prossimo, valgono a maggior ragione per il consacrato stesso, il quale, per primo, ha bisogno di un segno che gli ricordi sempre, anche quando sarebbe più propenso a scordarlo, la propria condizione. In quanto simbolo (realtà materiale che allude ad una realtà spirituale), la veste sacra deve avere una corrispondenza analogica con ciò che significa: in altre parole, deve in qualche modo rimandare, nel colore e nella forma, alle caratteristiche dello stato di vita che è chiamata a rappresentare. I segni di riconoscimento convenzionali (crocette, colletti, tau), come pure gli abiti stilizzati e imbruttiti che hanno rimpiazzato le dignitose vesti tradizionali, non soddisfano questo requisito, quindi sono da scartare. Essi denotano, tutt’al più, una funzione (come quella di un impiegato che porti un cartellino di riconoscimento), ma non un modo di essere: non sono sufficienti a fare della veste religiosa quel “segno escatologico” di cui parlano gli autori di spiritualità. Anzi, a causa della loro bruttezza ed ordinarietà, finiscono per svilire, a livello psicologico, anche la realtà che significano.

L’esperienza dimostra quanto abbiamo tentato di spiegare a parole. Nel corso della storia, l’abbandono della veste sacra è sempre coinciso con periodi di forte decadenza spirituale. Ad avere in uggia la forma tradizionale dell’abito sacro erano, per esempio, i chierici frivoli e libertini del XVIII secolo. Quanto al clero moderno, l’ostentata noncuranza nei confronti dei segni esteriori fa riscontro ad una mondanizzazione e ad una crisi d’identità (disciplinare e dottrinale) senza precedenti.

Del resto, la decadenza della religiosità esteriore è, ad un tempo, causa ed effetto della decadenza della religiosità interiore, poiché la mente umana è fatta in modo tale da conoscere invisibilia per visibilia. Trascurando il segno visibile, si finisce a poco a poco per perdere il contatto con la realtà invisibile da esso rappresentata. Parallelamente, chi non è più in grado di cogliere adeguatamente le cose spirituali non avverte più il bisogno di esprimerle in forma materiale. Si tratta di un circolo vizioso (abyssus clamat abyssum), dal quale è possibile uscire solo col recupero dei sani concetti della filosofia e della teologia tradizionali e col ritorno alla secolare prassi della Chiesa cattolica.

tratto dal sito www.messainlatino.it

Il velo muliebre

Perché S. Paolo consiglia alle donne di tenere il capo coperto durante le azioni liturgiche?


Il Codice di Diritto Canonico del 1917 prescriveva alle donne di tenere il capo coperto in Chiesa, soprattutto al momento della Santa Comunione. Nel nuovo Codice non c’è traccia di questa disposizione e ormai questa antica e venerabile usanza è caduta nel dimenticatoio; eppure essa era fondata su una disposizione dello stesso Apostolo San Paolo. Ma, tra l’esegesi razionalista moderna, che tende a storicizzare tutte le disposizioni particolari (“roba d’altri tempi…”), e il famigerato luogo comune per cui “l’uomo di oggi” non sarebbe più in grado ci capire certe cose, anche la consuetudine, per le donne, di coprire il capo in chiesa, è andata perduta.

Per non parlare poi di molte suore, che, un tempo ben vestite (chi non ricorda i cappelloni delle Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli?), oggi espongono il ciuffo, per andar di pari passo con chi ha gettato tonaca e coletto bianco alle ortiche (e qui, visti i magrissimi risultati estetici, avendo tolto il velo, c’è assai spesso da stenderne subito un altro, questa volta pietoso, come si suol dire). Ma guai se ci limitassimo a rimpiangere i tesori che ci hanno scippato: dobbiamo cercare, con l’aiuto della Madonna, anche per questo caso, le ragioni della Tradizione: e allora leggiamo le parole dell’Apostolo, e vediamo come alcuni Padri della Chiesa le hanno interpretate. Dalla prima lettera di S. Paolo Apostolo ai Corinzi: [11,3] “Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. Ma ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di riguardo al proprio capo, poiché è lo stesso che se fosse rasata. Se dunque una donna non vuol mettersi il velo, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra. L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli. Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l’uomo, né l’uomo è senza la donna; come infatti la donna deriva dall’uomo, così l’uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio. Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna faccia preghiera a Dio col capo scoperto? Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli, mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chioma le è stata data a guisa di velo. Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine e neanche le Chiese di Dio”.

