La monumentale omelia di S.E. mons. Negri al Pellegrinaggio emiliano-romagnolo dei “Summorum Pontificum”

Omelia tenuta da S. Ecc. Mons. Luigi Negri

alla S. Messa solenne in Forma Extraordinaria del Rito Romano

il giorno di Pentecoste (19 maggio 2013)

per il Popolo Summorum Pontificum

al Santuario della Madonna del Poggetto

 mons. Luigi Negri

La S. Messa secondo il rito antico è celebrata oggi nella grande Solennità di Pentecoste, che ricorda alla Chiesa di ogni tempo, di ogni momento, e quindi ad ogni cristiano, che l’avvenimento della Fede e quindi lo svilupparsi della Fede in una vita di comunità e in una vita di comunione, in una pratica della carità, in un esercizio attivo della missione, tutto questo nasce dal miracolo dell’effusione dello Spirito Santo nel cuore dei fedeli, che è dono purissimo del Signore!

Il Santo Padre Benedetto XVI, in un intervento mirabile tenuto durante il Sinodo dei Vescovi sulla Nuova Evangelizzazione – a cui ebbi l’onore di partecipare, invitato personalmente da Benedetto XVI – disse, “la Chiesa non nasce per una decisione della base. La Chiesa non nasce da nessuna assemblea costituente.” La Chiesa nasce per opera dello Spirito Santo, che cambia il cuore degli uomini e li identifica con il Cuore stesso di Dio. È lo Spirito del Signore crocifisso e risorto. È il suo modo di sentire la vita, il suo modo di giudicare l’esistenza, il suo modo di rapportarsi agli uomini. È la novità del suo essere e del suo esistere che è passata in maniera, come dire, dirompente nella vita di una comunità che certamente era in preghiera, attendendolo, ma che non poteva assolutamente presumere di entrare nella modalità e nel contenuto del grande evento di cui sono stati spettatori e sono diventati protagonisti. Lo Spirito cambia il cuore dell’uomo, il suo modo di essere, il suo modo di agire e il suo modo di sentire l’esistenza. Prosegue nel mondo l’Umanità di Cristo: la Chiesa che nasce dallo Spirito si mantiene viva nello Spirito, si comunica agli uomini attraverso lo Spirito. Questa Chiesa è il volto definitivo che nella storia assume il Signore Gesù Cristo!

Noi abbiamo questa altra grande e definitiva eredità: quella di partecipare veramente al mistero della Chiesa una, santa, cattolica e apostolica, di viverla con verità nella nostra vita di ogni giorno, nella buone e nella cattiva sorte, nella salute e nella malattia, nella gioia e nel dolore come dicono i protagonisti del grande Sacramento ecclesiale che è il Matrimonio. Io credo che questo situi la vostra lodevole iniziativa del Pellegrinaggio, con questa Messa, nel suo contesto vero. Io mi auguro e vi auguro che questa celebrazione eucaristica nel giorno della Pentecoste serva a ciascuno di voi – come penso e spero sia servita a me – per ritrovare il calore degli inizi, il calore dell’evento della Chiesa generato dallo Spirito Santo. La grandezza dell’evento della nostra missione è quella di farci apprendere questa novità e non tenerla ciascuno per sé ma di diffonderla a tutti gli uomini.

Ho partecipato ieri alla Veglia di Pentecoste che il Papa Francesco ha tenuto con oltre 150.000 giovani delle varie realtà ecclesiali. A un certo punto il Papa ha detto con il suo stile sincero e spigliato fino a una durezza cui non si era abituati: “la Chiesa non deve stare dentro di sé”. Non deve chiudersi in sé. Se si chiude in sé si ammala. La Chiesa deve uscire da sé, non abbandonando la sua identità, ma per vivere la sua identità, perché l’ambito vitale della Chiesa è la missione e occorre dunque che la Chiesa esca da sé e vada verso gli uomini, visitando tutte le periferie dell’esistenza dell’uomo d’oggi.

Quindi la Pentecoste vi consegna la missione ecclesiale. Vi consegna il vanto dell’essere testimoni di Cristo risorto fino agli estremi confini del mondo, generatori – lo dice Sant’Ireneo in un brano formidabile – resi capaci di essere generatori dei figli di Dio. Di fare degli uomini dei figli di Dio.

Mi è già accaduto, pure in questi pochi mesi del mio servizio episcopale qui, di chiarire quali sono i termini della vita e della missione. Non posso e non debbo in questo momento di saluto rievocare tutto, ma a mio parere è importante situare questa celebrazione sotto il volto e lo sguardo tenero e forte di Maria e situarla come un evento di grazia e di responsabilità. Il Cristianesimo è un evento di grazia perché ci è donato integralmente e nessuno può dire, “ho diritto”. Non avevamo diritto alla Fede. Non avevamo diritto all’Incarnazione del Figlio di Dio. Così ricordiamo qualche volta i nostri “fedeli” che vengono a chiedere o a pretendere i Sacramenti: loro non hanno alcun diritto sui Sacramenti. I Sacramenti sono un dono che la Chiesa ha ricevuto dal Signore Gesù Cristo e la Chiesa li consegna a coloro che sono nella condizione di assumerli in maniera adeguata. Mi riferisco alla questione assolutamente inconsistente – dal punto di vista teologico e pastorale – del “diritto” dei divorziati risposati a ricevere l’Eucaristia.

Allora, questa grazia della Chiesa voi la vivete nel punto sorgivo della Fede, che è l’Eucarestia, la celebrazione liturgica. Voi la attingete per la prudente e grande misericordia centrale di Benedetto XVI. Potete assumerla utilizzando uno dei due grandi tesori della liturgia della Chiesa: la liturgia tradizionale. Non alternativa alla liturgia riformata del Concilio Vaticano II, ma che vive con piena dignità, con piena fisionomia, con piena libertà e con piena responsabilità accanto alla liturgia riformata. Benedetto XVI l’ha detto con mirabile chiarezza nel Motu Proprio. Ha voluto ampliare la possibilità di vivere la ricchezza della liturgia della Chiesa; perciò ha chiesto a tutta la Chiesa, cominciando dai Vescovi, di essere rispettosi di questo suo intendimento di allargare i tesori della Chiesa, concedendo a chi ne sente legittimamente il desiderio di favorire il diritto di poter accedere a questo tesoro “antico” e di viverlo con pienezza nella contemporaneità per la verità della Fede di oggi e della missione di oggi. Il Papa ha così certamente superato quella  contraddizione spuria e inaccettabile fra “antico” e “presente”, rompendo e superando quell’ermeneutica della discontinuità per ciò che viveva prima del Concilio e ciò che ha annunziato il Concilio e ciò che l’attuazione del Concilio ha faticosamente portato al vivere attuale. C’è un’unica Chiesa del Signore, cui lo Spirito ha dato da vivere momenti diversi; il Concilio Ecumenico Vaticano II è stato un momento di straordinaria importanza, anche se di grande sfida per la crescita della Chiesa.

Allora voi utilizzate – e io sono lieto che lo facciate anche in questa Diocesi della quale sono Arcivescovo da pochi mesi – questa liturgia. Non contro qualcuno, o per affermare opinioni, ma per vivere il mistero della Chiesa secondo la profondità e la verità con cui sentite il dovere e il diritto di vivere. E la Chiesa rende possibile anche questo. Benedetto XVI – io non sono una persona che usa le parole per modo di dire – Benedetto XVI ha usato una misericordia pastorale mettendo a servizio della Fede dei singoli Cristiani o dei piccoli gruppi che potrebbero anche non essere identificati strettamente dal punto di vista numerico: i “coetus” sono tutti quei fedeli che hanno il diritto e il dovere di poter accedere a questa liturgia. L’avete fra le mani; la Chiesa vi consente di introdurla con piena libertà. Non potrà esserci nessuno, nessuna Diocesi in Italia o nel mondo che vi dica di no. Nel momento in cui ci dovesse essere un solo “no”, il Vescovo deve essere chiamato in causa. Prima di allora, il dialogo fra i fedeli che vogliono la liturgia antica e la Chiesa è un dialogo tra fedeli e il Sacerdote che si sente di aiutarvi in questo vostro esercizio e questa vostra volontà di partecipare a questo rito antico e bellissimo che – certamente – esige per partecipare adeguatamente una corrispettiva preparazione che certamente voi avrete. Io penso che perché diventi un’esperienza per i tanti che non la conoscono occorra un periodo di formazione e di preparazione. Io ho tentato di attuare il Motu Proprio in una Diocesi piccola com’è quella di San Marino-Montefeltro senza particolari reazioni. Lì dove ci sono state invece le ho raccolte in una relazione al Santo Padre esprimendo come era stato gestita la situazione, anche perché mancavano le linee attuative arrivate più di due anni dopo. Io ho ricevuto una breve lettera personale da Benedetto XVI che ha lodato il modo con cui senza tensioni la Messa antica era stata riportata nella Diocesi di San Marino-Montefeltro. Praticate la liturgia antica per voi. Per la verità della vostra Fede. Per la verità della vostra Carità. Per l’impeto della vostra missione. Come quelli che la devono praticare con la liturgia riformata per la verità della loro Fede e la loro Carità: sono due tesori che servono ad un unico popolo. E quest’unico popolo maturo si alimenta della Fede proprio se sa vivere la libertà che la Chiesa concede. La libertà liturgica che, in questo caso, la Chiesa non solo concede ma garantisce.

Non abbiate delle opinioni da difendere o da opporre agli altri. L’Arcivescovo di Ferrara-Comacchio non è custode di nessun’opinione e non è propagatore di nessun’opinione. L’Arcivescovo di Ferrara-Comacchio ha una sola opinione: la verità del Signore, il Vangelo, la Tradizione della Chiesa, il Magistero del Santo Padre ed il Suo proprio sempre in collegamento con quello del Santo Padre. Questo è lo spazio entro cui Benedetto XVI l’ha concesso. Io sono stato tra i Vescovi (devo dire la verità, non moltissimi) che hanno guadagnato da tutto questo un approfondimento della propria identità in merito all’esperienza di Dio. È una grandezza, non soltanto per coloro che lo praticano, ma è una grandezza per tutta la Chiesa.

Per questo – e concludo – dovrete sempre cercare il massimo di adesioni alla vita della comunità ecclesiale. Questa pratica non vi sottrae dalla vita della comunità ecclesiale né tanto meno dalla faticosa ma altrettanto bella realizzazione della comunione. In questa nostra terra la vita ecclesiale è fortemente impegnata nella lenta ma inesorabile fatica di emergere dalle rovine materiali che sono state una grande sfida, come ho scritto, a recuperare la Fede e la Carità. Io sono calato nel clero di questa Diocesi e ho visto che ci sono tanti laici che non si sono fatti mettere in crisi dalle vicende del terremoto di un anno fa, che ha reso impraticabile centinaia di chiese. Esso li ha costretti e ci costringe ancora a vivere l’Eucarestia ancora in luoghi di fortuna o nelle sale in cui le comunità sono ospitate o celebrandola nei pochi luoghi risparmiati dal terremoto. Il terremoto ha distrutto le case e le chiese. Non ha distrutto la Fede. Su questa Fede contiamo di riprendere. Purtroppo dobbiamo sperare anche nelle istituzioni pubbliche, che fino ad ora non hanno dato grande prova di tempestività, ma la prima risorsa che abbiamo è la nostra esperienza di Fede. Siamo tutti dentro un’unica Chiesa: perciò, anche in quest’esperienza particolarissima e bellissima che vivete, dovete cercare di vivere ogni giorno di più come membra vive della Chiesa, partecipando all’unico Sangue e all’unico Corpo del Signore di modo che, crescendo in voi la Fede, la Speranza e la Carità, siate membra vive di questa Chiesa nel mondo.

Vi seguo con affetto. Vi incoraggio nel vostro cammino. Vi chiedo quella sana umiltà che Papa Francesco, prima di chiederla alla sua Chiesa, testimonia ogni giorno con la sua presenza e col suo modo d’essere. Non abbiate altra preoccupazione se non quella di vivere nel profondo quel che la Chiesa ha concesso per il bene vostro e di tutta la Chiesa. Siate certi che non vi mancherà mai né la mia accoglienza né il mio sostegno. La mia correzione, se fosse necessario, come per ogni comunità qualora questo mio compito si dovesse esprimere, ma suppongo che non avverrà mai! Proseguite con questa S. Messa che non ho voluto interrompere. Intendo perciò sottolineare che non ho potuto partecipare in toto alla pregevole iniziativa solo perché mi attendevano e ancora mi aspettano gli impegni diocesani legati alla solennità odierna.

Ora, perché il vostro cammino sia chiaro e sicuro abbracciate la verità, dono del Signore che lo Spirito Santo fa a tutta la Chiesa e che il Vescovo custodisce, protegge e comunica. Pregate ora per me, per questa non lieve fatica che mi sento sulle spalle e che verso la fine della mia vita ho inteso assumermi come ubbidienza al Vicario di Cristo, che mi ha chiesto con un’insistenza che ha tolto ogni possibilità di resistenza.

Auguri a tutti!

 

Papa Francesco parla chiaro: la Messa antica non si tocca

                                                         Francesco e il latino 

LA MESSA ANTICA NON SI TOCCA, IL PAPA GESUITA SPIAZZA TUTTI

di Matteo Matzuzzi

I vescovi pugliesi chiedono il ritiro del motu proprio di Ratzinger. Bergoglio dice no, servono cose nuove e antiche

papa

Chi pensava che con l’arrivo al Soglio di Pietro del gesuita sudamericano Jorge Mario Bergoglio la messa in latino nella sua forma extra-ordinaria fosse archiviata per sempre, aveva fatto male i conti. Il motu proprio ratzingeriano del 2007, il Summorum Pontificum, non si tocca, e il messale del 1962 di Giovanni XXIII (che poi è l’ultima versione di quello tridentino del Papa santo Pio V) è salvo. Quel rito con il celebrante rivolto verso Dio e non verso il popolo, con le balaustre a separare i banchi per i fedeli dal presbiterio, non è un’anticaglia, detrito da spedire in qualche museo a impolverarsi. E’ stato proprio il Pontefice regnante a dirlo, ricevendo qualche giorno fa nel Palazzo apostolico la delegazione dei vescovi pugliesi giunti a Roma in visita ad limina apostolorum, come fa tutto l’episcopato mondiale ogni cinque anni.

Come ha scritto sul suo blog il vaticanista Sandro Magister, i vescovi pugliesi sono stati i più loquaci, con clero e giornalisti. La scorsa settimana, il capo della diocesi di Molfetta, Luigi Martella, ha raccontato come Francesco sia pronto a firmare entro l’anno l’enciclica sulla fede che Benedetto XVI starebbe portando a termine nella tranquillità del monastero Mater Ecclesiae, aggiungendo addirittura che Bergoglio ha già pensato alla sua seconda lettera pastorale, dedicata alla povertà e intitolata “Beati pauperes”. Dichiarazioni che hanno costretto la Santa Sede a smentire, rettificare e chiarire, con padre Federico Lombardi che invitava a pensare “a un’enciclica per volta”. Poi è toccato al vescovo di Conversano e Monopoli, Domenico Padovano, che al clero della sua diocesi ha raccontato come la priorità dei vescovi della regione del Tavoliere sia stata quella di spiegare al Papa che la messa in rito antico sta creando grandi divisioni all’interno della chiesa. Messaggio sottinteso: il Summorum Pontificum va cancellato, o quanto meno fortemente limitato. Ma Francesco ha detto no.

E’ sempre monsignor Padovano a dirlo, spiegando che Francesco ha risposto loro di vigilare sugli estremismi di certi gruppi tradizionalisti, ma suggerendo altresì di far tesoro della tradizione e di creare i presupposti perché questa possa convivere con l’innovazione. A tal proposito, come scrive Magister, Bergoglio avrebbe pure raccontato le pressioni subite dopo l’elezione per avvicendare il Maestro delle cerimonie liturgiche, quel Guido Marini dipinto al Papa come un tradizionalista che andava rimandato a Genova, la città che nel 2007 lasciò a malincuore obbedendo alla volontà di Benedetto XVI che lo volle a Roma. Anche in questo caso, però, Francesco ha opposto il suo rifiuto a ogni cambiamento nell’ufficio delle cerimonie. E lo ha fatto “per fare tesoro della sua preparazione tradizionale”, consentendo al mite e poco protagonista Marini di “avvantaggiarsi della mia formazione più emancipata”.

La differenza culturale c’è tutta, il gesuita che per tradizione ignaziana “nec rubricat nec cantat” si trova improvvisamente catapultato in una realtà in cui negli ultimi otto anni erano stati pazientemente e lentamente recuperati elementi liturgici abbandonati negli ultimi trenta-quarant’anni, giustificando così chi vedeva nel Concilio una rottura anche in campo liturgico. Il filo conduttore delle cerimonie benedettiane era riassumibile nella sintesi tra solennità e compostezza: il ritorno sull’altare dei sette alti candelabri e della croce centrale e gli avvisi a non applaudire ne sono un esempio. E poi il latino, lingua della chiesa, che veniva usato per le celebrazioni non più solo a Roma ma in ogni angolo del pianeta, Africa compresa. Non pochi, guardando il volto serio di Marini quella sera di marzo mentre Bergoglio appariva per la prima volta alla Loggia delle Benedizioni con la semplice talare bianca, senza mozzetta né stola, avevano previsto un avvicendamento imminente. Invece Francesco sa che Roma non è Buenos Aires, che fare il Papa richiede anche di mantenere un apparato simbolico ancorato nella storia e nella tradizione millenaria della chiesa cattolica.

La continuità che non piace a tutti

Un recupero, quello avvenuto negli anni di Benedetto XVI, che a molti non è piaciuto, anche dentro le Mura leonine. Monsignor Sergio Pagano, prefetto dell’Archivio segreto vaticano, diceva lo scorso 7 maggio a margine della presentazione della costituzione d’indizione del Concilio “Humanae  salutis” che “quando oggi vedo in certi altari delle basiliche quei sette candelabri bronzei che sovrastano la croce mi viene da pensare che ancora poco è stato capito della costituzione sulla liturgia Sacrosanctum Concilium”. Ecco perché qualcuno, come il vescovo di Cerignola-Ascoli Satriano, monsignor Felice Di Molfetta – che da sempre considera la messa in forma extra-ordinaria incompatibile con il messale di Paolo VI, espressione ordinaria della lex orandi della chiesa cattolica di rito latino – qualche giorno fa ha fatto sapere ai fedeli della sua diocesi di essersi vivamente rallegrato con Francesco “per lo stile celebrativo che ha assunto, ispirato alla nobile semplicità sancita dal Concilio”.

© – FOGLIO QUOTIDIANO

 

Le origini apostolico-patristiche della Messa tridentina

Sancta Missa

 
di Suor Maria Francesca Perillo F.I. 
Cari amici, quando ho ascoltato il testo che segue, letto in sintesi da una sorella F.I. durante il più recente Convegno Summorum Pontificum, ne sono rimasta edificata – e ve lo confesso – molto più che dalle relazioni di pastori (non esito a fare i nomi) come Aillet, Cañizares e Koch. Non ero finora riuscita a procurarmi il testo integrale, non disponibile – mi hanno detto – fino alla pubblicazione degli Atti del Convegno. Però questa finora – dal maggio 2011 – non è stata curata. E dunque, per vostra e mia ulteriore edificazione e soprattutto gioia spirituale, mi sono assunta la fatica di riprenderlo dai fascicoli del “Settimanale di Padre Pio“, che l’ha pubblicato a puntate solo nell’edizione cartacea. Ora sono lieta di metterlo a disposizione qui. È lungo; ma non potevo dividerlo in parti, per non fargli perdere l’efficacia e l’incanto che ha. Si tratta di un tesoro da non tenere nascosto.

La Messa “tridentina” non è stata inventata da san Pio V né dal Concilio di Trento, ma risale ai tempi apostolici. La Liturgia, infatti, non è l’espressione d’un sentimento del fedele, ma è “la” preghiera ufficiale della Chiesa; è Dogma pregato. Essa racchiude qualcosa di eterno non costruito da mano umana. «Ecce ego vobiscum sum», dice Cristo alla sua Chiesa (Mt 28,20).
Introduzione
Con l’espressione “Messa tridentina” o “Messa di san Pio V”, si suole indicare la celebrazione del rito secondo il cosiddetto Vetus Ordo, ossia anteriore alla riforma liturgica post-conciliare. Si tratta di due espressioni improprie, poiché, se è vero che il papa san Pio V promulgò un Messale a seguito del Concilio di Trento in realtà non fece altro che fissare e circoscrivere sapientemente un rito già in uso a Roma da secoli. Esso risaliva, nei suoi elementi essenziali, almeno a mille anni prima, precisamente al papa san Gregorio Magno. Da quest’ultimo pontefice viene anche il nome, più corretto ma non esauriente, di rito gregoriano. Non esauriente perché da san Gregorio Magno, come vedremo, il rito risale ai tempi apostolici per riannodarsi infine all’Ultima Cena e al Sacrificio cruento di Nostro Signore Gesù Cristo, di cui ogni Messa è costante ripresentazione ed incruenta attualizzazione.
È stato giustamente osservato che la Messa, come pure il Breviario antico, non ha autore poiché di gran parte dei suoi testi non si può dire quando abbiano avuto origine e quando abbiano trovato una collocazione definitiva. Ciascuno perciò «percepiva che essa era qualcosa di eterno e non costruito da mano umana» (M. Mosebach). È certo, infatti, che il Messale Romano –  come afferma il beato Ildefonso Schuster – rappresenta nel suo complesso «l’opera più elevata e importante della letteratura ecclesiastica, quella che riflette più fedelmente la vita della Chiesa, il poema sacro al quale han posto mano cielo e terra».
« Il nostro Canone – afferma  Adrien Fortescue – è intatto, come tutto lo schema della Messa. Il nostro Messale è ancora quello di san Pio V. Dobbiamo ringraziare che la sua commissione sia stata così scrupolosa da mantenere o restaurare l’antica tradizione romana. Essenzialmente il Messale di san Pio V è il Sacramentario Gregoriano, modellato sul libro gelasiano che a sua volta dipende dalla collezione leonina. Troviamo le preghiere del  nostro Canone nel trattato De Sacramentis e riferimenti al Canone stesso nel IV secolo. Così la nostra Messa va indietro, senza cambiamenti essenziali, all’epoca nella quale per la prima volta si sviluppò dalla Liturgia più antica. […] nonostante i problemi irrisolti, nonostante i cambiamenti successivi, non esiste nella Cristianità un altro rito così venerabile come il nostro».
Prima di addentrarci nello specifico del tema, ci par opportuno ricordare e riaffermare alcuni principi fondamentali della sacra Liturgia che sembrano esser caduti nell’oblio con conseguenze così aberranti da ridurre le sacre Sinassi a celebrazioni «etsi Deus non daretur». Il che significa de facto la morte della Liturgia.
Il primo principio è che la Liturgia non è, non è mai stata né potrà mai essere, l’espressione del sentimento del fedele nei confronti del suo Creatore. Essa è invece l’adempimento da parte del fedele di un suo dovere nei confronti di Dio, ch’egli deve esprimere conformemente agli stessi insegnamenti divini. È il cosiddetto ius divinum, ossia il diritto di Dio ad essere adorato come Egli ha stabilito. La Liturgia non è una qualsiasi preghiera che il fedele rivolge spontaneamente a Dio, bensì “la” preghiera ufficiale della Chiesa: non v’è in essa nulla da inventare, né da innovare, né da adattare. «La Liturgia non è mai proprietà privata di qualcuno, né del celebrante, né della comunità» (enciclica Ecclesia de Eucharistia n. 52). Essa non è «l’espressione della coscienza di una comunità, del resto sparsa e mutevole». In forza di ciò, la Liturgia cattolica non è e non può essere “creativa”. Non lo può essere per la semplice ragione che non è un prodotto umano, ma opera di Dio, come ha ribadito a più riprese il Santo Padre. È interessante evidenziare a questo riguardo come già nel I secolo la Liturgia – benché ancora allo stato primitivo – avesse un proprio ordine che i cristiani ritenevano risalente a Cristo stesso. Il Fortescue nota che fin dal suo nascere la preghiera dei primi cristiani non è mai consistita in incontri organizzati a proprio piacimento. Lo dimostra con evidenza solare la prima lettera di san Clemente ai Corinti in cui si legge: «1.Dobbiamo fare con ordine tutto quello che il Signore ci comanda di compiere nei tempi fissati. 2.Egli ci prescrisse di fare le offerte e le liturgie, e non a caso o senz’ordine, ma in circostanze ed ore stabilite. 3. Egli stesso con la sua sovrana volontà determina dove e da chi vuole siano compiute, perché ogni cosa fatta santamente con la sua santa approvazione sia gradita alla sua volontà. 4.Coloro che fanno le loro offerte nei tempi fissati sono graditi e amati. Seguono le leggi del Signore e non errano. 5. Al gran sacerdote sono conferiti particolari uffici liturgici, ai sacerdoti è stato assegnato un incarico specifico e ai leviti incombono propri servizi [Gli Ordini minori aboliti da Paolo VI, Ministeria quaedam -ndr]. Il laico è legato ai precetti laici» (cap. XL). Sin dal I secolo v’è dunque nel Culto Divino un ordine ben stabilito ed una gerarchia che si ritengono provenire dal Signore.
In secondo luogo la Liturgia si àncora nella Tradizione, che è fonte della Rivelazione al pari della Sacra Scrittura. «La Liturgia – afferma il grande liturgista dom Guéranger – è la medesima Tradizione al suo più alto grado di potenza e solennità»; è «il pensiero più santo della sapienza della Chiesa per il fatto di essere esercitata dalla Chiesa in unione diretta con Dio nella confessione (di fede), nella preghiera e nella lode». La Liturgia, in altri termini, è il Dogma pregato.
I nemici della Chiesa conoscono a fondo questo principio. Essi sanno bene che il popolo di Dio è istruito, anzitutto, dalle e nelle sacre Sinassi. Demolite quelle, è demolita la Fede.
Con sguardo profetico dom Guéranger aveva compreso che l’odio della Liturgia cattolica è un comune denominatore dei vari novatores succedutisi nel corso dei secoli, i quali per attaccare il Dogma cattolico iniziano la loro feroce opera di distruzione dalla Liturgia. «Il primo carattere dell’eresia antiliturgica – scrive – è l’odio della Tradizione nelle formule del culto divino. Non si può contestare la presenza di tale specifico carattere in tutti gli eretici, da Vigilanzio fino a Calvino, e il motivo è facile da spiegare. Ogni settario che vuole introdurre una nuova dottrina si trova necessariamente in presenza della Liturgia, che è la Tradizione alla sua più alta potenza, e non potrà trovare riposo prima di aver messo a tacere questa voce, prima di avere strappato queste pagine che danno ricetto alla fede dei secoli trascorsi. Infatti, in che modo si sono stabiliti e mantenuti nelle masse il luteranesimo, il calvinismo, l’anglicanesimo? Per ottenere questo non si è dovuto far altro che sostituire nuovi libri e nuove formule ai libri e alle formule antiche, e tutto è stato consumato».
La Tradizione è anteriore alla Sacra Scrittura e abbraccia un campo assai più vasto. Essa è una fonte della Rivelazione distinta dalle Sacre Scritture, fonte che merita la medesima fede (così il Concilio di Trento e il Concilio Vaticano I). San Vincenzo di Lérins (†450 ca) riteneva come genuina tradizione apostolica ciò che soddisfaceva contemporaneamente a tutte e tre le seguenti condizioni: Quod semper, quod ab omnibus, quod ubique, ossia ciò che è stato creduto in ogni tempo, da tutti i fedeli e in ogni luogo.
La Tradizione è presente nella Liturgia, che contiene le preghiere e i riti del culto pubblico e dei Sacramenti. Non a caso sin dai primi decenni del 400 si trova citata la massima “legem credendi lex statuat supplicandi“, e cioè la preghiera liturgica (lex supplicandi) sia fonte (statuat) di cognizione teologica (legem credendi).
Questa massima millenaria – sulla quale torneremo – indica la vitale importanza e la grandissima utilità di mantenere inalterata e in uso la Liturgia tradizionale, e in particolare quella della Santa Messa, a salvaguardia della Fede. Indica anche che, con buona pace della creatività e dei presbiteri e dei fedeli, la creazione di nuove liturgie può facilmente corrompere la Fede (e difatti la corrompe) insinuando riti e preghiere privi di quel rigore teologico che ne garantisce un’interpretazione univoca e ortodossa.
In questo senso l’ostracismo al Messale di san Pio V, sintesi ed espressione d’una tradizione millenaria che rimonta – attraverso diversi stadi – ai tempi apostolici. costituisce ancor oggi un evidente segno di quell’odio alla Tradizione che da sempre ha caratterizzato la mente dei novatores d’ogni epoca.
Origine divina della Liturgia
Nella sua celebre opera Le Istituzioni Liturgiche, il venerabile dom Prosper Guéranger, esimio liturgista e abate di Solesmes, afferma essere la Liturgia qualcosa di così eccellente che per trovarne l’origine bisogna risalire fino a Dio stesso: poiché Dio, nella contemplazione delle sue perfezioni infinite, si loda e si glorifica senza posa, amandosi d’un amore eterno. Ma questi medesimi atti, compiuti nell’Essenza divina, hanno avuto manifestazione visibile e propriamente liturgica solo quando una delle tre divine Persone, avendo preso la natura umana, ha potuto rendere i suoi doveri di religione alla gloriosa Trinità.
«Dio – afferma dom Guéranger – ha tanto amato il mondo da donargli il suo unico Figlio affinché Questi lo istruisse nel compimento dell’opera liturgica. Dopo essere stata annunziata e prefigurata per quaranta secoli, una preghiera divina è stata offerta, un sacrificio divino è stato compiuto, e, ancora adesso e per l’eternità, l’Agnello immolato sin dall’inizio del mondo si offre sull’altare sublime del cielo e rende in una maniera infinita all’ineffabile Trinità tutti i doveri di religione, a nome dei membri di cui egli è il Capo».
Bisogna però considerare che – anche prima dell’Incarnazione del Verbo – il mondo non è mai stato senza Liturgia: poiché, come la Chiesa risale al principio del mondo, secondo la dottrina di sant’Agostino, la Liturgia risale a questo medesimo principio.
Nell’Antico Testamento la Liturgia è esercitata dai primi uomini nel principale e più augusto dei suoi atti, il sacrificio. Basti pensare ai sacrifici di Caino ed Abele, a quello di Noè, che lo perpetua dopo il diluvio. Abramo, Isacco, Giacobbe, offrono sacrifici di animali e innalzano pietre per l’altare che adombrano l’altare e il Sacrificio futuro. Poi Melchisedech, avvolto nel mistero d’un Re-Pontefice, tenendo nelle sue mani il pane ed il vino offre un olocausto pacifico, anch’esso figura del Sacrificio di Cristo.
Durante tutta quest’epoca primitiva, le tradizioni liturgiche non sono fluttuanti ed arbitrarie, ma precise e determinate. È evidente che esse non sono invenzione d’uomo, ma imposte da Dio stesso; difatti il Signore loda Abramo poiché aveva osservato non solo le sue leggi e i suoi precetti, ma anche le sue cerimonie.
Quando venne la pienezza dei tempi, il Verbo si fece carne ed abitò in mezzo a noi: Egli venne non per distruggere, ma compiere e perfezionare anche le tradizioni liturgiche. «Dopo la sua nascita, fu circonciso, offerto al tempio, riscattato. Dall’età di dodici anni, adempì la visita al Tempio, e, più tardi, lo si vide frequentemente venire ad offrire la sua preghiera. Compì la sua missione con il digiuno di quaranta giorni; santificò il sabato; consacrò con il suo esempio la preghiera notturna. Nell’Ultima Cena, in cui celebrò la grande Azione liturgica, e provvide al suo compimento futuro fino alla fine dei secoli, iniziò con la lavanda dei piedi, che i Padri hanno chiamato un mistero, e finì con un inno solenne, prima di uscire per andare al monte degli Ulivi. Poche ore dopo, la sua vita mortale, la quale non era che un grande atto liturgico, si concluse nell’effusione del Sangue sull’altare della croce; il velo dell’antico tempio, squarciandosi, aprì come un passaggio ai nuovi misteri, proclamò un nuovo tabernacolo, un’arca d’alleanza eterna, e da allora in poi la Liturgia cominciò il suo periodo completo in quanto al culto della terra» (P. Guéranger).
L’opera di Gesù Cristo
È necessario e fondamentale – nell’ambito dello studio della sacra Liturgia – stabilire se il Signore Gesù abbia fissato – almeno implicitamente – le grandi linee del sistema liturgico che si riferiscono alla sostanza del Culto cristiano.
Sulle orme dell’Aquinate, il quale afferma che «per suam passionem Christus initiavit ritum christianæ religionis», si può subito osservare che fu Cristo ad inaugurare il Culto cristiano iniziandolo incruento nell’Ultima Cena per consumarlo nel sangue sul Calvario. «A Lui dobbiamo, non solo l’istituzione della grazia propria dei sette Sacramenti, come ebbe a definire il Tridentino, ma anche il rito esteriore dei tre più importanti di essi, il Battesimo, l’Eucaristia, la Penitenza. Del Battesimo precisò la materia e la forma […]. Dell’Eucaristia fissò pure la materia – il pane ed il vino – e la forma nelle parole consacratorie da lui pronunciate durante l’ultima Cena: “Hoc est corpus meum… hic est sanguis meus“. […] Inoltre, siccome l’Eucaristia doveva essere il sacrificio della nuova Legge e per conseguenza l’atto liturgico più importante, volle ancora stabilire le sostanziali modalità con le quali doveva esser celebrata». In base alla narrazione dei Sinottici si desume che il Signore Gesù:
  1. istituì l’Eucaristia gratia agens, cioè pronunciando un formula eucaristica o di ringraziamento, servendosi probabilmente delle consuete eulogie giudaiche proprie del rituale di Pasqua ma integrate per quell’eccezionale circostanza; e prescrisse che il suo atto fosse ripetuto.
  2. Impose agli Apostoli che, nel rinnovare quanto Egli aveva fatto, lo commemorassero: «Hoc facite in meam commemorationem», ovvero, come precisa meglio san Paolo, proclamassero la sua morte: «Mortem Domini annuntiabitis donec veniat» (1Cor, 11,26).
  3. Volle che l’oblazione sacrificale commemorativa che gli Apostoli dovevano perpetuare mantenesse, come Egli aveva fatto, la forma conviviale. Si trattava dunque d’un banchetto sacrificale al quale i credenti partecipavano con la manducazione della mistica Vittima.
È lecito chiedersi, a questo punto, se Gesù Cristo, durante la sua vita terrena, abbia dato altre norme liturgiche. Possiamo rispondere affermativamente, malgrado la difficoltà a stabilire con esattezza quali di esse effettivamente rimontino fino a Lui. Infatti:
  1. gli Atti osservano che Gesù, nel tempo intercorso fra la Risurrezione e l’Ascensione, si fece vedere molte volte agli Apostoli «loquens de regno Dei». Ora, una delle tradizioni più antiche della Chiesa vuole che in quei frequenti convegni, Egli, fra l’altro, abbia fissato anche molte particolarità del Culto. Non aveva Egli detto prima di morire: «Ho molte cose da dirvi che ora non potete sostenere?». Eusebio riferisce che sant’Elena edificò sul monte degli Olivi una piccola chiesa in una specie di caverna, dove, secondo un’antica tradizione, « discipuli et apostoli, [ ..] arcanis mysteriis initiati fuerunt». Il Testamentum Domini (V sec.), nel «giorno stesso della Risurrezione, induce gli Apostoli a chiedere al Signore «quoniam canone, ille (scil. qui Ecclesiæ præest) debeat constituere et ordinare Ecclesiam […], quomodo sint mysteria Ecclesiæ tractanda» (con quale regola colui che è a capo della Chiesa deve costituire ed ordinare la Chiesa […] in che modo debbano essere trattati i misteri della Chiesa); e Gesù risponde spiegando loro in dettaglio, le varie parti della Liturgia. Questa tradizione è pure accolta da san Leone il quale afferma che «quei giorni che vi furono tra la Risurrezione e l’Ascensione non passarono oziosamente, ma in essi furono confermati i Sacramenti e furono rivelati grandi misteri». E Sisto V la ricorda nella bolla Immensa: «Quella norma di credere e di pregare che Cristo ha insegnato ai suoi discepoli durante uno spazio di quaranta giorni, non c’è nessuno dei cattolici che ignori che Egli l’ha affidata per loro tramite alla sua Chiesa perché fosse custodita e sviluppata».
  2. San Clemente papa, discepolo degli Apostoli (†99), scrivendo alla Comunità di Corinto, accenna – come abbiamo già riportato – a positive prescrizioni del Signore circa l’ordine da seguirsi nelle offerte, nella gerarchia e nei tempi della Liturgia.
  3. San Giustino, dopo aver descritto tutto l’ordine della sinassi eucaristica, asserisce che questa viene celebrata in Domenica, perché in tal giorno Nostro Signore, « apostolis et discipulis visus, ea docuit, quae vobis quoque consideranda tradidimus». Vuol dire dunque che le parti principali della Messa si facevano allora rimontare al Magistero di Cristo nel giorno della sua Risurrezione. Concediamo volentieri che l’asserzione sia generica; ma tanto Giustino quanto l’Anonimo del Testamentum Domini riflettono evidentemente una tradizione diffusa, antica e nient’affatto inverosimile. Del resto, l’uniformità stessa che nel campo liturgico si riscontra presso le Comunità cristiane dei primi due secoli, suppone un principio d’autorità, un metodo d’azione, cioè una organizzazione primitiva che dovette far capo più che agli Apostoli a Cristo medesimo».