Da questo brano, noi possiamo ben comprendere i motivi per cui S. Paolo consiglia alle donne di tenere il capo coperto durante le azioni liturgiche. I motivi sono, essenzialmente, quattro:

1) La simbologia delle nozze tra Cristo e la natura umana. In chiesa, durante la liturgia, l’uomo e la donna non rappresentano solo se stessi, ma l’uomo – ogni uomo – rappresenta Cristo, lo Sposo: la donna rappresenta il genere umano, la natura umana sposa del Verbo. Possiamo comprendere ciò considerando la natura sponsale della fede (Ti sposerò nella fede e tu conoscerai il Signore – Os 2,22), il contesto generale della liturgia (l’atmosfera in cui la fede è esercitata nel modo più perfetto) e l’esplicito richiamo alle nozze di S. Paolo: E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo – 1 Cor 11, 8-9. Cristo sta all’uomo (maschio e femmina) come l’uomo sta alla donna. Inoltre l’uomo, diversamente dalla donna, è “immagine e gloria di Dio”, non per se stesso, ma in quanto rappresenta Cristo: perciò egli non può stare con il capo coperto, perché in questo modo egli “disonora il suo capo” (11,4) il suo proprio rappresentare Cristo: un uomo con il capo coperto non rappresenta bene Cristo, così una donna con il capo scoperto, non rappresenta bene la natura umana ela Chiesasposa di Cristo. In questo senso Tertulliano dice: “Poiché io sono l’immagine del creatore, non c’è posto in me per un altro capo (che non sia Cristo)” (Contro Marcione, V, 8, 1).

2) Un segno della sottomissione a Cristo. Una donna con il capo coperto dal velo, ricorda a tutti coloro che sono in chiesa che la natura umana è sposa di Cristo: perciò la donna, in quanto rappresenta la natura umana, deve avere un segno della sua dipendenza sul suo capo (1 Cor 11,10): questo segno della dipendenza è il segno dell’autorità di Cristo nei confronti della sua Sposa, la natura umana. Perciò il Concilio Gangrense chiama il velo memoriale, ricordo della sottomissione. S. Giovanni Crisostomo lo chiama insegna della sottomissione; Tertulliano giogo della sua umiltà (cf. Cornelius a Lapide, ad loc.).

3) Il rispetto del perfetto equilibrio del cosmo. L’edificio della chiesa rappresenta il cosmo, ricolmato della gloria di Dio, specialmente durante la celebrazione della S. Messa (I cieli e la terra sono pieni della tua gloria…). Il cosmo è perfettamente ordinato (Ma tu hai tutto disposto con misura, calcolo e peso – Sap 11,20). Nessuno può dimenticare la presenza, all’interno della chiesa-cosmo, della gerarchia celeste, perfettamente ordinata (Voi vi siete invece accostati al monte di Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli, all’adunanza festosa… – Eb 12,22). Non è quindi conveniente che in un cosmo perfettamente ordinato qual è la celebrazione liturgica, la ordinata relazione tra Cristo-Sposo e Chiesa-Sposa – la particolare relazione che la celebrazione liturgica ricrea nel modo più perfetto -, non sia mostrata (Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli – 1 Cor 11,10)

4) Un segno naturale di umiltà. Ultimo aspetto, ma non di minore importanza: “Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli, mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chioma le è stata data a guisa di velo” (1 Cor 11, 14-15). È obbligatorio, per le donne, portare il velo in Chiesa? Oggi non più, ma S. Paolo ce ne spiega i sempre validi motivi di convenienza.