La Liturgia al tempo degli Apostoli

Se dunque il Signore ha tracciato le linee fondamentali del Culto liturgico cristiano, è da credere che, per quanto Egli non ha definito, abbia lasciato grande libertà all’iniziativa illuminata degli Apostoli, che aveva investito della sua stessa divina missione ed ai quali aveva impartito le necessarie facoltà costituendoli non solo propagatori della Parola evangelica, ma anche ministri e dispensatori dei Misteri. Il potere liturgico era fondato e dichiarato perpetuo per vigilare alla custodia del deposito dei Sacramenti e delle altre osservanze rituali che il Pontefice supremo aveva istituito.
Gli Apostoli continuano dunque a stabilire e promulgare un insieme di riti. Ecco perché il Concilio di Trento, trattando nella sua 22ma sessione delle cerimonie auguste del Santo Sacrificio della Messa, dichiara che bisogna rapportare all’istituzione apostolica le benedizioni mistiche, i ceri accesi, le incensazioni, gli abiti sacri, e generalmente tutti i particolari atti a rivelare la maestà di questo grande Atto, e a portare l’anima dei fedeli alla contemplazione delle cose sublimi nascoste in questo profondo Mistero, per mezzo di questi segni visibili di religione e di pietà.
«Questo sacro Concilio osserva dom Guéranger – non era arrivato a produrre quest’affermazione per qualche congiuntura incerta, dedotta da premesse vaghe: esso parlava come parlavano i primi secoli. Esso invocava la tradizione primitiva, ossia apostolica, così come l’aveva eloquentemente invocata Tertulliano, sin dal III secolo […]. Anche san Basilio segnala la tradizione apostolica come fonte delle stesse osservanze, alle quali aggiunge, come esempio, le seguenti: pregare verso l’oriente, consacrare l’Eucaristia nel mezzo di una formula di invocazione che non si trova registrata né in san Paolo, né nel Vangelo; benedire l’acqua battesimale e l’olio dell’unzione, ecc. E non solo san Basilio e Tertulliano, ma tutta l’antichità, senza eccezione, confessa espressamente questa grande regola di sant’Agostino, divenuta banale a forza d’essere ripetuta: “È molto ragionevole credere che una prassi conservata da tutta la Chiesa e non istituita dai Concili, ma sempre conservata, non può averla tramandata che l’autorità degli Apostoli“» (Guéranger).
Ma se gli Apostoli devono essere incontestabilmente considerati come i creatori di tutte le forme liturgiche universali, essi hanno pure dovuto adattare il rito, nelle sue parti mobili, ai costumi dei Paesi, al genio dei popoli, per facilitare la diffusione del Vangelo: da qui le differenze che regnano tra alcune Liturgie d’Oriente, che sono l’opera più o meno diretta di uno o più Apostoli, e la Liturgia d’Occidente, di cui una, quella di Roma, deve riconoscere san Pietro quale suo principale autore.
È certo che il Principe degli Apostoli, colui che aveva ricevuto da Cristo medesimo il “potere delle chiavi”, non ha potuto essere estraneo all’istituzione o regolamento delle forme generali di Liturgia che i suoi fratelli portavano in tutto il mondo. «Dal momento in cui noi ammettiamo il suo potere di capo, dobbiamo ammettere, di conseguenza, la sua influenza principale in ciò come in tutto il resto, e riconoscere, con sant’Isidoro, che si deve far risalire a san Pietro, come istitutore, ogni ordine liturgico che si osserva universalmente in tutta la Chiesa. In secondo luogo, quanto alla Liturgia particolare della Chiesa di Roma, il solo buon senso ci fa comprendere che questo Apostolo non ha potuto dimorare a Roma, in quei lunghi anni, senza preoccuparsi di una materia così importante, senza stabilire, nella lingua latina e per il servizio di questa Chiesa, che egli rendeva per libera scelta madre e maestra di tutte le altre, una forma che, in considerazione delle varianti che necessitava la differenza dei costumi, del genio e delle abitudini, si confacesse almeno a quelle che egli aveva istituite e praticate a Gerusalemme, ad Antiochia, nel Ponto e nella Galazia» (Guéranger).
Bisogna tuttavia tener conto che la formazione della Liturgia attraverso gli Apostoli si è compiuta progressivamente. San Paolo, nella sua prima Lettera ai Corinti, ci mostra questa nuova Chiesa già in possesso dei Misteri del Corpo e del Sangue del Signore; tuttavia – con le parole « Caetera cum venero disponam» – dimostra di voler dare disposizioni più precise quanto alle cose sacre. «Tale è il senso che i santi Dottori hanno costantemente dato a queste parole che terminano il passo di questa Lettera dove si parla dell’Eucaristia: san Girolamo, nel suo commento succinto su questo passo, si spiega così: “Caetera de ipsius Mysterii Sacramento“. Sant’Agostino sviluppa ulteriormente questo pensiero nella sua lettera ad Januarium: “Queste parole – dice – danno ad intendere che, allo stesso modo che egli aveva in questa lettera, fatto allusione agli usi della Chiesa universale (sulla materia e l’essenza del Sacrificio), egli istituì subito (a Corinto) questi riti in cui la diversità dei costumi non ha affatto ostacolato l’universalità“».
Attingendo dagli Atti e dalle Lettere degli Apostoli, come pure dalle testimonianze della tradizione dei primi cinque secoli, si possono – a grandi linee – ricostruire questi riti generali che, per la loro stessa generalità, devono essere ritenuti apostolici, secondo la regola di sant’Agostino sopra citata.
Il Sacrificio eucaristico nell’Evo apostolico
Dal racconto degli Atti degli Apostoli si desume l’esistenza di un rituale, semplice sì, ma fisso, e sostanzialmente completo, seguito uniformemente dagli Apostoli e dai loro collaboratori nell’amministrazione dei sacramenti del Battesimo, della Cresima, degli Ordini sacri, dell’Olio per gli infermi. Né si possono ignorare alcune antiche e preziose tradizioni, esistenti in talune chiese fondate dagli Apostoli, secondo le quali la Liturgia ivi vigente era un patrimonio ricevuto dagli stessi Apostoli. Tale la Liturgia di san Marco per la chiesa d’Alessandria; di san Giacomo per quella d’Antiochia, di san Pietro per la Romana. E sant’Ireneo, che per mezzo di san Policarpo si riannoda alla tradizione efesina di san Giovanni evangelista, accennando all’istituzione della Santissima Eucaristia, dichiara che la forma dell’oblazione del Santo Sacrificio, la Chiesa l’ebbe dagli Apostoli: « E parimenti… [Cristo] ha affermato che il calice è il suo sangue e ha insegnato il nuovo sacrificio [del nuovo Testamento] che la Chiesa, ricevendolo dagli Apostoli, offre a Dio in tutto il mondo» (citato da M. Righetti in Manuale di storia liturgica). Non diversamente si esprime san Giustino nella sua famosa Apologia (1,66): «Il Cristo ha prescritto di offrire; lo hanno prescritto a loro volta gli Apostoli, e noi facciamo a riguardo dell’Eucarestia ciò che abbiamo appreso dalla loro tradizione».
È evidente che, in campo liturgico, la prima preoccupazione degli Apostoli fu quella di regolare la celebrazione della divina Eucaristia. Non a caso la Frazione del Pane compare dalla prima pagina degli Atti degli Apostoli, e san Paolo, nella prima lettera ai Corinti, insegna il valore liturgico di quest’atto.
Ma il culto e l’amore che i santi Apostoli portavano a Colui con il quale questa Frazione del Pane li metteva in rapporto, li obbligava, secondo l’eloquente nota di san Proclo di Costantinopoli, di circondarlo di un insieme di riti e di preghiere sacre che non poteva compiersi che in un tempo abbastanza lungo: e questo santo Vescovo non fa che seguire in ciò il sentimento del suo glorioso predecessore, san Giovanni Crisostomo. Innanzitutto questa celebrazione, per quanto era possibile, aveva luogo in una sala dignitosa e ornata; poiché il Salvatore l’aveva celebrata così, nell’Ultima Cena, caenaculum grande, stratum» (Guéranger). Il luogo della celebrazione era costituito da un altare: già non era più una tavola. L’autore della Lettera agli Ebrei lo dice con enfasi: «Altare habemus», abbiamo un altare (Eb 13,10).
Ecco come dom Guéranger – sulla base delle Lettere degli Apostoli e delle testimonianze patristiche – ricostruisce una Sacra Sinassi al tempo degli Apostoli. Una volta riuniti i fedeli nel luogo del Sacrificio, il Pontefice, nell’epoca apostolica, presiedeva innanzitutto alla lettura delle Epistole degli Apostoli, alla recita di qualche passo del santo Vangelo, che ha formato sin dall’origine la Messa dei Catecumeni; e non bisogna cercare altri istitutori di questo uso che gli Apostoli stessi. San Paolo lo conferma in più di un’occasione. Questa ingiunzione apostolica ebbe autorità di legge subito, poiché nella prima metà del II secolo, il grande apologista san Giustino attesta la fedeltà con cui la si seguiva, nella descrizione che egli ha dato della Messa del suo tempo (cf Apologia II). Tertulliano e san Cipriano confermano la sua testimonianza.

Quanto alla lettura del Vangelo, Eusebio insegna che il racconto delle azioni del Salvatore, scritto da san Marco, fu approvato da san Pietro per essere letto nelle Chiese: e san Paolo fa allusione a questo stesso uso, quando, designando san Luca, fedele compagno dei suoi pellegrinaggi apostolici, lo definisce come «il fratello che ha lode in tutte le Chiese a motivo del vangelo» (2Cor 8,18).

Il saluto al popolo con queste parole: «Il Signore sia con voi», era in uso sin dall’antica legge. Booz lo rivolge ai suoi mietitori (cf Rt 2,4) ed un profeta ad Asa, re di Giuda (cf 2Cr 15,2). «Ecce ego vobiscum sum», dice Cristo alla sua Chiesa (Mt 28,20). Così la Chiesa mantiene questo uso degli Apostoli, come prova l’uniformità di questa pratica nelle antiche Liturgie d’Oriente e d’Occidente, secondo il chiaro insegnamento del primo concilio di Braga.
La Colletta, forma di preghiera che riassume i voti dell’assemblea, prima dell’oblazione stessa del Sacrificio, appartiene anch’essa all’istituzione primitiva, come dimostra la concordanza di tutte le Liturgie. La conclusione di questa orazione e di tutte le altre Liturgie con queste parole: «Nei secoli dei secoli», è universale, sin dai primi giorni della Chiesa. Quanto all’uso di rispondere Amen, non v’è dubbio che risalga ai tempi apostolici. San Paolo stesso ne fa allusione, nella sua prima epistola ai Corinti (cf 14,16).
Nella preparazione della materia del Sacrificio, ha luogo l’unione dell’acqua con il vino che deve essere consacrato. Quest’uso d’un così profondo simbolismo, secondo san Cipriano, risale fino alla tradizione stessa del Signore. Le incensazioni che accompagnano l’oblazione sono state riconosciute essere di istituzione apostolica dal Concilio di Trento.
Lo stesso san Cipriano ci dice che fin dalla nascita della Chiesa, l’Atto del Sacrificio era preceduto da un Prefazio; che il sacerdote gridava: Sursum corda, a cui il popolo rispondeva: Habemus ad Dominum. E san Cirillo, parlando ai catecumeni della Chiesa di Gerusalemme, Chiesa più d’ogni altra di fondazione apostolica, spiega loro l’altra acclamazione: «Gratias agamus Domino Deo nostro! Dignum et iustum est»!
Segue il Trisagio: «Sanctus, Sanctus, Sanctus Dominus»! Il profeta Isaia, nell’Antico Testamento, lo sentì cantare ai piedi del trono di Jahvè; nel Nuovo, il profeta di Pathmos lo ripete così come l’aveva sentito risuonare presso l’altare dell’Agnello. Questo grido d’amore e di ammirazione, rivelato alla terra, doveva trovare un’eco duratura nella Chiesa cristiana. Tutte le Liturgie lo riconoscono, e si può ben garantire che il Sacrificio eucaristico non è mai stato offerto senza che esso vi fosse proferito.
Quindi si apre il Canone. « E chi oserà non riconoscere la sua origine apostolica?», si chiede dom Guéranger. Gli Apostoli non potevano lasciare mutevole ed arbitraria questa parte principale della Liturgia sacra. Se hanno regolamentato molte cose secondarie, tanto più avranno determinato le parole e i riti del più temibile e fondamentale di tutti i misteri cristiani. « È dalla tradizione apostolica – dice il papa Vigilio nella sua lettera a Profuturo – che noi abbiamo ricevuto il testo della preghiera del Canone».
Dopo la consacrazione, mentre i doni santificati stanno sull’altare, trova la sua collocazione l’Orazione domenicale, poiché, dice san Girolamo: « È dopo l’insegnamento di Cristo stesso, che gli Apostoli hanno osato dire ogni giorno con fede, offrendo il sacrificio del suo corpo: Padre nostro che sei nei cieli».
Il Sacrificatore procede immediatamente alla Frazione dell’Ostia, facendosi in ciò imitatore non solo degli Apostoli, ma di Cristo stesso, che prese il pane, lo benedì e lo spezzò prima di distribuirlo.
Ma, prima di comunicarsi con la Vittima di carità, tutti devono salutarsi nel santo bacio. «L’invito dell’Apostolo – dice Origene – ha prodotto nelle Chiese l’uso che hanno i fratelli di scambiarsi il bacio quando la preghiera è arrivata alla fine».
Ecco quindi certificata l’origine apostolica dei riti principali del Sacrificio, così come si praticavano in tutte le Chiese.