Don Alfredo Morselli, 16 giugno 2009

Il sacerdote secondo Benedetto XVI

Mirabile omelia del Papa sul vero significato di essere sacerdoti: no alla disobbedienza, no alla creatività, no alle false teorie.

SANTA MESSA DEL CRISMA
OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Basilica Vaticana Giovedì Santo, 5 aprile 2012

Cari fratelli e sorelle!

In questa Santa Messa i nostri pensieri ritornano all’ora in cui il Vescovo, mediante l’imposizione delle mani e la preghiera, ci ha introdotti nel sacerdozio di Gesù Cristo, così che fossimo “consacrati nella verità” (Gv 17,19), come Gesù, nella sua Preghiera sacerdotale, ha chiesto per noi al Padre. Egli stesso è la Verità. Ci ha consacrati, cioè consegnati per sempre a Dio, affinché, a partire da Dio e in vista di Lui, potessimo servire gli uomini. Ma siamo anche consacrati nella realtà della nostra vita? Siamo uomini che operano a partire da Dio e in comunione con Gesù Cristo? Con questa domanda il Signore sta davanti a noi, e noi stiamo davanti a Lui. “Volete unirvi più intimamente al Signore Gesù Cristo e conformarvi a Lui, rinunziare a voi stessi e rinnovare le promesse, confermando i sacri impegni che nel giorno dell’Ordinazione avete assunto con gioia?” Così, dopo questa omelia, interrogherò singolarmente ciascuno di voi e anche me stesso. Con ciò si esprimono soprattutto due cose: è richiesto un legame interiore, anzi, una conformazione a Cristo, e in questo necessariamente un superamento di noi stessi, una rinuncia a quello che è solamente nostro, alla tanto sbandierata autorealizzazione. È richiesto che noi, che io non rivendichi la mia vita per me stesso, ma la metta a disposizione di un altro – di Cristo. Che non domandi: che cosa ne ricavo per me?, bensì: che cosa posso dare io per Lui e così per gli altri? O ancora più concretamente: come deve realizzarsi questa conformazione a Cristo, il quale non domina, ma serve; non prende, ma dà – come deve realizzarsi nella situazione spesso drammatica della Chiesa di oggi? Di recente, un gruppo di sacerdoti in un Paese europeo ha pubblicato un appello alla disobbedienza, portando al tempo stesso anche esempi concreti di come possa esprimersi questa disobbedienza, che dovrebbe ignorare addirittura decisioni definitive del Magistero – ad esempio nella questione circa l’Ordinazione delle donne, in merito alla quale il beato Papa Giovanni Paolo II ha dichiarato in maniera irrevocabile che la Chiesa, al riguardo, non ha avuto alcuna autorizzazione da parte del Signore. La disobbedienza è una via per rinnovare la Chiesa? Vogliamo credere agli autori di tale appello, quando affermano di essere mossi dalla sollecitudine per la Chiesa; di essere convinti che si debba affrontare la lentezza delle Istituzioni con mezzi drastici per aprire vie nuove – per riportare la Chiesa all’altezza dell’oggi. Ma la disobbedienza è veramente una via? Si può percepire in questo qualcosa della conformazione a Cristo, che è il presupposto di ogni vero rinnovamento, o non piuttosto soltanto la spinta disperata a fare qualcosa, a trasformare la Chiesa secondo i nostri desideri e le nostre idee? Ma non semplifichiamo troppo il problema. Cristo non ha forse corretto le tradizioni umane che minacciavano di soffocare la parola e la volontà di Dio? Sì, lo ha fatto, per risvegliare nuovamente l’obbedienza alla vera volontà di Dio, alla sua parola sempre valida. A Lui stava a cuore proprio la vera obbedienza, contro l’arbitrio dell’uomo. E non dimentichiamo: Egli era il Figlio, con l’autorità e la responsabilità singolari di svelare l’autentica volontà di Dio, per aprire così la strada della parola di Dio verso il mondo dei gentili. E infine: Egli ha concretizzato il suo mandato con la propria obbedienza e umiltà fino alla Croce, rendendo così credibile la sua missione. Non la mia, ma la tua volontà: questa è la parola che rivela il Figlio, la sua umiltà e insieme la sua divinità, e ci indica la strada. Lasciamoci interrogare ancora una volta: non è che con tali considerazioni viene, di fatto, difeso l’immobilismo, l’irrigidimento della tradizione? No. Chi guarda alla storia dell’epoca post-conciliare, può riconoscere la dinamica del vero rinnovamento, che ha spesso assunto forme inattese in movimenti pieni di vita e che rende quasi tangibili l’inesauribile vivacità della santa Chiesa, la presenza e l’azione efficace dello Spirito Santo. E se guardiamo alle persone, dalle quali sono scaturiti e scaturiscono questi fiumi freschi di vita, vediamo anche che per una nuova fecondità ci vogliono l’essere ricolmi della gioia della fede, la radicalità dell’obbedienza, la dinamica della speranza e la forza dell’amore. Cari amici, resta chiaro che la conformazione a Cristo è il presupposto e la base di ogni rinnovamento. Ma forse la figura di Cristo ci appare a volte troppo elevata e troppo grande, per poter osare di prendere le misure da Lui. Il Signore lo sa. Per questo ha provveduto a “traduzioni” in ordini di grandezza più accessibili e più vicini a noi. Proprio per questa ragione, Paolo senza timidezza ha detto alle sue comunità: imitate me, ma io appartengo a Cristo. Egli era per i suoi fedeli una “traduzione” dello stile di vita di Cristo, che essi potevano vedere e alla quale potevano aderire. A partire da Paolo, lungo tutta la storia ci sono state continuamente tali “traduzioni” della via di Gesù in vive figure storiche. Noi sacerdoti possiamo pensare ad una grande schiera di sacerdoti santi, che ci precedono per indicarci la strada: a cominciare da Policarpo di Smirne ed Ignazio d’Antiochia attraverso i grandi Pastori quali Ambrogio, Agostino e Gregorio Magno, fino a Ignazio di Loyola, Carlo Borromeo, Giovanni Maria Vianney, fino ai preti martiri del Novecento e, infine, fino a Papa Giovanni Paolo II che, nell’azione e nella sofferenza ci è stato di esempio nella conformazione a Cristo, come “dono e mistero”. I Santi ci indicano come funziona il rinnovamento e come possiamo metterci al suo servizio. E ci lasciano anche capire che Dio non guarda ai grandi numeri e ai successi esteriori, ma riporta le sue vittorie nell’umile segno del granello di senape.

Cari amici, vorrei brevemente toccare ancora due parole-chiave della rinnovazione delle promesse sacerdotali, che dovrebbero indurci a riflettere in quest’ora della Chiesa e della nostra vita personale. C’è innanzitutto il ricordo del fatto che siamo – come si esprime Paolo – “amministratori dei misteri di Dio” (1Cor 4,1) e che ci spetta il ministero dell’insegnamento, il (munus docendi), che è una parte di tale amministrazione dei misteri di Dio, in cui Egli ci mostra il suo volto e il suo cuore, per donarci se stesso. Nell’incontro dei Cardinali in occasione del recente Concistoro, diversi Pastori, in base alla loro esperienza, hanno parlato di un analfabetismo religioso che si diffonde in mezzo alla nostra società così intelligente. Gli elementi fondamentali della fede, che in passato ogni bambino conosceva, sono sempre meno noti. Ma per poter vivere ed amare la nostra fede, per poter amare Dio e quindi diventare capaci di ascoltarLo in modo giusto, dobbiamo sapere che cosa Dio ci ha detto; la nostra ragione ed il nostro cuore devono essere toccati dalla sua parola. L’Anno della Fede, il ricordo dell’apertura del Concilio Vaticano II 50 anni fa, deve essere per noi un’occasione di annunciare il messaggio della fede con nuovo zelo e con nuova gioia. Lo troviamo naturalmente in modo fondamentale e primario nella Sacra Scrittura, che non leggeremo e mediteremo mai abbastanza. Ma in questo facciamo tutti l’esperienza di aver bisogno di aiuto per trasmetterla rettamente nel presente, affinché tocchi veramente il nostro cuore. Questo aiuto lo troviamo in primo luogo nella parola della Chiesa docente: i testi del Concilio Vaticano II e il Catechismo della Chiesa Cattolica sono gli strumenti essenziali che ci indicano in modo autentico ciò che la Chiesa crede a partire dalla Parola di Dio. E naturalmente ne fa parte anche tutto il tesoro dei documenti che Papa Giovanni Paolo II ci ha donato e che è ancora lontano dall’essere sfruttato fino in fondo.