Certificata quindi l’origine apostolica dei riti principali del Sacrificio, così come si praticavano in tutte le Chiese, da tale ricostruzione discendono alcune fondamentali conclusioni:

  1. la Liturgia istituita dagli Apostoli ha dovuto contenere necessariamente tutto quello che era essenziale alla celebrazione del Sacrificio cristiano e all’amministrazione dei Sacramenti, tanto sotto l’aspetto delle forme essenziali quanto sotto quello dei riti obbligatori per la decenza dei misteri, per l’esercizio del potere di Santificazione e di Benedizione che la Chiesa riceve da Cristo attraverso gli stessi Apostoli. Questo insieme liturgico ha dovuto comprendere tutto quello che si riconosce universale nelle forme del culto, nell’arco dei primi secoli, e di cui non si può designare l’autore o l’origine, secondo il su menzionato principio di sant’Agostino. Questo insieme primitivo di riti cristiani, già sufficientemente chiari e dettagliati, mostra come, sin dal suo sorgere, la Chiesa abbia avvertito la necessità di stabilire il culto con il quale doveva elevarsi il Sacrificio e la lode al Dio tre volte Santo.
  2. Eccezion fatta per un esiguo numero di allusioni negli Atti degli Apostoli e nelle loro Epistole, la Liturgia apostolica si trova interamente fuori dalla Scrittura, ed è di puro dominio della Tradizione. Sin dalle sue origini, dunque, la Liturgia è esistita più nella Tradizione che nella Scrittura. Ma ciò non deve meravigliare specie se si considera che la Liturgia si esercitava dagli Apostoli, e da coloro che essi avevano consacrato vescovi, sacerdoti o diaconi, molto tempo prima della redazione completa del Nuovo Testamento.
  3. I Padri del III e IV secolo assai di frequente, parlando di qualche rito o cerimonia in particolare, affermano che è d’origine o tradizione apostolica. Con tale espressione – che è scientificamente e storicamente inverificabile – i Padri volevano verosimilmente richiamarsi al periodo più antico della Chiesa dimostrando con ciò quanto fossero ancora vive, presso le varie Chiese, le memorie dell’attività liturgica degli Apostoli.
  4. In tutta l’antichità cristiana non si trova alcun indizio che accenni, come vogliono i Protestanti e certa corrente teologia, ad una diretta ingerenza delle Comunità nelle funzioni del Culto. La fissazione e la progressiva regolamentazione della Liturgia si mostra sempre compito esclusivo degli Apostoli e dei vescovi loro successori.
Alla fine del IV secolo si registrano queste pregnanti parole del papa san Siricio che rivelano tutta l’importanza dell’unità liturgica come fondamento dell’unità della Fede e del Dogma: «La regola apostolica – scrive – c’insegna che la confessione di fede dei vescovi cattolici deve essere una. Se v’è una sola fede, non vi sarà che una sola tradizione. Se v’è una sola tradizione, vi dovrà essere una sola disciplina in tutta la Chiesa». Di qui l’importanza dell’unità liturgica che è il dogma professato nelle formule sacre.
Risale proprio a questo periodo (430 ca.) il notissimo lemma, divenuto legge nella scienza liturgica: “lex orandi lex creclendi“. Se esso è a tutti noto – forse non a tutti è noto l’autore e il complesso della citazione. Sembra che risalga al papa san Celestino il quale così scriveva ai vescovi della Gallia contro l’errore dei pelagiani: «Oltre ai decreti inviolabili della Sede apostolica che ci hanno insegnato la vera dottrina, consideriamo anche i misteri racchiusi nelle formule di preghiere sacerdotali che, stabilite dagli apostoli, sono ripetute nel mondo intero in modo uniforme in tutta la Chiesa cattolica cosicché la regola della fede deriva dalla regola della preghiera: ut legem credendi lex statuat supplicandi».
In conclusione, durante i primi tre secoli del Cristianesimo, v’era una sostanziale unità di riti. Si trattava naturalmente d’un’uniformità di sostanza più che di accidenti. Gradualmente i dettagli variabili vengono fissati ed entrano nella Tradizione della Chiesa, benché il rito rimanga ancora fluido, entro però delle linee ben stabilite.
La riforma di san Gregorio Magno
Dal IV secolo in poi abbiamo informazioni molto particolareggiate sulle questioni liturgiche. Padri della Chiesa come san Cirillo da Gerusalemme (†386), sant’Atanasio (†373), san Basilio (†379), san Giovanni Crisostomo (†407) ci offrono elaborate descrizioni dei riti che si celebravano.
La libertà della Chiesa sotto Costantino e, approssimativamente, il primo concilio di Nicea nel 325 segnano il grande punto di svolta degli studi liturgici. All’incirca dal IV secolo si ebbe la compilazione di testi liturgici completi: furono compilati il primo Euchologion e i Sacramentari per l’uso in chiesa.
Nel V secolo Papi e vescovi lavorano intensamente per l’unità liturgica e il suo perfezionamento. Tale opera fu portata a compimento nel secolo seguente da quel Pontefice il cui nome sarebbe rimasto per sempre legato alla sacra Liturgia: san Gregorio Magno. Asceso al soglio pontificio nel 590, intraprese molte importanti riforme, tra le quali quella della Liturgia fu senza dubbio preminente. La nota dominante della sua riforma fu la fedeltà alla Tradizione.
Sono ben noti i criteri liturgici del Santo. Egli scrive ad Agostino di Canterbury di scegliere, pur liberamente dalle chiese franche, quegli usi rituali che avesse stimato più convenienti per i suoi neofiti angli, giacché: non pro locis res, sed pro rebus loca amanda sunt. E in un’altra lettera diretta al vescovo Giovanni di Siracusa, si dichiarò disposto ad applicare questo principio alla stessa Liturgia romana: e in ciò Gregorio seguiva perfettamente la tradizione dei suoi predecessori, tanto che la Liturgia di Roma entrò definitivamente nel suo periodo di stasi solo dopo la morte del grande Dottore. «Se essa stessa (la Chiesa di Costantinopoli) – scrive san Gregorio – o un’altra Chiesa ha qualcosa di buono, io sono pronto ad imitare nel bene anche coloro che sono più piccoli di me, che tengo lontani da ciò che non è lecito. Infatti è stolto colui che si ritiene primo tanto da non voler imparare ciò che ha visto di buono».
Ma il patrimonio liturgico della Sede apostolica non cedeva in splendore a quello di alcun’altra Chiesa; per cui san Gregorio ci attesta che le sue innovazioni nella Messa in realtà non furono altro che un ritorno alle più pure tradizioni romane. Non fu neppure una vera innovazione quella d’aver dato una maggior importanza a quell’estremo residuo della primitiva prece litanica (Kyrie, eleison), che originariamente seguiva l’ufficio vigiliare, prima d’incominciare l’anafora eucaristica. All’introito san Gregorio riattaccò il Kyrie, ottenendo così che la Colletta sacerdotale non mancasse totalmente d’una qualsiasi formula di preambolo.
Fu parimenti Gregorio quello che anticipò prima della frazione delle Sacre Specie consacrate il canto dell’Orazione Domenicale, perché servisse quasi di conclusione al Canone eucaristico, giacché originariamente, così ragionava il Santo, l’anafora consacratoria includeva in qualche modo l’Orazione che il Signore stesso aveva insegnato agli Apostoli, come vedremo tra breve.
Fin dai tempi di san Paolo, l’unità della famiglia cristiana, sotto il governo dei legittimi pastori, era simboleggiata dall’unità dell’altare, del pane e del calice eucaristico, del quale tutti insieme partecipavano. Ma perché il senso dell’unità dell’Ecclesia romana non venisse indebolito dalle successive divisioni di carattere puramente amministrativo, in ciascuna domenica il Pontefice inviava ai suoi presbiteri una particella consacrata della sua Eucharistia, perché, deposta nel loro calice a guisa di sacrum fermentum, simboleggiasse l’identità del Sacrificio e del Sacramento che riuniva in una sola Fede le pecore e il pastore. L’ultimo ricordo di questo rito è appunto il frammento eucaristico che anch’oggi si depone nel calice dopo la frazione dell’Ostia.
San Gregorio visse in un periodo storico caratterizzato non solo dal flagello della peste, ma anche dalla guerra e dal terremoto, onde il Pontefice s’offrì al Signore vittima d’espiazione per i peccati del popolo. Egli perciò affidò le sorti d’Italia ai disegni della Provvidenza e, nella preghiera eucaristica, poco prima della consacrazione dei divini Misteri, là dove la Liturgia romana era solita di enunciare “le intenzioni particolari giusta le quali veniva offerto il Sacrificio”, aggiunse il voto supremo del suo cuore di pastore: « diesque nostros in tua pace disponas», parole che il Canon Missæ conserva quale preziosa eredità di san Gregorio Magno.
Dopo di lui c’è poco da raccontare sulla natura dei cambiamenti dell’ordinario della Messa, divenuto un’eredità sacra ed inviolabile dalle origini immemorabili. Era popolare l’opinione secondo la quale l’ordinario era rimasto immodificato fin dal tempo degli Apostoli, se non addirittura dallo stesso Pietro.
Adrien Fortescue ritiene che il regno di san Gregorio Magno segni un’epoca nella storia della Messa, avendo lasciato la Liturgia, nei suoi elementi essenziali, del tutto simile a quella praticata oggi. Scrive: «C’è, inoltre, una tradizione costante secondo la quale san Gregorio fu l’ultimo a intervenire sulle parti essenziali della Messa, cioè sul Canone. Benedetto XIV (1740-1758) dice: “Nessun papa ha aggiunto o cambiato qualcosa nel Canone da san Gregorio in poi”».
Se ciò sia del tutto vero non è di grande rilievo; il dato fondamentale è che nella Chiesa Romana certamente è esistita una tradizione ultramillenaria secondo cui il Canone non si sarebbe mai dovuto cambiare. Secondo il cardinal Gasquet «il fatto che sia rimasto inalterato per tredici secoli è la testimonianza più clamorosa della venerazione con la quale è sempre stato guardato e dello scrupolo che è sempre stato avvertito nel toccare un’eredità tanto sacra, giunta a noi da tempi immemorabili».
Anche se il rito della Messa continuò a svilupparsi – nelle parti non essenziali – dopo l’epoca di san Gregorio, il Fortescue spiega che «tutte le successive modifiche furono adattate entro l’antica struttura e le parti più importanti non furono toccate. All’incirca dal tempo di san Gregorio conosciamo il testo della Messa, l’ordinario e l’allestimento, come tradizione sacra che nessuno ha osato alterare eccetto che per alcuni dettagli ininfluenti». Tra le aggiunte più recenti «le preghiere ai piedi dell’altare sono, nella loro attuale forma, l’ultima parte di tutta la Messa. Si svilupparono da preparazioni private medievali e non erano state formalmente stabilite, nella loro forma attuale, prima del Messale di Pio V (1570)». Furono comunque largamente usate ben prima della Riforma e si rinvengono nella prima edizione stampata del Messale Romano (1474).
Il Gloria fu introdotto gradualmente, prima soltanto in forma cantata nelle Messe festive dei vescovi. È probabilmente di origine gallicana. Il Credo giunse a Roma nel secolo XI. Le preghiere dell’Offertorio e il Lavabo furono introdotti d’oltralpe difficilmente prima del XIV secolo. Placeat, Benedizione e Ultimo Vangelo furono introdotti gradualmente in epoca medievale».
Va comunque notato che queste preghiere, pressoché invariabili, prima della loro incorporazione ufficiale nel rito romano, avevano acquistato un uso liturgico secolare.
Il Rito Romano si andò poi rapidamente diffondendo, e nell’XI e XII secolo in Occidente praticamente soppiantò tutti gli altri riti, salvo quello di Milano e di Toledo. Ciò del resto non deve sorprendere: se la Chiesa di Roma era universalmente considerata la guida nella Fede e nella Morale, questo ruolo primaziale rivestiva anche in materia liturgica. La Messa, nell’Alto Medioevo, era già considerata un’eredità inviolabile, le cui origini si perdevano nella notte dei tempi. Meglio, era comunemente ritenuto che essa risalisse agli Apostoli o – come già affermato – che fosse stata redatta dallo stesso san Pietro.
Ne segue che l’Ordo Missæ riportato nel Messale di san Pio V (1570), a parte alcune aggiunte e allargamenti minimi, corrisponde molto da vicino all’Ordo stabilito da san Gregorio Magno.
Il Concilio di Trento
Nei secoli intercorsi dalla riforma di san Gregorio Magno fino al Concilio di Trento, il Rito Romano si diffuse in tutto l’orbe cattolico senza che ciò ostacolasse il fiorire di usi locali, i quali si svilupparono in modo graduale e naturale nel corso di molti secoli. Con il passare del tempo preghiere e cerimonie si moltiplicarono quasi impercettibilmente e, in ogni caso, al loro sviluppo seguiva la selezione e l’eventuale codificazione, cioè l’incorporazione di queste preghiere e cerimonie nei libri liturgici. Uno dei più grandi storici della Britannia, Owen Chadwick, osservò che: «Le Liturgie non sono fatte, esse crescono nella devozione dei secoli».
Mille anni circa dopo la riforma di san Gregorio Magno, togliendo le aggiunte marginali avvenute nel corso dei secoli, san Pio V, in seguito alla Riforma protestante e al Concilio di Trento, diede alla stessa Messa di san Gregorio Magno una forma definitiva da valere per sempre e dovunque.
La pratica di riferirsi alla Messa tradizionale del Rito Romano come Messa Tridentina è poco felice poiché ha portato alla diffusa ed erronea impressione che questa Messa sia stata composta in seguito al Concilio di Trento. La parola “Tridentina”, in realtà, significa “riguardante” questo Concilio – Concilium Tridentinum – che ebbe luogo in diversi periodi tra gli anni 1545 e 1563. II Concilio di Trento, in realtà, stabilì una commissione per esaminare il Messale Romano, rivederlo e ripristinarlo «secondo l’usanza e il rito dei Santi Padri». Il nuovo Messale fu, infine, promulgato da papa san Pio V nel 1570 con la bolla Quo Primum. Il lavoro preparatorio della Commissione fu caratterizzato dal rispetto per la Tradizione. In nessun caso ci fu la minima proposta di comporre un Novus Ordo Missæ. La sola idea era ritenuta inconcepibile all’autentico sentire cattolico. La Commissione codificò il Messale esistente, eliminando alcuni punti che considerava superflui o non necessari e conservando i riti esistenti da almeno duecento anni. Tuttavia, per quanto riguardava l’Ordinario, il Canone, il Proprio del Tempo, e molto più, era una replica del Messale Romano del 1474, che, in tutte le cose essenziali, risaliva all’epoca di san Gregorio Magno.
Il Fortescue fa particolare menzione della continuità liturgica che caratterizzò il novello Messale, il quale, promulgato da san Pio V, non è semplicemente un decreto personale del Sovrano Pontefice ma un atto del Concilio di Trento, sebbene chiuso il 4 dicembre 1563, prima che la Commissione avesse terminato il suo compito. La questione fu rimessa a papa Pio IV, che morì prima di concludere il lavoro; così fu il successore, san Pio V, a promulgare il Messale risultante dal Concilio, con la sopra menzionata Bolla.
Poiché il Messale è un atto del Concilio di Trento, il suo titolo ufficiale è Missale Romanum ex decreto sacrosancti Concilii Tridentini restitutum (Messale Romano restaurato secondo i decreti del Sacrosanto Concilio Tridentino). Per la prima volta in millecinquecento anni di storia della Chiesa un concilio e/o un papa specificarono ed imposero un rito completo della Messa attraverso lo strumento legislativo.
Il Fortescue, studiando accuratamente la riforma di san Pio V, giunse alla seguente conclusione: «Possiamo essere veramente grati alla commissione che fu così scrupolosa nel mantenere o restaurare l’antica tradizione Romana». Aggiunse poi che «fin dal Concilio di Trento la storia della Messa è, in sostanza, nient’altro che la composizione e l’approvazione di nuove Messe (proprie, ndr). Lo schema e tutte le parti fondamentali rimangono le stesse. Nessuno ha pensato di toccare la venerabile Liturgia della Messa Romana eccetto che nell’aggiungere ad essa nuovi Propri». «Non c’è nella cristianità un altro rito sì venerabile come il nostro», asserisce il Fortescue. È quindi la Messa Tridentina, il rito più venerabile nella Cristianità, « la cosa più bella da questa parte del cielo», come si espresse padre Faber. Scrivendo di questa Messa, John Henry Newman osservò: «Niente è così consolante, così commovente, così toccante, così esaltante, quanto la Messa, così com’è celebrata tra noi […]. Non si tratta di una formula verbale, è una grande “azione”, la più grande che possa esserci sulla terra. È […] l’evocazione dell’Eterno. Diventa presente sull’altare in carne e sangue Colui davanti al quale si prostrano gli angeli e tremano i demoni».
Un nuovo Messale?
Il primo scopo del Concilio di Trento – come s’è detto – fu quello di codificare l’insegnamento eucaristico cattolico; cosa che fece in modo eccellente ed in termini chiari ed ispirati, pronunciando l’anatema per chiunque avesse rifiutato quell’insegnamento. «Così il Concilio insegna la vera e genuina dottrina sul venerabile e divino sacramento dell’Eucaristia, quella dottrina che la Chiesa Cattolica ha sempre fermamente amato e che amerà fermamente fino alla fine del mondo, come è stata insegnata da Cristo Nostro Signore stesso, dai suoi Apostoli e dallo Spirito Santo, che continuamente porta alla sua mente [della Chiesa, ndt] tutta la verità. Il Concilio vieta a tutti i fedeli a Cristo, d’ora in poi, di credere, insegnare o predicare sulla Santissima Eucaristia qualunque cosa diversa da quanto spiegato e definito nel presente decreto».
Nella XVIII sessione, il Concilio incaricò una commissione di esaminare il Messale, rivederlo e restaurarlo «secondo l’usanza ed il rito dei Santi Padri». Il Fortescue ritiene che i membri della commissione incaricata della revisione del Messale «portarono a termine il loro compito molto bene»: «Non fu la creazione di un nuovo Messale ma la restaurazione dell’esistente “secondo l’usanza ed il rito dei Santi Padri”, con l’uso, a tale scopo, dei migliori manoscritti e di altri documenti».
Non si trattò dunque di un nuovo Messale. La sola idea di comporne uno ex novo era ed è totalmente aliena a tutto il sentire cattolico. Il cardinal Gasquet osservò che: «Ogni cattolico deve sentire un amore personale per i sacri riti che arrivano a lui con tutta l’autorità dei secoli. Ogni manipolazione grossolana di tali forme causa un dolore profondo in chi le conosce e le usa, perché esse giungono da Dio attraverso Cristo ed attraverso la Chiesa. Ma non eserciterebbero tanta attrazione se non fossero santificate dalla devozione di tante generazioni che hanno pregato con le stesse parole ed hanno trovato in esse fermezza nella gioia e consolazione nel dolore».
L’essenza della riforma di san Pio V fu, come quella di san Gregorio Magno, il rispetto della tradizione. Nel 1912 padre Fortescue poteva commentare con soddisfazione: « …la restaurazione di san Pio V fu una delle più eminentemente soddisfacenti. Lo standard della commissione fu l’antichità. Furono abolite le forme elaborate più recenti e fu scelta la semplicità, pur senza distruggere tutti quegli elementi pittoreschi che aggiungono bellezza poetica alla severa Messa Romana. Furono eliminate le numerose lunghe sequenze che si accalcavano continuamente nella Messa, ma furono mantenute le cinque sicuramente migliori. Furono ridotte le processioni con i cerimoniali elaborati, pur salvando le cerimonie veramente significative: la Candelora, le Ceneri, le Palme ed i bellissimi riti della Settimana Santa. Sicuramente, in Occidente, possiamo essere molto contenti di avere il Rito Romano nella forma del Messale di san Pio V».
Dal tempo della riforma di san Pio V ci sono state revisioni, mai però sostanziali. Talvolta quelle che oggi sono citate come “riforme” non furono altro che restaurazioni del Messale nella forma codificata da san Pio V. Ciò è vero in particolare per le “riforme” di Clemente VIII, stabilite nell’istruzione Cum sanctissimum del 7 luglio 1604, e di Urbano VIII nell’istruzione Si quid est, del 2 settembre 1634. San Pio X operò una revisione non del testo, bensì della musica.
Tra il 1951 e il 1955 Pio XII riformò le cerimonie della Settimana Santa (con il decreto Maxima redemptionis) e autorizzò una revisione delle rubriche orientata principalmente al calendario. Anche papa Giovanni XXIII operò un’estesa riforma delle rubriche che fu promulgata il 25 luglio 1960 ed ebbero effetto dal 1° gennaio 1961, ancora una volta incentrata soprattutto sul calendario. Nessuna di tali riforme comportò qualche significativo cambiamento nell’Ordinario della Messa.
Nel 1929, infatti, il cardinal Schuster aveva potuto scrivere: «Paragonando l’attuale messale nostro dopo la riforma tridentina con il messale medioevale e col Sacramentarlo Gregoriano, la differenza non appare punto sostanziale. Il nostro è più ricco e vario per ciò che riguarda il ciclo agiografico; ma le Messe stazionali delle domeniche, dell’Avvento, della Quaresima, delle feste dei Santi comprese nel Sacramentario di san Gregorio, salvo poche differenze, sono quasi le stesse. Si può dire insomma che il nostro codice eucaristico, pur tenuto conto dello sviluppo raggiunto con il decorrer dei secoli, è sostanzialmente il medesimo che usavano i grandi Dottori della Chiesa nel Medio Evo, e che recava in fronte il nome di Gregorio Magno».
Conclusione
La Messa cosiddetta “tridentina” ha un nucleo centrale immutabile, stabilito da Cristo stesso, continuato e perfezionato dagli Apostoli e conservato intatto attraverso due millenni di storia. La trama di riti e di cerimonie che la caratterizza s’è andata evolvendo poco a poco fino a raggiungere una forma quasi definitiva alla fine del III secolo, poi resa in qualche modo definitiva da san Gregorio Magno. Non sono mancati elementi secondari: la sollecitudine materna della Chiesa non ha cessato di restaurare ed abbellire il rito, rimuovendo di tanto in tanto quelle scorie che minacciavano offuscarne il primitivo splendore.
Questa la storia della Messa fino alla promulgazione del Nuovo Messale nel 1969. Gli eminentissimi cardinali Bacci e Ottaviani nel Breve esame critico del Novus Odo Missæ presentato al pontefice Paolo VI, prima della definitiva promulgazione, non esitarono ad affermare che il NOM (Novus Ordo Missæ) «considerati gli elementi nuovi, suscettibili di pur diversa valutazione, che vi appaiono sottesi ed implicati, rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino, il quale, fissando definitivamente i canoni del rito, eresse una barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse l’integrità del magistero».
In una nota del “breve esame” in questione viene riportata una citazione di padre Louis Bouyer secondo cui «il Canone romano risale, tale e quale è oggi, a san Gregorio Magno. Non vi è, in Oriente come in Occidente, nessuna preghiera eucaristica che, rimasta in uso fino ai nostri giorni, possa vantare una tale antichità! Agli occhi non solo degli ortodossi, ma degli anglicani e persino dei protestanti che hanno ancora in qualche misura il senso della tradizione, gettarlo a mare equivarrebbe, da parte della Chiesa Romana, a rinnegare ogni pretesa di rappresentare mai più la vera Chiesa Cattolica» (nota 1).
Romano Amerio, nel suo insuperato Iota Unum, scrive che «leggendo le antiche liturgie, come il Sacramentario di Biasca, che è del secolo IX, e ritrovandovi le formule con cui la Chiesa Romana orò per oltre un millennio, si sente vivamente la iattura subita dalla Chiesa spogliatasi del senso dell’antiquitas che, persino secondo i Gentili, proxime accedit ad deos, nonché del senso dell’immobilità del divino nel moto del tempo».
Il cardinal Ratzinger già anni fa denunciava che – con la riforma Liturgica post-conciliare – si era sostituita «una Liturgia sviluppatasi nel tempo con una Liturgia costruita a tavolino». «La promulgazione del divieto del messale – affermava ancora il Porporato – che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dal tempo dei sacramentali dell’antica Chiesa, ha comportato una rottura nella storia della Liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche. […] si fece a pezzi l’edificio antico e se ne costruì un altro […]; il fatto che esso sia stato presentato come edificio nuovo, contrapposto a quello che si era formato lungo la storia, che si vietasse quest’ultimo e si facesse in qualche modo apparire la Liturgia non più come un processo vitale, ma come un prodotto di erudizione specialistica e di competenza giuridica, ha comportato per noi dei danni estremamente gravi. In questo, modo, infatti, si è sviluppata l’impressione che la Liturgia sia “fatta”, che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di “donato”, ma che dipenda dalle nostre decisioni. Ne segue, di conseguenza, che non si riconosca questa capacità decisionale solo agli specialisti o a un’autorità centrale, ma che, in definitiva, ciascuna “comunità” voglia darsi una propria Liturgia. Ma quando la Liturgia è qualcosa che ciascuno si fa da sé, allora non ci dona più quella che è la sua vera qualità: l’incontro con il mistero, che non è un nostro prodotto, ma la nostra origine e la sorgente della nostra vita».
Bernardo di Chartres diceva che «noi siamo come nani che stanno sulle spalle dei giganti, così che possiamo vedere più lontano di loro non a causa della nostra statura o dell’acutezza della nostra vista, ma perché, stando sulle loro spalle, stiamo più in alto di loro». Dio ci doni l’umiltà di riconoscerci nani, e l’intelligenza se vogliamo veder lontano – di rimanere sulle spalle di quei giganti che sono i nostri Padri nella Fede. Senza questo atteggiamento della mente e del cuore ci condanniamo da soli ad una certa e forse irreversibile cecità.
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[Fonte: Il Settimanale di Padre Pio, 2011/nn. 22 (p.13-14); 23 (p. 12-13); 24 (p. 12-13); 25 (p.22-23); 26 (p.15-17); 27 (p. F3-14); 28 (p. 18-19); 29 (p.16-19)].
dal sito chiesaepostconcilio.blogspot.it

Pellegrinaggio mariano dei “Summorum Pontificum” dell’Emilia Romagna: intervista al Coordinatore regionale del CNSP

Madonna del Poggetto

“La pietà popolare è una strada che porta all’essenziale se è vissuta nella Chiesa in profonda comunione con i vostri Pastori. […] Quando voi andate ai santuari, quando portate la famiglia, i vostri figli, voi state facendo proprio un’azione di evangelizzazione. Bisogna andare avanti così! Siate anche voi veri evangelizzatori! Le vostre iniziative siano dei ‘ponti’, delle vie per portare a Cristo, per camminare con Lui.” 
(Papa Francesco, 5 maggio 2013)

Come non pensare a queste belle parole del Santo Padre, in occasione della recente Giornata delle confraternite e della pietà popolare, considerando l’iniziativa promossa per la domenica di Pentecoste dai fedeli legati alla forma straordinaria del rito romano dell’Emilia-Romagna che organizzano un pellegrinaggio al santuario della Madonna del Poggetto di Ferrara?! In questo mese di Maria, non possiamo che dare spazio a questa belle iniziativa che testimonia il vigore del popolo Summorum Pontificum italiano.

RINGRAZIARE MARIA SANTISSIMA E PARTECIPARE ALLA NUOVA EVANGELIZZAZIONE
Intervista a Marco Sgroi, coordinatore regionale per l’Emilia-Romagna del Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum

1) Questa domenica di Pentecoste, 19 maggio, si svolgerà il primo pellegrinaggio mariano dei gruppi Summorum Pontificum dell’Emilia-Romagna: com’è nata una tale iniziativa?
Marco Sgroi: Come ogni pellegrinaggio, anche il nostro nasce in primo luogo da un’esigenza spirituale: ringraziare Maria Santissima per tutte le grazie che ci ha concesso in questi cinque anni di applicazione del Summorum Pontificum in Emilia Romagna, e supplicarla di continuare ad assisterci perché il nostro percorso spirituale e liturgico possa progredire sempre più. Tutto questo mentre si prepara il nuovo pellegrinaggio internazionale del popolo Summorum Pontificum (anche il nostro pellegrinaggio si chiama così), e mentre i Coetus Fidelium della nostra regione che aderiscono al Coordinamento Nazionale del Summorum Pontificum si sforzano di incrementare la loro collaborazione per risolvere i problemi che ancora ci affliggono, e per intensificare l’opera di apostolato liturgico che ci siamo proposti di compiere nelle nostre comunità diocesane e parrocchiali. Si può ben capire, dunque, perchè avvertiamo la necessità così viva dell’aiuto della Beata Vergine!
La nostra, poi, non dovrebbe essere un’iniziativa isolata, perché, se la Provvidenza vorrà, nelle prossime settimane anche in altre regioni gli aderenti al Coordinamento Nazionale proporranno analoghi pellegrinaggi regionali. 

2) Il pellegrinaggio si svolgerà presso il santuario della BVM del Poggetto di Ferrara, perchè una tale scelta?
Marco Sgroi: Vi sono molte ragioni. Innanzi tutto, ragioni di ordine spirituale: il santuario del Poggetto è molto caro ai cattolici ferraresi, e ci è parso giusto unirci al Coetus di Ferrara in questa devozione mariana così sentita. Questo particolare legame con Maria Santissima degli amici Ferraresi, d’altra parte, ci consente anche di rendere loro il merito che si sono guadagnati con il dinamismo e la molteplicità delle iniziative che hanno realizzato negli ultimi anni, dando particolare concretezza a quell’opera di apostolato liturgico di cui parlavo prima. Infine, abbiamo voluto unirci agli amici ferraresi anche nel filiale affetto per il loro nuovo Arcivescovo, mons. Luigi Negri, il cui limpido magistero è così importante anche per la cultura liturgica, che nelle nostre chiese non trova sempre l’attenzione che merita, e per la pacificazione liturgica delle nostre comunità – tema che in Italia non è così sentito come altrove (non devo certo ricordarlo a Paix Liturgique), ma che, invece, dovrebbe essere approfondito anche da noi.
Mons. Negri, poi, ci ha fatto un regalo veramente eccezionale: pur con tutti gli impegni di un Arcivescovo nel giorno di Pentecoste, è riuscito a trovare il tempo per venire anche al Santuario del Poggetto. La Sua presenza ci onora in modo particolare. Infine, non voglio dimenticare don Luca Martini, il giovane parroco che è anche rettore del Santuario e che celebrerà la Santa Messa: è un esempio dei tanti sacerdoti dell’ultima generazione che trovano nella liturgia antica alimento per la loro missione, dimostrando con i fatti la perenne giovinezza della millenaria tradizione liturgica della Chiesa.

3) Qual è il programma preciso della giornata?
Marco Sgroi: Il programma è molto semplice. Ci troveremo alle 10,30 al santuario, e alle 11,00 terremo una breve processione, accompagnata dai canti della tradizione, alla quale farà seguito la Santa Messa solenne in terzo, cantata da don Martini. Il canto sarà sostenuto dal Coro San Gregorio Magno di Ferrara, guidato dal Maestro Antonio Rolfini: ma si tratta di un pellegrinaggio del popolo Summorum Pontificum, per cui la Schola sarà costituita da tutti i pellegrini! Infine, accoglieremo Mons. Negri (non so con precisione in che momento potrà raggiungerci, poiché, come ho detto, la Sua giornata è carica di impegni: ma non ha voluto mancare), che ci impartirà la Sua benedizione e ci dirà attese parole, che, sono certo, ci saranno di forte incoraggiamento. Poi, chi vorrà potrà consumare un pasto festoso secondo gli usi della campagna ferrarese, presso le strutture del Santuario.

4) Qual è la situazione dei gruppi Summorum Pontificum della vostra regione? C’è ancora una domanda per la liturgia tradizionale o il desiderio dei fedeli è ormai soddisfatto?
Marco Sgroi: La domanda richiede una risposta un po’ articolata. Intanto, devo premettere che il nostro coordinamento non riunisce tutti i Coetus Fidelium della regione, ma solo quelli (sono la maggior parte) che hanno aderito al Coordinamento Nazionale condividendo il programma di collaborazione e consultazione reciproche che esso si è dato. Conosciamo però abbastanza bene la situazione di tutta la regione, e devo dire che essa è analoga a quella di molte altre realtà, con luci (tante, grazie al Cielo) e ombre (meno, ma ci sono). Così, nella mia diocesi, Piacenza-Bobbio, abbiamo due Messe, una settimanale, l’altra mensile, e i due Coetus sono perfettamente inseriti sia nella comunità diocesana, sia in quella parrocchiale di riferimento; ma il Coetus di Parma, pur essendo molto attivo, trova una forte difficoltà a mantenere la celebrazione settimanale, poiché l’anziano sacerdote che vi era stato addetto si è ritirato e non è stato ancora sostituito. A Modena – il cui gruppo non fa parte del Coordinamento – la S. Messa è celebrata settimanalmente presso la Parrocchia dello Spirito Santo dal parroco; ma a Reggio Emilia la Messa è solo mensile, ed a Correggio addirittura occasionale. A Bologna vi sono diverse celebrazioni, a Rimini è attivo da anni il Cenacolo della Santissima Trinità, che non fa parte del Coordinamento, ed è un’associazione religiosa riconosciuta dalla Diocesi, e così via. Quanto a Ferrara, dove terremo il pellegrinaggio, è quasi superfluo dire che la S. Messa vi è ben radicata: la celebrazione è settimanale, ed è stata introdotta su iniziativa dell’Arcivescovo mons. Rabitti.

Al di là delle situazioni particolari e delle criticità specifiche, poi, tutti i gruppi conoscono i problemi tipici dei Coetus Fidelium (il Coordinamento è nato proprio per unire le forze e favorirne la soluzione): mancanza di sacerdoti disponibili, necessità di formazione liturgica, difficoltà pratiche di ogni genere (pensiamo, per esempio, alla formazione dei ministranti)… Per cui è davvero difficile dire se la domanda dei fedeli per la liturgia tradizionale sia completamente soddisfatta. Dirò di più: a mio parere, c’è addirittura una domanda ancora inespressa, c’e una sensibilità tradizionale (se vogliamo chiamarla così) che deve ancora manifestarsi. Ci sono ancora molti fedeli per il cui nutrimento spirituale la liturgia tradizionale – che è una ricchezza per tutta la Chiesa – sarebbe particolarmente adatta, ma che, semplicemente, non la conoscono e non hanno occasione di conoscerla. Al fondo di tutto ciò, temo, si colloca un’incultura religiosa sempre più diffusa, che, purtroppo, va oltre la sola questione liturgica (il discorso richiederebbe molto tempo, e una competenza ben maggiore della mia!). Per questo, iniziative come un pellegrinaggio, come la celebrazione della S. Messa tradizionale in un santuario mariano, sono importanti non solo per noi, e non solo per la questione liturgica, ma per tutti, specie in questi tempi di nuova evangelizzazione: alla quale, come diciamo sin dal pellegrinaggio “Una cum Papa nostro” dello scorso novembre, il popolo del Summorum Pontificum cerca di concorrere con la perenne freschezza della liturgia tradizionale

Contatto per il pellegrinaggio: 329 21 41 455 e nonsumdignus@virgilio.it

Dal sito piax-liturgique.it

L’attualità immortale del latino

di Ilaria Pisa

latino

Abbiamo avuto il privilegio di intervistare don Roberto Spataro sdb, sacerdote e docente presso la Università Pontificia Salesiana, esperto di Patristica, di didattica delle lingue classiche e di Teologia dogmatica e Segretario del Pontificium Institutum Altioris Latinitatis.

A novembre 2012, don Spataro è stato nominato primo Segretario della Pontificia Academia Latinitatis, in accordo con Latina Lingua, la Lettera Apostolica emanata da Benedetto XVI in forma di Motu Proprio a tutela della dignità, dell’impiego e dello studio del Latino, in particolare all’interno delle istituzioni formative cattoliche.

Oggi si usa qualificare il Latino come “lingua morta”. Sappiamo che Lei non concorda affatto con tale definizione. Perché?

Io preferisco affermare che il latino è una lingua immortale. Mi permetta di citare, a tal proposito, le parole del professor Luigi Miraglia, uno dei migliori latinisti contemporanei: “Il latino, morendo, è diventato immortale. Esso, non soggetto più alla trasformazione delle lingue vive, ma fisso nelle sue forme e incrementato quasi solo nel lessico, ha vinto la maledizione di Babele non con un miracolo pentecostale, ma creando per il mondo occidentale un mezzo di comunicazione che superasse insieme le barriere dello spazio e quelle del tempo”. Con la conoscenza del latino, possiamo entrare in dialogo, per fare solo alcuni nomi, con Cicerone, Seneca, Agostino, Tommaso d’Aquino, Erasmo da Rotterdam, Spinoza, e riflettere sui pensieri nobili ed alti che essi alimentano.

Tra la Chiesa cattolica e la lingua latina sembra esserci “da sempre” un rapporto privilegiato. È vero? Per quali motivi?

I Sommi Pontefici, da sempre grandi promotori dell’uso vivo della lingua latina, hanno indicato sostanzialmente tre motivi. Primo: la Chiesa Cattolica, in quanto istituzione universale, non può usare un idioma appartenente ad un bacino linguistico-culturale specifico, ma ha bisogno di una lingua sovranazionale. Ed il latino ha svolto sempre ed ottimamente questa funzione. In secondo luogo, certe caratteristiche della lingua latina, come la sua sobrietà e la sua chiarezza logica, la rendono particolarmente appropriata per esprimere l’insegnamento ufficiale della Chiesa in materia dogmatica, liturgica e giuridica. Infine, la Chiesa vive di Tradizione, raccoglie un patrimonio di fede e lo riconsegna di generazione in generazione: una parte cospicua di questo patrimonio è stato espresso in lingua latina.