Ogni nostro annuncio deve misurarsi sulla parola di Gesù Cristo: “La mia dottrina non è mia” (Gv 7,16). Non annunciamo teorie ed opinioni private, ma la fede della Chiesa della quale siamo servitori. Ma questo naturalmente non deve significare che io non sostenga questa dottrina con tutto me stesso e non stia saldamente ancorato ad essa. In questo contesto mi viene sempre in mente la parola di sant’Agostino: E che cosa è tanto mio quanto me stesso? Che cosa è così poco mio quanto me stesso? Non appartengo a me stesso e divento me stesso proprio per il fatto che vado al di là di me stesso e mediante il superamento di me stesso riesco ad inserirmi in Cristo e nel suo Corpo che è la Chiesa. Se non annunciamo noi stessi e se interiormente siamo diventati tutt’uno con Colui che ci ha chiamati come suoi messaggeri così che siamo plasmati dalla fede e la viviamo, allora la nostra predicazione sarà credibile. Non reclamizzo me stesso, ma dono me stesso. Il Curato d’Ars non era un dotto, un intellettuale, lo sappiamo. Ma con il suo annuncio ha toccato i cuori della gente, perché egli stesso era stato toccato nel cuore.

L’ultima parola-chiave a cui vorrei ancora accennare si chiama zelo per le anime (animarum zelus). È un’espressione fuori moda che oggi quasi non viene più usata. In alcuni ambienti, la parola anima è considerata addirittura una parola proibita, perché – si dice – esprimerebbe un dualismo tra corpo e anima, dividendo a torto l’uomo. Certamente l’uomo è un’unità, destinata con corpo e anima all’eternità. Ma questo non può significare che non abbiamo più un’anima, un principio costitutivo che garantisce l’unità dell’uomo nella sua vita e al di là della sua morte terrena. E come sacerdoti naturalmente ci preoccupiamo dell’uomo intero, proprio anche delle sue necessità fisiche – degli affamati, dei malati, dei senza-tetto. Tuttavia noi non ci preoccupiamo soltanto del corpo, ma proprio anche delle necessità dell’anima dell’uomo: delle persone che soffrono per la violazione del diritto o per un amore distrutto; delle persone che si trovano nel buio circa la verità; che soffrono per l’assenza di verità e di amore. Ci preoccupiamo della salvezza degli uomini in corpo e anima. E in quanto sacerdoti di Gesù Cristo, lo facciamo con zelo. Le persone non devono mai avere la sensazione che noi compiamo coscienziosamente il nostro orario di lavoro, ma prima e dopo apparteniamo solo a noi stessi. Un sacerdote non appartiene mai a se stesso. Le persone devono percepire il nostro zelo, mediante il quale diamo una testimonianza credibile per il Vangelo di Gesù Cristo. Preghiamo il Signore di colmarci con la gioia del suo messaggio, affinché con zelo gioioso possiamo servire la sua verità e il suo amore. Amen.

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