I grandi maestri della teologia cattolica hanno composto in Latino le loro opere. Ma per un teologo nostro contemporaneo, sapere il Latino è davvero necessario?

La teologia elabora razionalmente i dati di fede che vengono dalle fonti. Gran parte di queste fonti sono in lingua latina, per esempio le opere dei grandi dottori del Medioevo, i pronunciamenti del Magistero. le editiones typicae dei libri liturgici, e in lingua greca, come le opere dei Padri greci. Un professionista della teologia non può perciò affidarsi a quelle “mediazioni culturali” che sono le traduzioni. Insomma, per un teologo latino e greco sono “ferri del mestiere”. Inoltre, la conoscenza e l’uso della lingua latina abilitano ad un rigore concettuale e ad una sobrietà lessicale di cui – a mio avviso – molta produzione teologica contemporanea difetta.

L’impiego del Latino liturgico viene sovente criticato in quanto “allontanerebbe” il fedele dal Mistero, menomandone la comprensione. Come confutare questa e simili critiche?

Penso che sia proprio il contrario: una lingua “sacra”, diversa da quella profana e quotidiana, aiuta a percepire il senso del Mistero di Dio in modo più adeguato. Inoltre, credo che ci sia un equivoco: il Mistero di Dio rimane sempre oltre la capacità di una completa comprensione razionale e, dunque, di essere comunicato in modo del tutto intellegibile, anche se si usa una lingua vernacolare. La comprensione delle “cose di Dio” è affidata non solo alla ragione ma anche al “cuore” che si nutre di simboli. Ed una lingua “sacra” appartiene al linguaggio simbolico, quello più appropriato alla liturgia. Del resto, fino alla Riforma liturgica postconciliare, generazioni e generazioni di santi hanno partecipato fruttuosamente alla liturgia anche se non “capivano” tutto quello che si diceva. In realtà, capivano molto bene che nella Liturgia avviene qualcosa di bello e grande: la presenza e l’azione di Dio.

tratto da: Radici Cristiane, n. 83 – aprile 2013

Come si è salvata la Messa tridentina in Inghilterra

di mons. Luigi Negri

Prefazione dell’Arcivescovo di Ferrara-Comacchio al libro di Gianfranco Amato ”L’indulto di Agatha Christi”

In questo suo ultimo lavoro l’amico Gianfranco Amato mette in luce un episodio poco noto nel mondo cattolico italiano e legato alla tradizione liturgica della Chiesa. Si tratta dell’appello rivolto a Paolo VI per salvare la Messa Tridentina sottoscritto il 6 luglio 1971 da cinquantasette esponenti del mondo culturale inglese, tra i quali la nota scrittrice Agatha Christie, il cui nome è stato successivamente associato all’indulto concesso dallo stesso Pontefice. Interessanti appaiono le motivazioni per cui personaggi distanti dalla Chiesa Cattolica decisero di intercedere per la sopravvivenza della Messa secondo l’usus antiquor, ma ancora più interessanti sono le considerazioni che Amato trae utilizzando come spunto la vicenda del cosiddetto Indulto di Agatha Christie, e che possono essere articolate su tre piani.
Il primo riguarda l’analisi storica della profonda avversione ideologica dei Riformatori protestanti, ed in particolare di quelli anglicani, nei confronti della celebrazione liturgica della Messa cattolica, in quanto espressione suprema del dogma della transustanziazione. Quella celebrazione, così come gli atti devozionali tipicamente cattolici, quali ad esempio l’adorazione eucaristica, rappresentano uno dei punti di massima inconciliabilità tra le due confessioni cristiane. Ed è un punto di fondamentale importanza giacché attiene alla presenza reale e concreta di Cristo nella celebrazione eucaristica. Questo aspetto di particolare importanza ci ricorda, peraltro, come il doveroso dialogo ecumenico con i fratelli separati non possa passare attraverso una dimensione affettiva e sentimentale, ma debba sempre tenere presente l’imprescindibile imperativo missionario della Chiesa Cattolica. Non si può, infatti, cedere all’aut-aut di alcuni irenici ecumenisti: o missione o dialogo. La missione per la Chiesa Cattolica non è un’iniziativa tra le tante, ma rappresenta, secondo l’insegnamento di Giovanni Paolo II, il dinamismo della sua «autorealizzazione»: la Chiesa diventa sempre più sé stessa, quanto più vive la sua missione, cioè il suo impegno a plocamarsi quale unico luogo di salvezza.
Pensare che l’annuncio della fede cattolica come il solo possibile instrumentum salutis riduca la libertà dei nostri interlocutori significa cedere totalmente alla mentalità laicista che domina il mondo di oggi, e che ritiene la verità oppressiva della libertà. Non può esistere, in realtà, una via alla salvezza che possa prescindere dall’avvenimento di Cristo, dall’incontro con Lui, dalla sequela di Lui e dalla conversione a Lui, così come è presente misteriosamente, fino alla fine dei tempi, nella Sua Chiesa che è il Suo Corpo e il Suo Sacramento.
Il secondo piano in cui si inseriscono le considerazioni contenute in questo interessante saggio di Amato riguarda alcuni abusi liturgici che hanno purtroppo caratterizzato il periodo postconciliare. In effetti la riforma liturgica introdotta dopo il Concilio Vaticano II si è sostanziata, il più delle volte, di pseudo-interpretazioni, o ha fatto valere casi eccezionali come norma: basti per tutti il problema della lingua, o quello della distribuzione della comunione sulla mano. Ci sono stati veri e propri colpi di mano delle Conferenze episcopali nei confronti di Roma, così come c’è stata certamente una debolezza della reazione vaticana, dovuta probabilmente a tensioni e contro-tensioni anche all’interno delle strutture che dovevano regolare l’interpretazione esatta e la corretta attuazione del Concilio.
Il terzo ambito in cui si possono suddividere le argomentazioni di Amato riguarda la natura propria della liturgia cattolica, la quale non si può declassare ad un semplice atto di culto elevato dall’uomo a Dio, come accade nella stragrande maggioranza delle formulazioni religiose naturali. La liturgia cattolica è piena attuazione dell’avvenimento della vita, passione, morte e resurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo, che prende forma nell’organismo sacramentale e coinvolge i fedeli in senso sostanziale e fondamentale, facendoli appartenere a Cristo e alla Sua Chiesa attraverso i sacramenti dell’iniziazione cristiana, e poi li accompagna nelle grandi scelte e nelle grandi stagioni della loro vita. La liturgia difende la fattualità di Cristo e della Chiesa. Per questo ho molta gratitudine verso il professor Roberto De Mattei per il suo straordinario volume sulla storia del Vaticano II, ed in particolare per le pagine dedicate a quel lento e inesorabile processo di “socializzazione” della liturgia, già prima del Concilio: come se il valore della liturgia fosse nella possibilità che il cosiddetto popolo cristiano partecipasse attivamente a un evento che era poi svuotato di fatto della sua sacramentalità e finiva per essere un’iniziativa di socialità cattolica. E’ proprio sulla liturgia, infatti, che si gioca la verità della fede perché in quel particolare ambito si evidenzia la grande alternativa che Benedetto XVI ha posto all’inizio della sua enciclica Deus caritas est: il cristianesimo non è un’ideologia di carattere religioso, non è un progetto di carattere moralistico, ma è l’incontro reale e concreto con Cristo che permane e si svolge nella vita della Chiesa e nella vita di ogni cristiano.
La grandezza della liturgia cattolica è dara dal fatto di rendere Cristo presente nel flusso e nel riflusso delle generazioni: «Hoc facite in meam commemorationem». Per questo la difesa di una coscienza esatta del dogma dipende dalla verità con cui viene vissuta la liturgia. In questo senso da sempre la Chiesa ha affermato che «lex orandi, lex credendi»: è la legge del pregare che fa nascere la legge del credere, ma soprattutto che la vigila in maniera adeguata e positiva. Ecco perché ogni tentativo di estenuare o ridurre la coscienza della presenza di Cristo a tutto vantaggio della modalità con cui la comunità è presente, equivale ad una perdita del valore ultimo della liturgia, del valore ontologico, direbbe il mio maestro don Giussani, e quindi metodologico ed educativo.
Per questo, come ho avuto modo di ribadire nel telegramma inviato, a nome della Diocesi di San Marino-Montefeltro, il 22 dicembre 2007 al Santo Padre Benedetto XVI, le direttive impartite dallo stesso Pontefice nel Motu Proprio «Summorum Pontificum» rappresentano una più ampia possibilità di educazione del popolo cristiano ad una fede che divenga realmente forma della persona e presenza viva nell’intera società.

Fonte: L’indulto di Agatha Christi

La morte delle cattedrali

di Marcel Proust*

* Questo studio di Marcel Proust apparve nel «Figaro» del 16 agosto 1904, in occasione della legge di separazione della Chiesa dallo Stato francese, che prevedeva fra l’altro l’abolizione dei luoghi di culto, l’inventario di tutti i beni della Chiesa di Francia, l’istituzione delle cultuali pena la confisca di quegli stessi beni da parte dello Stato, la «polizia dei culti», ecc. Legge che, come è noto, fu occasione di vittoria spirituale da parte dell’episcopato francese, obbediente all’ordine di San Pio X: lasciarsi spogliare serbando, in povertà assoluta, il mandato pastorale. Oggi che senza alcuna pressione da parte di governi laici si ode parlare negli stessi ambienti ecclesiastici di «sacrificio necessario» delle cattedrali e del canto gregoriano sembra opportuno rileggere la sottile, sferzante, appassionata perorazione di Proust in difesa dell’immenso tesoro di cui s’è nutrita per secoli – con la fede cristiana – tutta la grande arte di Occidente, e che non è facile comprendere a chi o a che cosa voglia oggi essere immolato [N.d.T.]

Supponiamo per un istante che la religione cattolica sia spenta da secoli, che le tradizioni del suo culto siano perdute. Sole, monumenti fatti inintelligibili ma rimasti mirabili, di una fede obliata, sopravvivono le cattedrali, mute e dissacrate. Supponiamo quindi che un giorno alcuni eruditi suffragati da documenti arrivino a ricostruire le cerimonie che vi si celebravano un tempo, per le quali erano state costruite, che erano precisamente il loro significato e la loro vita, senza le quali esse non erano ormai più che lettera morta; e supponiamo allora che alcuni artisti, sedotti dal sogno di restituire momentaneamente la vita a quei grandi vascelli divenuti silenziosi, vogliano rifarne per un’ora il teatro del dramma misterioso che vi si svolgeva, al centro di canti e profumi: in una parola, intraprendano, per la Messa e le cattedrali, ciò che i felibri hanno realizzato per il teatro di Orange e le antiche tragedie. Esiste un governo appena sollecito del passato artistico della Francia che non sarebbe pronto a sovvenzionare largamente un cosi magnifico tentativo? Si può forse pensare che ciò che esso fa per delle rovine romane, non lo farebbe per dei monumenti francesi, per quelle cattedrali che sono probabilmente la più alta ma indiscutibilmente la più originale espressione del genio di Francia? Poiché alla nostra letteratura si può preferire la letteratura d’altri popoli, alla nostra musica la loro musica, alla nostra pittura, alla nostra scultura, le loro; ma è in Francia che l’architettura gotica ha creato i suoi primi e più perfetti capolavori. Altri paesi non fecero che imitare la nostra architettura religiosa, e senza uguagliarla. Cosi dunque (riprendo la mia ipotesi), ecco degli eruditi che hanno saputo ritrovare il significato perduto delle cattedrali: le sculture, le vetrate riprendono il loro senso, un profumo misterioso aleggia di nuovo nel tempio, un dramma sacro vi ha luogo, la cattedrale si rimette a cantare. Il governo sovvenziona con ragione, con maggior ragione che le rappresentazioni del teatro d’Orange, dell’Opéra Comique e dell’Opéra, questa resurrezione delle cerimonie cattoliche, di un interesse storico, sociale, plastico, musicale di cui la sola bellezza è al di sopra di tutto ciò che un artista poté mai sognare, e alla quale forse soltanto Wagner sembrò accostarsi, imitandola, nel Parsifal. Carovane di snob vanno alla città santa (sia Amiens, Chartres, Bourges, Laon, Reims, Rouen, Parigi, la città che volete, tante sublimi cattedrali abbiamo!), e una volta l’anno riprovano l’emozione che un tempo andavano a cercare a Bayreuth e ad Orange: gustare l’opera d’arte nella cornice stessa che per essa fu costruita. Disgraziatamente, qui come a Orange, essi rimangono dei curiosi, dei dilettanti; qualsiasi cosa facciano, non abita più in loro l’anima di un tempo. Gli artisti che son venuti ad eseguire i canti, quelli che incarnano i sacerdoti, possono essere colti, penetrati dello spirito dei testi; il ministro della pubblica istruzione non sarà avaro, con loro, di decorazioni né di complimenti. Eppure, non ci si può impedire di esclamare: «Ahimè, quanto più belle dovevano essere queste feste, al tempo in cui erano dei sacerdoti a celebrare l’uffizio e non per dare a dei letterati un’idea di quelle cerimonie, ma perché avevano nella loro virtù la stessa fede degli artisti che scolpirono il giudizio universale nel timpano del portico o dipinsero le vite dei santi sulle vetrate dell’abside. Come l’opera tutta intera doveva parlar più alto, più giusto, quando tutto un popolo rispondeva alla voce del sacerdote, piegava i ginocchi al campanello dell’elevazione, non, come in queste rappresentazioni retrospettive, al modo di freddi figuranti stilizzati ma perché anche loro, come il sacerdote, come lo scultore, credevano. Ma ahimè, tali cose sono altrettanto lontane da noi quanto il pio entusiasmo del popolo greco alle rappresentazioni del suo teatro, e le nostre “ricostruzioni” non potranno mai darne un’idea». Ecco che cosa si direbbe se la religione cattolica non esistesse più, se degli eruditi fossero giunti a riscoprirne i riti, se degli artisti avessero provato a resuscitarli per noi. Ma per l’appunto quella religione esiste ancora e non ha per così dire mai mutato dal gran secolo in cui le cattedrali furono edificate. Non abbiamo bisogno, per immaginare ciò che fosse, vivente e nel pieno esercizio delle sue funzioni sublimi, una cattedrale del tredicesimo secolo, di farne, come del teatro di Orange, la cornice di una ricostruzione, di retrospettive esatte forse ma gelide. Basta entrarvi a una qualunque ora del giorno in cui si celebri un uffizio. La mimica, la salmodia, il canto non sono affidati qui ad artisti senza persuasione. I ministri stessi del culto ufficiano qui, non secondo un pensiero estetico ma per fede, e per ciò tanto più esteticamente. Le comparse non si potrebbe desiderarle più vive e più sincere, se il popolo stesso si degna di comparire per noi senza saperlo. Si può dire che, grazie alla persistenza nella Chiesa cattolica degli identici riti e, d’altro canto, della fiducia cattolica nel cuore dei francesi, le cattedrali non siano soltanto i più begli ornamenti della nostra arte ma i soli che vivano ancora la loro vita integrale, che siano rimasti in rapporto con lo scopo per il quale furono edificati. Ora, la rottura del governo francese con Roma sembra rendere prossima la discussione e probabile l’adozione di un progetto del signor Briand, ai termini del quale, di qui a cinque anni, le chiese potranno essere e saranno spesso dissacrate; non solo il governo non sovverrà più alla celebrazione delle cerimonie rituali nelle chiese, ma potrà trasformarle in tutto ciò che gli piacerà: museo, sala di conferenze, casino da giuoco. O voi, signor André Hallays, che andate ripetendo che la vita si ritira dalle opere d’arte non appena non servano più ai fini che presiedettero alla loro creazione, e che un mobile divenuto ninnolo, un palazzo divenuto museo raggelano, non riescono più a parlare al cuore e finiscono per morire – io spero che cesserete un istante di denunciare i restauri più o meno goffi che minacciano ogni giorno le città di Francia che avete preso a vigilare, e che vi leverete, alzerete la voce a pungolare se occorre il signor Chaumié, a chiamare in causa, al bisogno, il signor de Monzie, a convocare il signor John Labusquière, a riunire la Commissione dei monumenti storici. Il vostro zelo ingegnoso fu spesso efficace, non lascerete morire, adesso, e in un colpo solo, tutte le chiese di Francia.

Non vi è oggi un socialista di buon gusto che non deplori le mutilazioni inflitte dalla Rivoluzione alle nostre cattedrali, tante statue, tante vetrate infrante. Ebbene, meglio devastare una chiesa che dissacrarla. Finché vi si celebra la Messa, per mutilata che sia essa conserva ancora la sua vita. Dal giorno in cui viene dissacrata è morta, e se anche sia protetta come monumento storico di celebrazioni scandalose, non è più che un museo. Si può dire alle chiese ciò che Gesù diceva ai suoi discepoli: «Se non continuerete a mangiare la carne del Figlio dell’Uomo, e a bere il suo sangue, non vi è più vita in voi» (San Giovanni, VI, 55), quelle parole misteriose e così profonde del Salvatore fatte, in questa nuova accezione, assioma d’estetica e di architettura. Quando il sacrificio della carne e del sangue del Cristo, il sacrificio della Messa, non sarà più celebrato nelle chiese, non vi sarà in esse più vita. La liturgia cattolica è una cosa sola con l’architettura e la scultura delle nostre cattedrali, poiché le une e le altre hanno radice in un unico simbolismo. È noto come non vi sia nelle cattedrali scultura, per secondaria che sembri, che non abbia il suo valore simbolico. Se nel portico occidentale della cattedrale di Amiens la statua del Cristo si eleva su uno zoccolo ornato di rose, di gigli e di vite, è perché il Cristo ha detto: «Io sono la rosa di Saron. Io sono il giglio delle valli. Io sono la vite vera» [1].

Se sotto i suoi piedi sono scolpiti l’aspide e il basilisco, il leone e il drago, ciò è dovuto al versetto del salmo XC: Super aspidem et basiliscum ambulabis: et conculcabis leonem et draconem. Alla sua sinistra è rappresentato, in un piccolo bassorilievo, un uomo che lascia cadere la sua spada alla vista di un animale mentre accanto a lui un uccello continua a cantare. Questo perché «il poltrone non ha il coraggio di un tordo», e il bassorilievo ha il compito di simboleggiare, in effetti, la viltà come opposta al coraggio, perché è posta sotto la statua che è sempre (almeno nei primi tempi) alla sinistra della statua del Cristo, la statua di San Pietro, l’apostolo del coraggio. E così delle migliaia di figure che adornano la cattedrale.

Ora, le cerimonie del culto partecipano dello stesso simbolismo. Nel libro mirabile al quale vorrei avere un giorno l’occasione di rendere intero omaggio, L’arte religiosa in Francia nel XIII secolo, Emile Mâle così analizza, secondo il Razionale dei divini uffizi di Guglielmo Durando, la prima parte della festa del Sabato Santo. Fin dal mattino si comincia con lo spegnere nella chiesa tutte le lampade, per designare che l’Antica Legge, che finora illuminava il mondo, è ormai abrogata.

Poi il celebrante benedice il fuoco nuovo, figura della Nuova Legge. Egli lo fa scaturire dalla selce, per ricordare che Gesù Cristo è, come dice San Paolo, la pietra angolare del mondo. Allora il vescovo e il diacono si dirigono verso il coro e si arrestano davanti al cero pasquale. Il cero, ci insegna il Durando, è un triplice simbolo. Spento, simboleggia insieme la colonna oscura che guidava gli ebrei durante il giorno, l’Antica Legge e il corpo di Gesù Cristo. Acceso, significa la colonna di fuoco che Israele vedeva di notte, la Nuova Legge e il corpo glorioso di Gesù Cristo risorto. Il diacono fa allusione a questo triplice simbolismo, intonando, davanti al cero, la formula dellExultetMa egli insiste soprattutto sulla somiglianza del cero e del corpo di Gesù Cristo. Ricorda che la cera immacolata fu prodotta dall’ape, insieme casta e feconda come la Vergine che mise al mondo il Salvatore. Per rendere sensibile agli occhi la similitudine della cera e del corpo divino, egli pianta nel cero cinque grani di incenso che ricordano insieme le cinque piaghe del Cristo e i profumi recati dalle pie donne per imbalsamarlo. Finalmente egli accende il cero col fuoco nuovo e in tutta la chiesa le lampade si riaccendono a mostrare la diffusione della Nuova Legge nel mondo.

Ma questa, si dirà, è una festa eccezionale. Ecco l’interpretazione di una cerimonia quotidiana, la Messa, che, lo vedrete, non è meno significante.

«Il canto grave e triste dell’Introito apre la cerimonia; esso esprime l’aspettazione dei patriarchi e dei profeti. Il coro dei chierici è il coro stesso dei santi dell’Antica Legge che sospirano la venuta del Messia, che non sono destinati a vedere. Il vescovo entra allora, ed appare come la vivente immagine del Salvatore, atteso dalle Nazioni. Nelle grandi festività, si recano innanzi a lui sette ceri, a ricordare che, secondo la parola del profeta, i sette doni dello Spirito Santo riposano sul capo del Figlio di Dio. Egli avanza sotto un baldacchino trionfale di cui i quattro portatori possono compararsi ai quattro Evangelisti. Due accoliti procedono alla sua destra e alla sua sinistra e figurano Mosé ed Elia, che si mostrarono sul Tabor ai lati del Signore. Essi ci insegnano che Gesù aveva in sé l’autorità delle Tavole e quella della Profezia.

«Il vescovo siede sul suo trono e resta silenzioso. Sembra non partecipare in alcun modo alla prima parte della cerimonia. La sua attitudine contiene un insegnamento: egli ci ricorda con il suo silenzio che i primi anni della vita di Gesù Cristo trascorsero nell’oscurità e la meditazione. Il suddiacono, frattanto, s’è diretto al pulpito e, volto verso la destra, legge ad alta voce l’Epistola. Intravediamo qui il primo atto del dramma della Redenzione. Poiché la lettura dell’Epistola figura la predicazione di San Giovanni Battista nel deserto. Egli parla prima che il Salvatore abbia cominciato a far udire la sua voce, ma non parla che agli ebrei. Sicché il suddiacono, immagine del Precursore, si volge verso il nord, che è il lato dell’Antica Legge. Terminata la lettura, egli si inchina dinanzi al vescovo come il Precursore si umiliò dinanzi a Gesù Cristo».

«Il canto del Graduale, che segue la lettura dell’Epistola, si riporta ancora alla missione di San Giovanni Battista e simboleggia le esortazioni alla penitenza che egli dirige agli ebrei alla vigilia dei tempi nuovi».

«A questo punto, il celebrante o il diacono, legge il Vangelo. Momento solenne, poiché qui comincia la vita attiva del Messia; la sua parola si fa udire per la prima volta nel mondo. La lettura del Vangelo è la figura stessa della sua predicazione».

«Il Credo segue al Vangelo come la fede segue all’annuncio della verità. I dodici articoli del Credo si riferiscono alla vocazione dei dodici Apostoli».

«I paramenti stessi che il sacerdote indossa all’altare», aggiunge Mâle, «gli oggetti che servono al rituale sono altrettanti simboli. La pianeta, che s’indossa al di sopra delle altre vesti, è la carità che è superiore a tutti i precetti della legge e che è legge suprema essa stessa. La stola, che il sacerdote si passa al collo, è il giogo leggero del Maestro; e poiché sta scritto che ogni cristiano deve prediligere quel giogo, il prete bacia la stola mettendola e togliendola. La mitra a due punte del vescovo significa la scienza che egli deve avere dell’uno e dell’altro Testamento; due nastri ne pendono a ricordare che la Scrittura ha da essere interpretata secondo la lettera e secondo lo spirito. La campana del Sanctus è la voce dei predicatori. L’impalcatura alla quale è sospesa è figura della croce. La corda, fatta di tre canapi attorti, significa la triplice intelligenza della Scrittura, che deve essere interpretata nel triplice senso storico, allegorico e morale. Quando si prende in mano la corda per scuotere la campana, si esprime simbolicamente la verità fondamentale che la conoscenza delle Scritture deve esprimersi nell’azione».

Così tutto, fino al minimo gesto del sacerdote, fino alla stola che indossa, si accorda a simboleggiarlo, con il sentimento profondo che anima tutta intera la cattedrale e che, come ha ben detto Mâle, è il genio stesso del Medioevo. Mai spettacolo comparabile, specchio altrettanto gigantesco della scienza, dell’anima e della storia, fu offerto agli sguardi e all’intelligenza dell’uomo. L’identico simbolismo abbraccia anche la musica che si fa udire allora nell’immensa nave e di cui i sette toni gregoriani figurano le sette virtù e le sette età del mondo. Si può dire che una rappresentazione di Wagner a Bayreuth è men che nulla accanto alla celebrazione della Messa solenne nella cattedrale di Chartres.

Senza dubbio, solo coloro che hanno studiato l’arte religiosa sono capaci di analizzare compiutamente la bellezza di una tale celebrazione. E basterebbe questo perché lo Stato avesse l’obbligo di vegliare alla sua perpetuazione. Allo stesso modo lo Stato sovvenziona i corsi del Collegio di Francia che non si dirigono se non a un piccolo numero di persone e che, a fianco di questa integrale resurrezione, una Messa solenne in una cattedrale, appaiono fredde dissezioni. E a fianco dell’esecuzione di simili sinfonie, le rappresentazioni dei nostri teatri ugualmente sovvenzionati corrispondono a dei bisogni letterari ben meschini. Ma aggiungeremo subito che coloro che possono leggere a libro aperto nella simbolica del Medioevo non sono i soli per i quali la cattedrale vivente, vale a dire la cattedrale scolpita, dipinta, sonora, sia il più grande degli spettacoli. Allo stesso modo si può gustare la musica senza conoscere l’armonia. So bene che Ruskin, mostrando le ragioni spirituali che presiedono alla disposizione delle cappelle nell’abside delle cattedrali, ha detto: «Mai potrete incantarvi alle forme dell’architettura se non siete in simpatia con i pensieri dai quali uscirono». Non è men vero per questo che tutti noi conosciamo l’avventura dell’ignorante, del semplice sognatore che entra in una cattedrale senza tentare di comprendere, abbandonandosi alle proprie emozioni e provandone un’impressione più confusa senza dubbio, ma altrettanto forte. Come testimonianza letteraria di tale stato d’animo, assai diverso certamente da quello del sapiente che passeggia nella cattedrale come in una «foresta di simboli che l’osservano con sguardi familiari», ma che consente di provare nella cattedrale, all’ora degli uffizi, un’emozione imprecisa ma possente, citerò la bella pagina di Renan intitolata Doppia preghiera: «Uno dei più begli spettacoli religiosi che ancora si possano contemplare ai nostri giorni (e che presto non si potranno più contemplare se la Camera vota il progetto Briand) è quello che presenta, al cader della notte, l’antica cattedrale di Quimper. Quando l’ombra ha riempito le navate laterali del vasto edificio, i fedeli dei due sessi si riuniscono nella navata centrale e cantano in lingua brettone la preghiera della sera su un ritmo semplice e commovente. La cattedrale non è rischiarata che da due o tre lampade. Nella navata, da un lato stanno gli uomini, in piedi; dall’altra le donne, inginocchiate, formano come un mare immobile di cornette bianche. Le due schiere cantano alternatamente e la frase cominciata da uno dei cori è terminata dall’altro. Ciò che cantano è molto bello. Quando lo udii mi parve che con qualche leggera trasformazione lo si potrebbe adattare a tutti gli stati della umanità. Mi fece soprattutto sognare una preghiera che, grazie a certe variazioni, potesse convenire ugualmente agli uomini e alle donne». Tra questa vaga rêverie che non è senza incanto e le gioie più consapevoli del conoscitore d’arte religiosa, vi sono molte gradazioni. Ricordiamo, per memoria, il caso di Gustave Flaubert che studia, ma per interpretarlo in un sentimento moderno, una delle parti più belle della liturgia cattolica: «Il sacerdote bagnò il pollice nell’olio santo e cominciò le unzioni, sugli occhi prima … sulle sue narici ghiotte di brezze tiepide e di sentori amorosi, sulle sue mani che si erano dilettate di contatti soavi … sui suoi piedi infine, così rapidi quando correvano all’assolvimento dei suoi desideri, e che ora non camminerebbero più».

Così, dinanzi a questa realizzazione artistica, la più completa che mai fosse, poiché tutte le arti vi ebbero parte, della più grandiosa visione alla quale si sia mai elevata l’umanità, si possono sognare molte cose, e la dimora è grande abbastanza perché tutti possiamo trovarvi posto. La cattedrale che ospita tanti santi, patriarchi, profeti, apostoli, re, confessori, martiri, ove generazioni intere si affollano fino all’entrata dei portici, spesso supplici, angosciate, elevando l’edificio tremante sotto il cielo come un alto gemito, mentre gli angeli si affacciano sorridenti dall’alto delle gallerie che, nell’incenso rosa e azzurro della sera e l’oro abbagliante del mattino, appaiono veramente come i «balconi del cielo», la cattedrale, nella sua immensità, può dare asilo al letterato come al credente, al sognatore come all’archeologo; quel che importa è ch’essa resti viva, e che dall’oggi al domani la Francia non sia trasformata in un arida riva dove gigantesche conchiglie cesellate apparirebbero in secca, svuotate della vita che le abitò, e che neppure porterebbero più, all’orecchio che vi s’inchini, il vago murmure di un tempo: semplici pezzi da museo, gelidi musei esse stesse. «Non è troppo tardi, scriveva qualche anno fa André Allays, per segnalare un’idea strampalata, nata, pare nel cervello di alcuni abitanti di Vezelay. Costoro vorrebbero che si sconsacrasse la chiesa di Vezelay.

L’anticlericalismo ispira enormi idiozie. Sconsacrare quella basilica significa ritirarne l’anima che le resta. Quando si sarà spenta la piccola lampada che brilla in fondo al coro, Vezelay non sarà più che una curiosità archeologica. Vi si respirerà l’odore sepolcrale dei musei».

Solo continuando a riempire l’ufficio al quale furono prima destinate, le cose, dovessero lentamente morire al loro compito, conservano la loro bellezza e la loro vita. Si crede forse che nei musei di scultura comparata, i calchi dei celebri stalli in legno scolpito della cattedrale di Amiens possano dare un’idea di quei medesimi stalli, nella loro vecchiezza augusta e sempre operante? Mentre al museo un custode ci impedisce di accostarci ai loro calchi, gli stalli inestimabilmente preziosi, così vecchi, così illustri e così belli, continuano a esercitare ad Amiens le loro funzioni modeste di stalli, alle quali adempiono da tanti secoli con piena soddisfazione degli amienesi: come quegli artisti che, pervenuti alla gloria, non per questo abbandonano un piccolo impiego o smettono di dar lezioni. Quelle funzioni consistono, ancora prima che nell’istruire le anime, nel sopportare i corpi, e proprio a questo, rovesciati durante ciascun uffizio e mostrando il rovescio, essi vengono modestamente impiegati. Ben di più, i legni continuamente soffregati di quegli stalli hanno a poco a poco rivestito, o piuttosto lasciato affiorare quella oscura porpora che è come il loro cuore e che a tutto preferirà, fino a non poter più guardare i colori dei quadri che sembrano, dopo quelli, ben rozzi, l’occhio che una volta ne sia stato incantato. È con una sorta di ebbrezza che si gusta allora, nell’ardore sempre più infiammato del legno, ciò che è simile alla linfa, nel tempo, traboccante dall’albero. L’ingenuità dei personaggi qui scolpiti prende dalla materia nella quale vivono qualcosa come di doppiamente naturale. E in tutti quei frutti, quei fiori, quei rami, quelle vegetazioni di Amiens che lo scultore di Amiens scolpì nel legno di Amiens, i diversi strofinamenti hanno lasciato via via apparire quelle mirabili opposizioni di tono in cui la foglia si distacca, d’altro colore che il gambo, facendo pensare a quei nobili accenti che Gallé ha saputo trarre dal cuore armonioso delle querce.

Non soltanto ai canonici che seguono l’uffizio in quegli stalli, i cui braccioli, le misericordie e la ringhiera raccontano l’Antico e il Nuovo Testamento, non soltanto al popolo che riempie l’immensa nave, la cattedrale, se il progetto Briand fosse votato, si troverebbe chiusa, impedita di offrire Messa e orazioni. Dicevamo poco fa che in una cattedrale quasi tutte le immagini sono simboliche. Alcune non lo sono. Sono le immagini dipinte o scolpite di coloro che avendo contribuito con i loro denari alla decorazione della cattedrale, vollero serbarvi per sempre un posto, onde potere, dalla balaustra della nicchia o dallo sguancio della vetrata, seguire silenziosamente gli uffizi e partecipare senza rumore alle preghiere, in saecula saeculorum. Si sa che, avendo i bovi di Laon cristianamente trascinato fino in cima alla collina su cui si eleva la cattedrale i materiali che servivano a costruirla, l’architetto li ricompensò drizzando le loro statue alla base dei campanili, dove potete vederli ancora oggi, nel fragore delle campane e nel ristagno del sole, levare i capi lunati al disopra dell’arca santa e colossale fino all’orizzonte delle pianure di Francia, nella loro «meditazione interiore». Per delle bestie, era tutto quel che si poteva fare: agli uomini si accordava di meglio. Essi entravano in chiesa, vi prendevano il loro posto che serbavano anche dopo la morte e dal quale potevano continuare, come nel tempo della loro vita, a seguire il divino sacrificio, sia che affacciati fuor del sepolcro di marmo volgano leggermente la testa dal lato del Vangelo o dal lato dell’Epistola, in grado di percepire, come a Brou, e sentire attorno ai loro nomi lo stretto e infaticabile allacciarsi dei fiori emblematici e delle iniziali venerate, serbando a volte fin nella tomba, come a Digione, i colori splendenti della vita, sia che in fondo alla vetrata, nei loro manti di porpora o d’oltre mare o d’azzurro che imprigiona il sole infiammandosene, riempiano di colori i suoi raggi trasparenti e bruscamente li sciolgano multicolori, erranti senza meta per la navata che tingono. Nel loro splendore disorientato e pigro, nella loro palpabile irrealtà, essi rimangono i donatori, che, proprio per questo, avevano meritato la concessione di una preghiera perpetua. E tutti vogliono che lo Spirito Santo, nel momento in cui discenderà nella Chiesa, riconosca bene i suoi. Non soltanto la regina e il principe portano le loro insegne, le loro corone o il loro collare del Toson d’Oro. I cambiavalute si sono fatti rappresentare verificando il titolo delle monete, i pellai vendendo le loro pellicce (vedi nel libro di Mâle la riproduzione di queste due vetrate), i beccai abbattendo i bovi, i cavalieri portando il loro blasone, lo scultore scalpellando capitelli.

O voi tutti, dalle vostre vetrate di Chartres, di Tours, di Bourges, di Sens, di Auxerre, di Troyes, di Clermond Ferrand, di Tolosa, bottai, pellai, speziali, pellegrini, bifolchi, armaioli, tessitori, tagliapietre, beccai, panierai, scarpari, cambiamonete, o voi, grande democrazia silenziosa, fedeli ostinati ad ascoltare l’uffizio, non smateriati ma più belli che ai giorni della vostra vita, nella gloria di cielo e di sangue della preziosa vetrata – non udrete più la Messa che vi eravate assicurata dando per l’edificazione della chiesa i vostri più limpidi scudi. I morti non governano più i vivi, secondo la profonda parola. E i vivi, obliosi, cessano di adempiere ai voti dei morti [2].

Ma lasciamo i bottai di rubino, i panierai di rosa e d’argento inscrivere sul fondo della vetrata la «muta protesta» che Jaurès saprebbe renderci con tanta eloquenza e che lo supplichiamo di far giungere alle orecchie dei deputati; e, dimenticando quel popolo innumerevole e silenzioso, avi d’elezione di cui la Camera non si preoccupa minimamente, per concludere, riassumiamo.

In primo luogo: la protezione anche delle più belle opere di architettura e di scultura francesi, che morranno il giorno nel quale non serviranno più al culto delle necessità dalle quali son nate, che è la loro funzione come essi sono i suoi organi, che è la loro spiegazione perché esso è loro anima, impone al governo il dovere di esigere che il culto sia perpetuamente celebrato nelle cattedrali, laddove il progetto Briand l’autorizza a fare delle cattedrali, in capo a qualche anno, i musei o le sale di conferenze (a immaginare il meglio) che gli piacerà, e persino, se il governo non prende questa iniziativa, autorizza il clero, se ne trovasse l’affitto troppo elevato (e poiché non avrà più aiuti, si può dire per forza) a non celebrarvi più uffizi.

In secondo luogo: la conservazione del più grande complesso artistico che si possa concepire, storico e pure vivo, e per la ricostruzione del quale non si indietreggerebbe dinanzi ad alcuna spesa se non esistesse più, vale a dire la Messa nelle cattedrali, impone al Governo il dovere di sovvenzionare la Chiesa cattolica per il mantenimento di un culto che importa ben altrimenti, alla conservazione della più nobile arte francese (per continuare a limitarci a questo punto di vista profano) che non tutti i conservatori, teatri di prosa o di musica, imprese di ricostruzioni di tragedie antiche al teatro di Orange, ecc. ecc., tutte queste associazioni avendo un fine d’arte contestabile, e preservando opere in gran parte trascurabili (che cosa rimane, dinanzi al coro di Beauvais o le statue d iReims, del Jour, dell’Aventurière o del Gendre de M. Poirier?), mentre l’opera che è la cattedrale del Medioevo con le sue mille figure dipinte o scolpite, i suoi canti, i suoi uffizi, è la più nobile di tutte le opere alle quali si sia mai innalzato il genio di Francia.

E non abbiamo parlato in questo articolo se non delle cattedrali, per dare a tali conseguenze del progetto Briand la loro forma più impressionante, la più oltraggiosa per lo spirito del lettore. Ma è noto che la distinzione tra le chiese cattedrali e le altre è del tutto artificiosa, poiché basterebbe, in occasione di una festa, rizzarvi la cattedra di un vescovo perché la chiesa divenisse momentaneamente cattedrale. Ciò che ho detto delle cattedrali si addice a tutte le belle chiese di Francia e si sa che ve ne sono migliaia. Seguendo una strada francese tra i campi di lupinella e i pomari che si allineano d’ambo i lati per lasciarla passare «così bella», quasi a ogni passo scorgerete un campanile che si leva contro l’orizzonte nuvoloso o chiaro, traversando, nei giorni di pioggia luminosa, un arcobaleno che, come una mistica aureola riflessa sul cielo, prossimo all’interno stesso della chiesa semiaperta, vi giustappone i suoi ricchi e precisi colori di vetrata; quasi a ogni passo scorgerete un campanile elevantesi, al disopra delle case volte a terra, come un ideale che si lancia nella voce delle campane alla quale si mischia, se vi avvicinate, il gridio degli uccelli. E bene spesso potrete affermare che la chiesa, al disopra della quale esso si leva così, contiene belli e gravi pensieri scolpiti e dipinti, e altri pensieri che, non chiamati a una vita così precisa, sono rimasti più vaghi, allo stato di belle linee architettoniche, ma altrettanto possenti, se pure più oscuri, e capaci di rapire la nostra immaginazione nello zampillo del loro slancio o di racchiuderla tutta intera nella curva della loro caduta. Là, dalle balaustre incantevoli di un balcone romanico o dalla soglia misteriosa di un portale gotico socchiuso, che fonde all’oscurità illuminata della chiesa il sole dormente all’ombra dei grandi alberi che la circondano, noi dobbiamo continuare a vedere la processione che esce dall’ombra multicolore spiovente dagli alberi di pietra della navata e imbocca nella campagna, di tra le colonne tarchiate, sormontate da capitelli di fiori e di frutti, quei sentieri dei quali si può dire, come il Profeta diceva del Signore: «Tutti i suoi sentieri sono pace».

Infine, non abbiamo invocato sin qui che un interesse artistico. Ciò non vuol significare che il progetto Briand non ne minacci ben altri e che a questi altri noi siamo indifferenti. Ma insomma, è da questo punto di vista che abbiamo voluto porci. Il clero avrebbe torto a respingere l’aiuto degli artisti. Poiché, a vedere quanti deputati, appena finito di votare leggi anticlericali, partono per un giro delle cattedrali d’Inghilterra, di Francia o d’Italia, ne riportano alla loro moglie una vecchia pianeta per farne un mantello o una portiera, elaborano nei loro studi progetti di laicizzazione davanti alla riproduzione fotografica di una «Deposizione dalla Croce», contrattano a un rivendugliolo uno sportello di pala d’altare, vanno a cercare fino in provincia, per la loro anticamera, frammenti di stalli di coro che serviranno da portaombrelli e il venerdì santo, alla «schola cantorum», se non addirittura alla chiesa di San Gervais, ascoltano «religiosamente», come si dice, la Messa di Papa Marcello, è pensabile che il giorno nel quale avremo persuaso tutte le persone di gusto dell’obbligo che incombe al governo di sovvenzionare le cerimonie del culto, avremo trovato come alleati e sollevato contro il progetto Briand buon numero di deputati, anche anticlericali.

Note al testo

[1] In realtà le prime due frasi non furono pronunziate dal Cristo. La liturgia le applica di preferenza alla Vergine Maria [N.d.T.].

[2] Proust si riferisce all’usurpazione dei legati di Messe da parte del governo francese [N.d.T.].

Note sopra la Liturgia

di Cristina Campo

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Negli Apophtegmata Patrum è detto come il demonio sia incapace di conoscere i nostri pensieri perché di un’altra natura dalla nostra, ma come egli possa indovinarli osservando i movimenti del nostro corpo. Di quella spia egli profitta per tenderci i suoi tranelli: donde l’importanza data in ogni tempo al comportamento esteriore e la spontanea venerazione per chi l’abbia perfetto. Costui, oltre a creare intorno a se stesso un anello di purezza inviolabile, sta in certo modo compiendo un esorcismo a beneficio di quanti gli sono prossimi. “Beato” dice san Francesco “quell’uomo che non vuole nei suoi costumi e nel suo parlare esser veduto né conosciuto se non è in quella pura composizione e in quello adornamento semplice del quale Iddio lo adornò e compose”.  È comprensibile che un maestro spirituale insistesse presso i suoi discepoli sulla liturgia solitaria, atteggiamento del corpo durante l’orazione anche soltanto mentale, consigliasse di pregare in piedi, compiendo tutti i gesti prescritti, come in coro, “come se i fratelli assenti fossero presenti”. E che un’educatrice di genio, Hélène Lubienska de Lanval, imponga prima di tutto ai bambini la recitazione di pochi versetti biblici accompagnata da taluni gesti e cerimoniali significativi: preparando il calco esteriore alla colata del contenuto che verrà più tardi: intellettuale prima, spirituale poi. Si sa di molte conversioni dovute alla predicazione, ma la scintilla può scoccare da un solo, perfetto gesto liturgico; c’è chi s’è convertito vedendo due monaci inchinarsi insieme profondamente, prima all’altare poi l’uno all’altro, indi ritrarsi nei penetrali del coro.

In un mondo nel quale l’uomo lentamente muore per mancanza non già di riverenza, come i filantropi vorrebbero indicarci, ma perché non sa più chi, non sa più che cosa riverire, un gesto simile può mutare una vita. E non appare strano, avendolo visto, che a santa Gertrude il Cristo sia apparso per la prima volta “nell’ora dolcissima di Compieta”, mentre ella si rialzava da un inchino profondo col quale aveva riverito una monaca più anziana. Al posto di quella vide il “delicato giovinetto”, “tale nell’aspetto quale allora la mia giovinezza sarebbe stata lieta di vedere anche con gli occhi del corpo”. Con l’ultimo inchino sparirà forse da questa terra l’ultima vicenda degna di venerazione.

La liturgia è dunque il santo esorcismo. Santo e per così dire naturale. I gesti sacri lo sono anche in senso biologico, perché da tradizioni millenarie legati a numeri ai quali la vita dell’uomo arcanamente risponde: il tre, il sette, il dieci e così via. Uno studioso, Sambucy, ha notato come nella Messa siano contenuti gli atteggiamenti rituali più puri della contemplazione yoga, per esempio al Canone, allorché il sacerdote prega a braccia aperte e sollevate geometricamente, unendo i pollici agli indici; ma da noi si tende, incomprensibilmente, a trovare arbitrario, gratuito e sostituibile lo splendore di consimili gesti o la meravigliosa complicazione di certe regole cerimoniali: come quella, tutta ruotante intorno al numero tre e al mistico rapporto tra il cerchio e le rette (in modum circuli, in modum crucis), che informa, nella Messa solenne, la incensazione delle oblate. L’uomo così impegnato in gesti significativi adempie all’opus Dei non soltanto in senso sacro ma anche in senso naturale, affidando il respiro al ritmo infallibile del canto (che, con le lunghezze armoniosamente diseguali dei versetti, dilata e varia il giuoco del soffio nei polmoni) e lasciando che tutto il corpo ritrovi, in quella stretta e trascendentale disciplina, le sue leggi e i suoi numeri segreti. Lode davvero trinitaria, nella quale il corpo è fatto sentimento, il cuore pensiero e l’intelletto contemplazione. Oggi si direbbe che quell’insano terrore che induce l’uomo ad aggredire la natura nel momento stesso che la fugge, lo spinga ad interrompere anche il grande esorcismo spirituale del gesto, introducendovi sempre più ciecamente cunei di vita profana: voci scomposte, ordini, illuminazioni inopportune, oggetti non rituali e, mostruosamente, il microfono, che rende grottesca la voce umana, assurde le tragiche vesti, anacronistico il gesto cerimoniale: giacché sarà sempre il nobile a pagare per il predone.

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Liturgia è celebrazione dei divini misteri. È anche la grande esoterica del cattolico, che solo dopo una lunga frequentazione della liturgia terrena sarà in grado di presagire qualcosa della liturgia celeste. È, infine, desiderio di glorificare la divinità ricomponendo sulla terra, come stampate da un’ombra, le meraviglie del cielo: il giro degli astri, il succedersi delle stagioni, il mistero del tempo, l’itinerario della mente a Dio. Assistendo a una celebrazione liturgica solenne o anche soltanto a un Vespro bene ufficiato (è chiaro che parliamo e abbiamo parlato finora della tradizionale liturgia latino-gregoriana), si avrà l’impressione immediata di un moto astrale, di un’orbita celeste. E subito il Breviario lo conferma: piccolo libro zodiacale e cosmologico, currens per anni circulum, dove ciascuna ora canonica celebra una fase della luce, come negli Inni delle Piccole Ore, un momento della creazione del mondo, come negli Inni dei Vespri, o il graduale passaggio dalla notte al giorno, dal peccato all’illuminazione, come negli Inni dei Mattutini. Fin nelle ultime sfumature la varietà dei toni, le diverse cadenze musicali di uno stesso inno, salmo o responsorio a seconda del tempo liturgico, della solennità o della stagione (tonus vernalis, tonus hiemalis) – l’ “immensa e delicata” liturgia mostra di ben portare il nome che le diede san Benedetto, opus Dei, giacché l’uomo non vi ha ruolo che di interprete delle grandezze di Dio e del creato. I suoi movimenti vi uniscono la lentezza maestosa delle ore con la levità della danza, mentre i paramenti, variando il loro colore, fissano all’occhio significati di morte, di risurrezione primaverile, di purgazione, di purpurea raccolta. Intorno all’immobile Sole – Cristo, Cristo stesso, nella persona del sacerdote, volge la Sua divina vicenda, e in essa coinvolge l’anno come il giorno, l’uomo in adorazione come lo stuolo dei Santi e delle Gerarchie Angeliche. Liturgia è dunque desiderio di circondare la divinità di immagini quanto possibile ad essa somiglianti, oltre che di parole da essa ricevute. Di restituire al Creatore, in virtù della Sua ispirazione, un estatico specchio della creazione. Gratias agimus Tibi propter magnam gloriam Tuam. In un tempo nel quale l’uomo, preda di forze oscure, si industria di far esplodere la vita, stravolgendone tutte le leggi e rinunciando alla sua ultima destinazione, è particolarmente affliggente per lo spirito che anche nel meraviglioso santuario della liturgia tradizionale si aprano brecce, che anche questo sistema vacilli.

3

Liturgia – come poesia – è splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile. Essa è regolata da armoniose forme e ritmi che, ispirati alla creazione, la superano nell’estasi. In realtà la poesia si è sempre posta come segno ideale la liturgia ed appare inevitabile che, declinando la poesia da visione a cronaca, anche la liturgia abbia a soffrirne offesa. Sempre il sacro sofferse della degradazione del profano. La liturgia cristiana ha forse la sua radice nel vaso di nardo prezioso che Maria Maddalena versò sul capo e sui piedi del Redentore nella casa di Simone il Lebbroso, la sera precedente alla Cena. Sembra che il Maestro si innamorasse di quello spreco incantevole. Non soltanto lo oppose alteramente alla torva filantropia di Giuda che, molto tipicamente, ne reclamava il prezzo per i poveri: “Avrete sempre i poveri, ma non avrete sempre me” – parola terribile che mette in guardia l’uomo contro il pericolo delle distrazioni onorevoli: Dio non c’è sempre e non rimane a lungo e quando c’è non tollera altro pensiero, altra sollecitudine che Se stesso – ma addirittura replicò quel gesto la sera dopo, quando, precinto e inginocchiato, lavò con le Sue mani divine i piedi dei dodici Apostoli, allo stesso modo che Maddalena, scivolando tra il giaciglio e il muro, aveva lavato i Suoi. Dio, come osservò uno spirito contemplativo, si ispira volentieri a coloro che ispira.”E l’odore si sparse per l’intera dimora”. Il nardo di Maria Maddalena profuma l’intera liturgia cristiana, più ancora del nardo soave della Sulamita, del quale tanto si parla nelle Ore di Nostra Signora, tutte intrise di aromi e di fiori. Al nardo viene giustamente comparato l’incenso, che ha il potere di disperdere l’angoscia del respiro e si leva al cospetto di Dio de manu Angeli. L’incenso è inesprimibilmente misterioso. Esso è insieme preghiera e qualcosa di più fine, più acuto della preghiera. Compone l’aroma dell’eros con quello della rinuncia, è resa di grazie ed è, come il nardo, alcunché di soavemente ferale. “Ella mi prepara per la mia sepoltura” disse il Salvatore con quell’accento che nessuno, intorno a Lui, penetrava. Nemmeno Maddalena comprese, naturalmente. Ma quando, tre giorni dopo, venne al Sepolcro con altri balsami, in cerca del corpo venerato, esso non era più là. Come sempre non l’utile aveva servito alla vera celebrazione ma il superfluo: non l’azione ma la liturgia dell’azione. La vera imbalsamazione del Corpo del Signore era già avvenuta al banchetto, e insieme anche la sola unzione regale e sacerdotale che Egli mai ricevesse su questa terra. E più ancora: un principio di sacramento, giacché il corpo ch’ella così preparava era già l’ “ostia pura, ostia santa, ostia immacolata” pronta all’offerta; e il suo bisogno di toccarlo, intriderlo di profumi e di lacrime, tergerlo con ciocche di capelli, fondersi in qualche modo con esso, qualcosa di molto simile a una comunione. Inesauribile è il gesto di Maddalena, e in realtà Cristo affermò che per sempre ci si sarebbe ricordati di esso. Ciò che lo rende inesauribile è appunto la sua gratuità: tutti i poveri della terra non potrebbero pretendere a una dramma sola di quel nardo, come tutti i poveri della terra non potrebbero pretendere a un solo grano d’incenso bruciato al cospetto di Dio con cuore ardente. Nel Mattutino del Grande Sabato del rito bizantino si cantano, rivolte a Giuda, queste parole: “Se sei l’amico dei poveri e ti rattristi dell’effusione di un balsamo per la consolazione di un’anima, come hai potuto vendere la luce a prezzo d’oro?”.

La complessità del gesto di Maddalena ne fa, come abbiamo detto, qualcosa che da liturgico diviene in qualche modo sacramentale. Ma si potrebbe ricordare, prima ancora del suo gesto, quello non meno ineffabile, se anche più semplice, dei saggissimi Magi. I quali, partiti alla ricerca di un fanciullo bisognoso di tutto, non gli recarono latte né panni ma le insegne della Sua triplice dignità di Profeta, di Sacerdote e di Re. Così mostrando che neppure Dio stesso, quando si mostri a noi perfettamente povero, ci dispensa dalla celebrazione simbolica della Sua gloria, quale è rappresentata dalla liturgia; e che questa, pur nel suo incessante attuarsi, rimane per eccellenza un’operazione contemplativa. Di una delicatezza e di una gravità che rendono, più che rischiosa, mortale ogni arbitraria modificazione.

da: [Bernardo Trevisano] “Cappella Sistina”, luglio-settembre 1966, pp. 99-102. Ripubblicato in Cristina Campo, Sotto falso nome, Milano, Adelphi, 1998, pp. 129-135